domenica 15 febbraio 2009

"Quel tanto di corpo che basta per tenersi unita l'anima"

Nei giorni scorsi è ricorso l’80° anniversario della costituzione dello Stato della Città del Vaticano (11 febbraio 1929). Al termine del concerto con cui è stata commemorata la ricorrenza giovedí scorso nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre, per giustificare l’esistenza di questo piccolo lembo di terra, ha voluto riprendere la citazione di san Francesco d’Assisi, a cui era già ricorso il suo predecessore Pio XI: “quel tanto di corpo che basta per tenersi unita l’anima”. Un’immagine molto bella, che spiega alla perfezione perché la Chiesa abbia ancora bisogno di un po’ di “potere temporale” per esercitare una missione che invece è tutta spirituale.

Coloro che studiano la storia senza i paraocchi dell’ideologia sanno che è lo stesso motivo che ha portato alla nascita dello Stato della Chiesa. Non era sete di potere (sebbene questa possa essere presente, e di fatto lo è, anche fra gli uomini di Chiesa, come in ogni altro settore della società); ma solo il bisogno di garantire alla Chiesa piena libertà nell’esercizio della sua missione. Si dirà: ma i Vescovi esercitano la loro missione pastorale senza bisogno di avere un potere temporale (come pure nel passato spesso avvenne: si pensi ai Vescovi-principi o ai Vescovi-conti). Sí, ma come è finita la libertas Ecclesiæ in Oriente (si pensi al Patriarca di Costantinopoli o a quello di Mosca) o nelle chiese protestanti (tutte chiese nazionali, dipendenti in un modo o nell’altro dallo Stato)? Se i Vescovi cattolici oggi possono esercitare liberamente il ministero, lo debbono anche all’esistenza di questo piccolo Stato (si veda la condizione dei Vescovi cinesi forzatamente separati dalla Sede Apostolica). L’esistenza della Città del Vaticano conferma l’utilità (per quanto strumentale) di un certo potere temporale associato all’autorità spirituale.

Sento già le obiezioni dei cattolici adulti postconciliari: “Ma vuoi mettere quanto è piú libera la Chiesa oggi che non ha piú lo Stato Pontificio?”. Concedo: non era piú opportuno che la Chiesa continuasse a esercitare un vasto potere temporale (per quanto quello della Città del Vaticano è un potere temporale a tutti gli effetti). Certe volte mi chiedo: ma se il Papa avesse avuto ancora lo Stato Pontificio da governare, da Roma a Bologna, come avrebbe affrontato le tante sfide odierne: droga, divorzio, controllo delle nascite, aborto, eutanasia? Molto meglio non aver da affrontare simili problemi in casa propria. Eppure mi vien da pensare che problemi morali gravi sono sempre esistiti; e i Papi in qualche modo li fronteggiavano. Un esempio: la prostituzione (il mestiere piú antico del mondo!). Non esisteva forse la prostituzione nello Stato Pontificio? E come veniva affrontata? Come qualsiasi altro governo di questo mondo potrebbe fare: con le case chiuse e le tasse (ciò che spinse, secondo Ignazio Silone, Celestino V all’abdicazione). Immagino lo scandalo di qualche “anima bella”; ma penso che non fosse del tutto negativo per i Papi dover affrontare e risolvere certi problemi (con soluzioni che erano e saranno sempre discutibili). Il vantaggio è che tali problemi costringevano i Papi a rimanere a contatto con la dura realtà. Cosa che non so se sempre avvenga nella Chiesa d’oggi. È un fatto che, da quando non esiste piú lo Stato Pontificio, la Chiesa si è estremamente intellettualizzata: dal Concilio a oggi le Edizioni Dehoniane di Bologna hanno pubblicato ben 23 volumi di Enchiridion Vaticanum. Probabilmente in questi ultimi decenni sono stati emanati piú documenti che nel resto della storia della Chiesa. “Il Verbo si è fatto carta”, ha detto provocatoriamente qualcuno. La stessa dottrina sociale della Chiesa, di cui pure sono un convinto assertore, quando è nata? Con Leone XIII, dopo la fine del potere temporale della Chiesa. Prima i problemi sociali venivano affrontati pragmaticamente; poi è stata elaborata una dottrina. Uno dei rischi della Chiesa d’oggi è l’astrazione; se poi le astrazioni vengono assolutizzate, si trasformano in ideologia. Il doverci sporcare le mani nel trattare i problemi della vita di ogni giorno, se da una parte ci espone a vari cedimenti, dall’altra ci impedisce di cadere in un pericolo ben maggiore, quello dell’ideologizzazione del cristianesimo.

Giovedí il Santo Padre ha terminato il suo intervento con un invito alla preghiera: “Domandiamo al Signore, che guida saldamente le sorti della ‘Barca di Pietro’ tra le vicende non sempre tranquille della storia, di continuare a vegliare su questo piccolo Stato. Chiediamogli soprattutto di assistere con la potenza del suo Spirito Colui che sta al timone della Barca, il Successore di Pietro, perché possa svolgere con fedeltà ed efficacemente il suo ministero a fondamento dell’unità della Chiesa Cattolica, che ha in Vaticano il suo centro visibile e si espande sino ai confini del mondo”. Nell’omelia della Messa di insediamento (24 aprile 2005) aveva detto: “Cari amici, in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre piú ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre piú il suo gregge, voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Credo che non siano inviti di circostanza: il Papa ha effettivamente bisogno delle nostre preghiere; e noi dobbiamo volentieri rispondere a questi inviti, se vogliamo che egli svolga con fedeltà e coraggio la sua missione.