martedì 30 giugno 2009

La santità della Chiesa e le debolezze dei suoi figli

Dopo aver letto il post Elogio di Paolo VI, un mio ex-alunno, David, mi ha scritto il seguente messaggio:

«Circa Paolo VI, non sarà che dopo Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XII, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II e, diciamolo, Benedetto XVI ci siamo abituati a pensare che lo straordinario in fondo è l'ordinario? Voglio dire che la Chiesa non sempre ha avuto "santi padri" che erano santi anche personalmente... Lo stesso Pietro ebbe delle debolezze enormi. In fondo, è da meno di cento anni che i papi — grazie ai mezzi di trasporto e agli strumenti di comunicazione — riescono a governare la Chiesa in modo effettivo. Non dico che prima delegassero molto... Solo che magari si faceva piú alla buona! Credi che avrebbero concesso tanti privilegi al Re di Francia se avessero potuto andare a Parigi come Giovanni Paolo II andò in Polonia nel '79? Pensa allo sforzo immane del povero Pio VI per andare a convincere Giuseppe II...
Di recente ho letto molto su Alessandro VI, il Borgia. Ecco, non un santo... Ma di fronte alle mire dei Re e dei principi, chi può dire che non fosse l'uomo giusto al momento giusto? Eppure, oggi ci pare cosí impresentabile... A confronto di santi papi che magari al posto del Borgia avrebbero fatto una figura meschina, lasciando la Chiesa in mano ai signori di questo mondo. Come il Borgia non fece mai».

In effetti, non possiamo proprio lamentarci dei Papi degli ultimi 150 anni. Qualcuno dice: "Uno piú santo dell'altro!". Non lo so; sta di fatto che di dieci Papi (lasciamo in pace, per favore, quello felicemente regnante...) succedutisi in questo secolo e mezzo (David ha dimenticato Pio XI e Giovanni Paolo I), uno è già ufficialmente canonizzato (Pio X), due sono "Beati" (Pio IX e Giovanni XXIII), di altri tre è in corso la causa di beatificazione (Pio XII, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II). Di Paolo VI non so se sia stata mai introdotta la causa, ma per me, come dicevo, è già santo. Degli altri tre (Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI), anche se nessuno mai ha parlato di santità, personalmente nutro una grandissima stima (basti pensare che l'attuale Pontefice, scegliendo il nome di Benedetto, ha fatto espresso riferimento a Papa Dalla Chiesa).

Forse ha ragione David, dicendo che ci siamo abituati un po' male; per cosí dire siamo stati un po' "viziati"; adesso abbiamo la pretesa che tutti i Papi, tutti i Vescovi, tutti i sacerdoti e tutti i fedeli siano santi. Certo, la santità è una vocazione per tutti: ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II (un aspetto del Concilio che spesso siamo portati a dimenticare). Per qualcuno (le persone consacrate), la santità è addirittura una specie di "dovere". OK. Ma stiamo attenti a non assolutizzare troppo questo discorso, quasi che, se gli uomini di Chiesa non sono santi, non svolgono piú il ruolo loro affidato da Cristo e, con ciò, la Chiesa cessa di compiere la sua missione.

Certamente, come ci sta ricordando il Papa in questo inizio di Anno sacerdotale, il comportamento non proprio esemplare di alcuni ministri danneggia non poco l'immagine della Chiesa; ma ciò non significa che Dio non possa compiere la sua opera anche attraverso strumenti imperfetti. Un esempio fra tanti: Padre Marcial Maciel Degollado. La Chiesa compie la sua missione al di là delle capacità e dei meriti dei suoi ministri. Ovviamente, quel che fa un sacerdote santo (in questi giorni ce ne sono stati riproposti due esempi: il Curato d'Ars e Padre Pio) vale molto di piú di quanto fanno (o, talvolta, non fanno) mille sacredoti scalcagnati; ma, in ogni caso, anche questi ultimi fanno la loro parte. Per esempio, nessuno ci ricorda che, a San Giovanni Rotondo, accanto al confessionale di Padre Pio c'erano altri confessionali con qualche fraticello sicuramente meno santo di Padre Pio, pronto a dare l'assoluzione a quanti non venivano assolti dal Santo stigmatizzato.

David ci rammenta il caso di Alessandro VI. Purtroppo non ho mai avuto occasione di approfondire la figura di Papa Borgia, per cui preferisco non pronunciarmi. Certo, non posso annoverarmi fra i suoi ammiratori; ma puoi darsi che abbia ragione David quando afferma: "L'uomo giusto al momento giusto".

Da parte mia, condivido pienamente la nota definizione di Chiesa data dal Card. Biffi: "La bellisima Sposa di Cristo rivestita di stracci". Quel che vediamo sono gli stracci; questi stracci ci impediscono di contemplare la bellezza della Sposa di Cristo, ma non eliminano quella bellezza. La Chiesa è santa anche quando noi, suoi membri, lo siamo un po' meno. Gli scandali che oggigiorno stanno travolgendo il clero (ma che non sono nulla di nuovo nella storia della Chiesa) offuscano l'immagine della Chiesa, ma nulla tolgono alla sua natura e alla sua missione.

Quanto ai mezzi di trasporto e agli strumenti di comunicazione, magari ne parleremo un'altra volta.

lunedì 29 giugno 2009

L'eredità di Paolo

Ieri sera il Santo Padre ha concluso l'Anno paolino (e ci ha dato la meravigliosa notizia che l'Apostolo è realmente sepolto nella sua basilica). Di solito, al termine di questi anni un po' speciali, proviamo un certo rammarico, perché ci accorgiamo che, nonostante i buoni propositi, non abbiamo sfruttato appieno l'occasione che ci veniva offerta. All'inizio, pensiamo di avere tanto tempo innanzi a noi; poi non ci rendiamo conto che il tempo vola e ci ritroviamo alla fine senza aver attuato la maggior parte dei nostri buoni propositi. Anche in questo caso dobbiamo lamentare di non aver approfondito abbastanza la conoscenza di San Paolo e di non aver ravvivato abbastanza in noi il suo spirito. Ma, se anche solo chiudiamo questo anno col dispiacere di non aver fatto abbastanza e col desiderio di fare qualcosa di piú, credo che sia già un buon risultato. Se non abbiamo meditato abbastanza le lettere dell'Apostolo durante quest'anno, possiamo farlo in futuro, cominciando oggi stesso. Non credo che lui si offenda. Anzi...

Se ci chiedessimo quale sia l'eredità che Paolo ci lascia al termine di questo anno a lui dedicato, penso che possiamo trovarla nelle parole che leggiamo nella liturgia odierna:

«Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4:7).

Come se ci dicesse: "Io ho fatto la mia parte; ora fate la vostra. Io ho finito di combattere la mia battaglia; ora cominciate a combattere la vostra battaglia. Io ho terminato la mia corsa; ora iniziate la vostra corsa. Se finora ve ne siete stati tranquilli, sappiate che è giunta l'ora del combattimento; se finora siete stati fermi, cominciate a correre. Non basta camminare, bisogna correre. Non c'è tempo da perdere: è in gioco la salvezza dell'umanità. Non crediate che per me sia stata facile: pericoli, persecuzioni, tentazioni, umiliazioni; ma, attraverso tali prove, con la grazia di Dio, ho conservato la fede. Ora, questa fede, l'affido a voi; anche voi dovete conservarla pura come io l'ho ricevuta e l'ho trasmessa a voi. Conservatela e trasmettetela a vostra volta. È un dono che non ci appartiene: lo abbiamo ricevuto nonostante ne fossimo indegni e ora, senza contaminarlo, dobbiamo consegnarlo ad altri, perché esso possa raggiungere gli estremi confini della terra e rimanere intatto fino alla fine dei tempi. Io ho fatto tutto quello che potevo fare: ho speso la mia vita e ho versato il mio sangue. Ora tocca a voi".

domenica 28 giugno 2009

XIII domenica "per annum"

Potremmo riassumere l'odierna liturgia in due parole: FEDE e TATTO. Tanto Giairo quanto l'emorroissa ripongono tutte le loro speranze in un contatto fisico con Gesú:

«La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva»;

«Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata».

Secondo la loro fede
semplice, basta toccare Gesú (addirittura, basta toccare il suo mantello) per essere salvati.

Noi, cristiani "adulti", guardiamo con sufficienza a questa fede; anzi, non la chiamiamo neppure fede: per noi essa è semplice "superstizione". Toccare? Che bisogno c'è di toccare? La fede è qualcosa di puramente spirituale. Se vogliamo essere veri credenti, dobbiamo purificare la nostra fede da tutti i residuati paganeggianti e renderla un atto totalmente spirituale.

Ma, a quanto pare, Gesú non disdegna la fede arcaica di Giairo e dell'emorroissa; anzi, l'approva e la incoraggia:

«Figlia, la tua fede ti ha salvata»;

«Non temere, soltanto abbi fede!».

E lui stesso sta al gioco:

«E subito Gesú, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?"».

Naturalmente gli esegeti si affretteranno a precisare che qui il vangelo riflette una mentalità primitiva, una concezione piuttosto fisicistica della salvezza, che non va presa alla lettera, ma interpretata in senso spirituale. Non so però come spiegheranno il gesto che Gesú compie sulla figlia di Giairo:

«Prese la mano della bambina e le disse: "Talità kum"».

Sí, la prese per mano. Che bisogno c'era? Non bastava dirle: "Alzati"? No, a quanto pare non bastava, perché Gesú la prese per mano. Se lo ha fatto ci sarà pur stato un motivo. E il motivo va ricercato nel mistero dell'incarnazione:

«Il Verbo si fece carne» (Gv 1:14).

Perché si fece carne? Solo per essere visto? Se cosí fosse, avrebbe potuto ritardare di qualche secolo l'incarnazione e rendersi visibile ai nostri giorni (nella "civiltà dell'immagine") in maniera virtuale. Come diavolo li chiamano quella specie di cartoni animati che sembrano veri? avatar? Ebbene, se Gesú si fosse fatto avatar, lo avremmo visto ugualmente e ci avrebbe potuto comunicare lo stesso la sua parola. E invece "il Verbo si fece carne". Giovanni testimonia che loro — gli apostoli — non solo videro e udirono Gesú, ma lo toccarono:

«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita ... quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi» (1 Gv 1:1.3).

Dunque non entrano in gioco soltanto due sensi (vista e udito), ma tre: alla vista e all'udito si aggiunge il tatto. Non basta vedere, non basta udire, bisogna anche toccare. Per questo il Verbo si è fatto carne: perché potessimo toccarlo e, toccandolo, essere salvati. Toccare Gesú significa toccare il Verbo della vita, significa toccare Dio stesso. Solo attraverso un contatto fisico con lui la nostra umanità può essere risanata.

venerdì 26 giugno 2009

Alcune precisazioni e qualche risposta

I miei ultimi due post ("Il frutto piú amaro del Concilio" e "Elogio di Paolo VI") hanno avuto una discreta risonanza: sono stati rilanciati da altri blog e siti e ampiamente commentati (o nei blog che li riprendevano o con me direttamente, tramite posta elettronica).

A questo punto mi sento in dovere di fare alcune precisazioni, oltre che di rispondere a quanti mi hanno scritto.

1. La prima precisazione riguarda i commenti, che non sono abilitati su questo blog. Ne ho già parlato i primi giorni, ma non posso pretendere che i nuovi lettori vadano a leggersi i primi post pubblicati. Per cui penso che sia opportuno ripetere i motivi di questa scelta. Non sono un blogger di professione; sono un sacerdote missionario. Ho iniziato quest'attività quasi per gioco (anche se c'era in quei giorni dentro di me una certa rabbia, che dovevo in qualche modo sfogare). Non pensavo minimamente che il blog avrebbe avuto il successo che ha avuto: mi sono reso conto che non solo c'era spazio per una voce che andava ad aggiungersi alle innumerevoli voci già online, ma che questa voce era pure apprezzata da molti. Per questo motivo, continuo a pubblicare post piú per dovere che per piacere, perché so che qualcuno li attende. La prendo come una nuova forma di apostolato, anche se mi rendo conto che tutto è relativo, per cui da un momento all'altro le cose potrebbero cambiare. Ebbene, perché non ho abilitato i commenti? Perché, sinceramente, non ce la farei a starci dietro; mi richiederebbero troppo tempo, un tempo che non ho e, se anche lo avessi, preferirei spendere in modo diverso. Gestire i commenti di un blog non è questione facile; vedo ciò che è accaduto e accade in altri blog: in qualche caso il mancato controllo degli interventi ha portato a scelte esiziali per il sito (vedasi Effedieffe). Purtroppo, spesso (non sempre, per fortuna) l'agorà della discussione si trasforma in un'arena di gladiatori: se non si moderano i commenti, la situazione rischia di sfuggire di mano. Questo controllo, io non posso in alcun modo farlo.

2. Ciò significa che non gradisco essere messo in discussione? Niente affatto; anzi, il contraddittorio è molto gradito, purché fatto con civiltà. L'unica cosa che non sopporto è che degli "Anonimi" si permettano di criticare con superficialità e sufficienza le idee di chi si espone con nome e cognome (e foto). Non penso di pretendere troppo se desidero che i commenti siano fatti con lo stesso impegno con cui i post vengono scritti, siano frutto di riflessione e non di reazione immediata, e siano pertinenti all'argomento trattato. Tutto ciò può essere fatto tranquillamente attraverso la posta elettronica. Nel profilo si può trovare il mio indirizzo email. A questo proposito, vorrei pregare tutti coloro che mi scrivono di utilizzare d'ora in poi l'indirizzo "querculanus@gmail.com" e non piú "scalese@gmail.com". Questo, semplicemente perché vorrei mettere un po' d'ordine nella mia posta elettronica e raccogliere tutti i messaggi attinenti al blog in un'unica cartella (e non dimenticare di rispondere a qualcuno).

3. Avrete notato che ultimamente i post si sono diradati. Forse vi devo una qualche spiegazione. Sono stato trasferito in un altro paese, che per il momento, per motivi di prudenza (no, state tranquilli, non rischio la vita), preferisco non rivelare. Dove mi trovo attualmente ho meno tempo a disposizione, spesso manca la luce e, anche quando c'è la corrente, la connessione a internet non funziona. Tutto ciò non mi permette di organizzare la mia giornata come vorrei, dedicando un certo tempo alla lettura, un po' di tempo alla stesura dei post, e il resto ad altre attività. Le mie giornate sono, per il momento, alquanto irregolari e disordinate (cosa non buona per un religioso); per cui ho dovuto ridurre la frequenza di pubblicazione dei post. Sono sicuro che capirete.

E ora veniamo alle risposte.

1. Non pretendo che tutti abbiano avuto la medesima esperienza di Paolo VI. Ho detto nel mio post che si trattava di una testimonianza personale, che vale quel che può valere. Dico però che se uno non ha mai avuto la fortuna di incontrare personalmente Papa Montini e di ascoltarlo, non può capire quel che ho scritto. Posso essere schietto? Quel che provavo quando sentivo parlare Paolo VI non l'ho mai sperimentato nei 27 anni successivi (senza con ciò nulla togliere ai meriti di Papa Wojtyla). Voi direte: solo una questione emotiva. Può darsi che sia vero: Paolo VI è stato il Papa della mia giovinezza. Ma credo di aver dimostrato razionalmente, al di là dei sentimenti, che cosa ha fatto Papa Montini per la Chiesa. A quel che ho già scritto, potrei aggiungere, come mi rammenta Gianni, il Credo del Popolo di Dio (di cui abbiamo scoperto recentemente i retroscena). Ma vorrei aggiungere un altro "schiaffo" al Concilio da parte di Paolo VI (forse non cosí forte come la "Nota praevia" o l'avocazione a sé di celibato e contraccezione, ma in ogni caso un gesto significativo). Nella Lumen gentium c'è un capitolo sulla Madonna, dove questa ci viene presentata come "figura della Chiesa" (typus Ecclesiae): Maria è un membro della Chiesa, una di noi, una come noi, al massimo un modello da imitare. Tutto vero. Ma che cosa ti fa Paolo VI? Al termine del terzo periodo del Concilio (21 novembre 1964), nel momento stesso della promulgazione della Lumen gentium, proclama la Beata Vergine Maria "Madre della Chiesa", in barba ai teologi e ai Padri conciliari...

2. Alessandro, a proposito dell'Ostpolitik di Montini, mi fa notare che l'accordo con i sovietici mirava a evitare una possibile ritorsione dei regimi comunisti contro i cattolici, ritorsione che avrebbe probabilmente fatto séguito a una eventuale condanna del comunismo da parte della Chiesa. E aggiunge che le condanne precedenti del comunismo (di Pio XII e Giovanni XXIII) rimasero invariate anche durante tutto il Concilio Vaticano II. Accolgo volentieri tale precisazione, anche se non ho elementi per esprimere un giudizio personale. Dico solo che tali questioni, anziché dai giornalisti, andrebbero approfondite dagli storici. Da parte mia ribadisco che non sono mai stato un fautore della Ostpolitik vaticana. Anche se ora la situazione è radicalmente cambiata (per cui le mie valutazioni storiche sono in fase di rielaborazione), dico sinceramente che la politica dei compromessi con le ideologie non mi è mai piaciuta né durante l'illuminismo, né al tempo del nazismo, né all'epoca del comunismo, né oggi, né mai (chi ha orecchi per intendere...).

3. Don Gianluigi mi scrive: Paolo VI "ha assolto il suo ministero come chi dà regole direttive, enuncia delle verità, richiama i principi, redige documenti, ma ha rinunciato a veri e propri atti di governo, di potestà obbligante che è sempre stata considerata parte integrante del supremo officio pontificale. Senza questi atti l'insegnamento stesso della verità risulta inefficace e rimane solo astratto. Per difendere la vera dottrina occorrono due cose: a) rimuovere l'errore in sede dottrinale, il che si realizza confutando gli argomenti dell'errore e dimostrando la loro infondatezza; b) rimuovere l'errante, cioè privarlo del suo ruolo nella chiesa affinché non sparga l'errore". E continua dicendo che Papa Montini è stato autoritario con i tradizionalisti e debole con i progressisti, che non ha vigilato sulla riforma liturgica ed è stato eccessivamente tollerante con gli abusi. Rispondo: sarà anche vero che Paolo VI è stato debole e tollerante con le persone. Ma per me questo non è una colpa; è piuttosto una virtú. Papa Montini era un gran signore: credeva nelle persone, si fidava di loro, lasciava spazio alla loro iniziativa. Che questo sia rischioso, non c'è dubbio; ma personalmente preferisco aver a che fare con un superiore di questo genere piuttosto che con uno autoritario, che non dà spazio e non si fida di nessuno. Ma quando si accorgeva che qualcuno approfittava della sua fiducia diventava inflessibile. Credo che sia un caso unico nella storia della Chiesa il trasferimento su due piedi di Mons. Bugnini a Teheran (altro che promozioni, come di solito si fa). Non mi risulta che sia stato mai pubblicato un Messale che potesse dare adito a sospetti di eresia. È vero che la prima edizione dell'Ordo Missae lasciava ancora molto a desiderare, ma fu subito modificata. Non mi scandalizza affatto che, a lavori ancora in corso, potesse venir fuori qualcosa di discutibile. Ciò che conta è il risultato finale, il quale, ancorché perfettibile, non può essere in alcun modo tacciato di eresia. Il fatto che Paolo VI accolse la critica dei Cardinali Ottaviani e Bacci dimostra che non era sordo alle istanze dei tradizionalisti. Fu lui stesso di persona a volere la conservazione dell'Orate fratres, per sottolineare il valore sacrificale della Messa. No, nella difesa della dottrina Paolo VI non può in alcun modo essere messo sotto accusa (e fu una difesa motivata, che confutava gli argomenti contrari). È stato tollerante con le persone; ma ciò, a mio parere, nonché diminuire, accresce la sua grandezza.

mercoledì 24 giugno 2009

Elogio di Paolo VI

In questi giorni si fa un gran parlare di Paolo VI. L'occasione è data dalla pubblicazione del libro di Andrea Tornielli, Paolo VI. L'audacia di un Papa, Mondadori. Significa che il vaticanista del Giornale ha fatto un buon lavoro. Peccato che, almeno per il momento, non posso leggerlo; speriamo di poterlo fare quanto prima. Qui vorrei soltanto portare, per quanto può valere, la mia testimonianza personale su Papa Montini.

Anche se, come dice Messori, Tornielli "smentisce gli stereotipi su Paolo VI", quegli stereotipi, a quanto pare, fanno fatica a scomparire. Tutte le volte che si scrive qualcosa su di lui, si ripetono sempre le solite banalità: Papa amletico, raffinato intellettuale, distaccato e incompreso dalle folle, ecc. ecc. Ma è mai possibile che ancora non ci si renda conto che siamo tutti vittime di campagne mediatiche? Chi ha deciso che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono stati Papi amati dalle folle, mentre Paolo VI e Benedetto XVI non riescono a incontrare il favore popolare? I media. Ma siamo proprio cosí sicuri che ciò corrisponda alla realtà?

Personalmente ritengo che Paolo VI sia stato uno dei piú grandi Papi del XX secolo. Ha un merito grandissimo: ha saputo portare a conclusione il Concilio (impresa certo non facile) e poi ha realizzato l'applicazione del Concilio (impresa ancora piú difficile). La Chiesa, grazie al Cielo, è guidata dallo Spirito di Dio: forse c'era bisogno di un Papa un tantino incosciente come Giovanni XXIII per convocare il Vaticano II, ma certamente lui non si rendeva conto di che cosa bolliva in pentola e di che cosa avrebbe significato convocare un Concilio. Come giustamente ricorda Messori, Papa Roncalli pensava di cavarsela in pochi mesi, con l'approvazione unanime degli schemi preparati dalla Curia Romana; pensava di ripetere per la Chiesa intera l'esperienza del Sinodo Romano (e questo la dice lunga sul tanto sbandierato "progressismo" del "Papa Buono"). Una volta avviato il Concilio, ci pensò la Provvidenza a sostituire il direttore d'orchestra. Montini era certamente ben visto dai novatores (per la sua apertura mentale e la sua formazione), ma ben presto questi cambiarono il loro giudizio su colui che speravano avrebbe realizzato i loro piani. Quali furono le "colpe" commesse da Paolo VI agli occhi della lobby progressista?

Innanzi tutto, Papa Montini diede una svolta al Concilio: quello che doveva essere semplicemente, nei programmi di Giovanni XXIII, un concilio "pastorale", divenne un concilio "ecclesiologico", che si proponeva di portare a termine l'opera iniziata dal Vaticano I. È ovvio che in tal modo si dava al Concilio una valenza dottrinale che, nei piani iniziali, non avrebbe dovuto avere.

Una colpa ancora piú grave fu la "Nota praevia" alla Lumen gentium. I progressisti erano riusciti a far passare un concetto di collegialità che metteva fortemente in discussione il primato pontificio. Paolo VI, dimostrando un grande senso di rispetto verso il Concilio, non volle modificare la costituzione che era stata approvata, ma volle che fosse integrata da una "Nota praevia", alla cui luce essa avrebbe dovuto essere interpretata, per evitare qualsiasi ambiguità.

Altra colpa di Paolo VI fu quella di aver avocato a sé certi temi molto "sensibili", sui quali ancor oggi si continua a tornare in maniera ossessiva: celibato e contraccezione. Credo che questa non gliel'abbiano mai perdonata: aver esautorato il Concilio! Quando poi, in entrambi i casi, confermò l'insegnamento tradizionale (con la Sacerdotalis caelibatus e l'Humanae vitae) si arrivò allo scontro frontale, che dura tuttora.

E voi un Papa cosí lo chiamate amletico, indeciso? Ma per favore... Mi fanno poi ridere i tradizionalisti radicali che accusano Paolo VI di aver distrutto la Chiesa. Ma è possibile che non ci si renda conto che Papa Montini la Chiesa l'ha salvata? In confronto a quel che ha fatto Paolo VI, Giovanni Paolo II ("il Grande") — absit iniuria verbo — scompare: Papa Wojtyla si è trovata la pappa bell'e fatta; le grandi scelte erano state già compiute; si trattava solo di portare avanti un programma ormai avviato. Paolo VI, no: lui si è trovato a governare la Chiesa in un momento in cui tutto veniva messo in discussione; non c'era piú nulla di certo; non si sapeva piú che cosa fosse doveroso conservare e che cosa fosse possibile cambiare. Chi fece tale discernimento (che oggi ci pare ovvio, ma allora non lo era) fu Paolo VI. La Chiesa ha un immenso debito nei suoi confronti.

Ma, al di là dei meriti che nessuno, se non stolto, può contestare, vorrei aggiungere che non è affatto vero che Papa Montini fosse distaccato e perciò incompreso dalla gente. Egli aveva un'umanità straordinaria che poteva essere percepita da chiunque lo accostasse. Ho sentito io con i miei orecchi le suorine che gridavano con la loro esile voce: "Santo Padre, ti vogliamo bene!", mentre passava con la sedia gestatoria e la gente correva per accompagnarlo e acclamarlo. È vero, non c'erano i cori da stadio dei pontificati successivi, ma la gente gridava con spontaneità e semplicità: "Viva il Papa!".

Fu Paolo VI a iniziare la prassi delle udienze generali del mercoledí: non c'erano le folle di oggi, naturalmente; ma, forse anche per questo, erano dei momenti di un'intensità straordinaria. Ricordo che, quando ero studente di filosofia all'Angelicum, siccome non avevamo lezione al mercoledí, quando potevo, andavo all'udienza (a quell'epoca era molto facile accedere all'Aula Nervi), per poter ascoltare le bellissime catechesi di Paolo VI. Oltre ai contenuti, sempre chiari e profondi, era un piacere sentirlo: curava anche la forma, sceglieva le parole adatte, le pronunciava col cuore. Già, il cuore di Paolo VI... "se il mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe, assai lo loda e piú lo loderebbe". Ne sapeva qualcosa Mons. Lefebvre, che fu ricevuto e abbracciato paternamente da Papa Montini.

Questo non significa che accettassi tutto di Paolo VI. Molto spesso lo criticai, perché non capivo certi suoi atteggiamenti. Per esempio, non ho mai condiviso la sua Ostpolitik. In questi giorni sta facendo discutere molto l'accordo segreto con l'Unione Sovietica, perché non si parlasse in Concilio di comunismo. È stato giustamente fatto notare che si trattava di un accordo precedente, sottoscritto da Giovanni XIII; ma comunque Papa Montini portò avanti questa politica di compromesso con il comunismo, che personalmente non ho mai condiviso. Il momento di massimo disaccordo fu quando Paolo VI si "inginocchiò" davanti alle Brigate Rosse, un gesto lodato da tutti a quel tempo, ma che io non ho mai capito. Ma queste incomprensioni fanno parte della vita e non tolgono nulla alla stima e all'affetto che mi legavano e tuttora mi legano a lui. Me ne accorsi quando morí: provai gli stessi sentimenti che avevo sperimentato l'anno prima, alla morte di mio padre. E piansi. E credo di non essere stato il solo.

Paolo VI per me non è solo un grande Papa; non è solo un santo e un dottore della Chiesa. È un padre.

martedì 23 giugno 2009

Il frutto piú amaro del Concilio

Sul primo post di questo blog elencavo una serie di frutti non previsti e non desiderati del Concilio Vaticano II:

«La riforma liturgica ha rese deserte le chiese; il rinnovamento della catechesi ha diffuso l’ignoranza religiosa; la revisione della formazione sacerdotale ha svuotato i seminari; l’aggiornamento della vita religiosa sta mettendo a rischio l’esistenza di molti istituti; l’apertura della Chiesa al mondo, nonché favorire la conversione del mondo, ha significato la mondanizzazione della Chiesa stessa».

Successivamente, a proposito di tali frutti, ho parlato di "eterogenesi dei fini". Nei giorni scorsi, ripensando alle reazioni scomposte di alcuni
(non tanto semplici fedeli, quanto soprattutto Vescovi) a certi fatti (prima il motu proprio Summorum Pontificum, poi la remissione della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani, ora la decisione della Fraternità San Pio X di procedere a nuove ordinazioni sacerdotali), stavo riflettendo che c'è un altro frutto non previsto e non desiderato, forse il piú amaro di tutti: la divisione all'interno della Chiesa.

Fra gli obiettivi del Concilio c'era l'ecumenismo, inteso in senso ampio, sia come ristabilimento dell'unità dei cristiani, sia come perseguimento dell'unità della famiglia umana, attraverso il dialogo interreligioso e la collaborazione con gli uomini di buona volontà. Che cosa non si è fatto in questi anni per realizzare tali obiettivi? In certi casi si è messa a rischio la stessa identità di cristiani cattolici pur di trovare qualche punto in comune con i fratelli non-cattolici o non-cristiani o non-credenti. Saremmo ingiusti se dicessimo che non ci sono stati punti risultati; ma certo questi sono notevolmente al di sotto delle aspettative.

Ora, oltre a tali scarsi risultati, dobbiamo prendere atto che si sono create nuove divisioni, questa volta all'interno della Chiesa cattolica stessa. Che divisioni, nella Chiesa, ci siano sempre state (fin dalle origini), è un dato di fatto. Che sia necessario che ci siano divisioni, lo dice San Paolo (1 Cor 11:19 "perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi"). Che non ci si debba scandalizzare di tutto ciò, siamo d'accordo. E però si rimane un po' male nel constatare che il Concilio, annziché creare unità, ha provocato nuove divisioni.

È vero — ce lo ha ricordato lo stesso Pontefice in non ricordo piú quale occasione — è successa la stessa cosa dopo tutti i concili. Ma in quei casi posso capirlo, perché si trattava di concili dogmatici, che definivano dottrine, che a qualcuno potevano apparire nuove. Prendiamo come esempio il Vaticano I: capisco che ad alcuni la definizione dell'infallibilità pontificia poteva sembrare una novità rispetto alla tradizione della Chiesa. Per questo stesso motivo posso capire che ad alcuni certe "novità" del Vaticano II siano potute apparire come una rottura con la tradizione. Ma faccio fatica a capire l'atteggiamento di quanti quotidianamente si appellano al Concilio e al suo "spirito" e poi si mostrano tanto accaniti contro i loro fratelli tradizionalisti. Il Vaticano II non è stato un Concilio dogmatico; non ha definito nessuna nuova dottrina; il suo unico scopo era quello di trovare un nuovo "stile": ciò che era in ballo non erano i contenuti, ma il modo di proporre i contenuti di sempre. E invece che cosa è avvenuto? Si è assolutizzato ciò che era relativo, trasformandolo cosí in ideologia, senza rendersi conto di rinnegare cosí nei fatti ciò che si afferma a parole: si parla di dialogo, unità, carità; forse si praticano tali virtú coi "lontani", ma poi non si ammette alcuna tolleranza verso i fratelli della stessa Chiesa.

Nella sua lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009, Benedetto XVI spiegava che il motivo principale che lo aveva indotto a revocare la scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani era esattamente la fedeltà al Concilio:

«
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema ... Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est».

Non so se i tradizionalisti condividano tale prospettiva: essere oggetto di quell'ecumenismo da loro spesso criticato! Ma da un punto di vista "conciliare", ciò che ha fatto il Papa dovrebbe essere scontato: la carità, la riconciliazione, che devono essere praticate con tutti gli uomini, devono essere esercitate, innanzi tutto, all'interno della Chiesa. Potrebbe sembrare ovvio; ma, a quanto pare, non lo è. Il Santo Padre, nella sua lettera, è stato costretto a constatare con amarezza che

«A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi — in questo caso il Papa — perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».

Dopo tanti bei discorsi, ecco il risultato. Forse il Vaticano II dovrebbe costituire una lezione per la Chiesa: nessun Concilio aveva mai scritto tanti documenti, diciamo pure, tanti bei documenti, con i quali non si può non essere d'accordo. Ed ecco, che cosa sono stati capaci di produrre tali documenti? Divisione. Certo, tale risultato non è stato in alcun modo voluto: si voleva l'unità, ed è arrivata la divisione. Proprio perché non voluto, tale risultato non può essere addebitato al Concilio. Eppure, c'è qualcosa non torna. Forse, all'origine del Concilio c'è stato un pizzico di presunzione, di voler giudicare il passato e di essere in grado di riformare la Chiesa con le nostre mani. Forse è mancata al Vaticano II la modestia, l'umiltà di chi sa che la fedeltà al Vangelo non è frutto di umana pianificazione, ma puro dono della grazia.

Un Querciolino Sottosegretario del Sant'Uffizio

Apprendo con piacere che Mons. Damiano Marzotto Caotorta, finora Capo ufficio della Congregazione per la Dottrina della Fede, è stato nominato Sottosegretario del medesimo Dicastero, in sostituzione di Mons. Joseph Augustine di Noia, a sua volta nominato Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Mons. Marzotto, fiorentino, ma del clero della Diocesi di Milano, oltre a essere un ratzingeriano di ferro, è un querciolino d.o.c.: è stato infatti alunno del Collegio alla Querce di Firenze dal 1950 al 1960. Non so se egli sia fra i miei venticinque lettori; ma voglio ugualmente fargli giungere dalle pagine del blog di questo "Querciolino errante" le mie congratulazioni e i piú sentiti auguri di proficuo lavoro.

domenica 21 giugno 2009

XII domenica "per annum"

«Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva».

Il vangelo non è la semplice cronaca di fatti avvenuti duemila anni fa, senza alcuna connessione con la nostra esperienza di ogni giorno. Noi non leggiamo il vangelo unicamente per essere informati su ciò che accadde a Gesú durante la sua vita terrena. Il vangelo ci parla dell'«oggi», della nostra esperienza, della presenza di Gesú in mezzo a noi. Il problema è che noi non ci rendiamo conto di questa presenza. Il vangelo odierno descrive meravigliosamente ciò che noi quotidianamente sperimentiamo.

«Passiamo all'altra riva»: è esattamente la nostra condizione. La nostra vita è una specie di "traversata" verso "l'altra riva". La traversata non è facile: dobbiamo spesso affrontare la tempesta; la barca è sballottata dal vento; le onde rischiano di sommergerla.

Anche se ci consideriamo discepoli di Cristo, non ne sentiamo la presenza. Presi come siamo dai nostri sforzi di controllare l'imbarcazione, ci dimentichiamo che lui è lí con noi sulla barca. Non lo vediamo, perché è alle nostre spalle, coricato sul cuscino. Dorme. Noi rischiamo di affondare, e lui dorme! Ma che Maestro è questo, che si disinteressa al nostro destino?

Lo svegliamo; e lui, con una parola, placa la tempesta: «Taci, calmati!». E ci rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Sí, perché se avessimo fede, non avremmo alcun timore. Perché saremmo consapevoli della sua presenza, e questa ci basterebbe. Non ci importerebbe nulla se lo vediamo dormire; l'importante è sapere che c'è. Che cosa dovremmo temere, quando sappiamo che è con noi colui al quale anche il vento e il mare obbediscono?

Il discorso non vale esclusivamente per la nostra esperienza personale, ma anche per quella ecclesiale. Vediamo la Chiesa sconquassata dai venti; la vediamo fare acqua da tutte le parti; e ci chiediamo: "Quanto durerà ancora? Da un momento all'altro potrebbe affondare". E ci scandalizziamo per questo: "D0v'è il Signore che ci ha assicurato della sua presenza:
Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo? Se c'è, dorme! Maestro, non t'importa se siamo perduti? Non t'importa del destino della tua Chiesa, che rischia di essere sommersa dai flutti? Signore, per favore, svégliati!". E lui, con grande calma, ci rimprovera: "Dov'è la vostra fede? Non sapete che io sono sempre con voi e che, con me, non avete nulla da temere? Non sapete che il vento e il mare mi obbediscono? Di che cosa avete paura? Solo, continuate a credere".

Come ci rammentava l'altro giorno l'Angelica Paola Antonia Negri: «Non dobbiamo scandalizzarci mai, se ben vedessimo la navicella di Cristo andare fluttuando, ma sempre perseverare nella fede» (lettera scritta ai Paolini di Venezia nell'Ottava dell'Epifania del 1549).

venerdì 19 giugno 2009

Anno sacerdotale

Oggi, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesú e tradizionale Giornata per la santificazione del Clero, ha inizio l'Anno sacerdotale, indetto da Benedetto XVI in occasione del 15o° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars, Giovanni Maria Vianney. Ieri il Santo Padre ha inviato a noi presbiteri una bellissima lettera, che faremo bene a leggere e meditare non soltanto in questi giorni, ma durante tutto il corso di questo Anno giubilare.

Da parte mia, senza volermi in alcun modo sovrapporre al Papa, ma solo nel desiderio di aggiungere qualche spunto di riflessione all'abbondante materiale da lui offertoci, mi piacerebbe riportare un testo sulla dignità del sacerdozio, scritto alcuni secoli fa, ma ancora estremamente attuale. Mi ha fatto piacere riscontrare sorprendenti affinità fra questo testo e alcune frasi di Papa Ratzinger e del Santo Curato d'Ars.

Si tratta di una lettera scritta dall'Angelica Paola Antonia Negri (1508-1555) al sacerdote veneziano Gaspare de Franceschi. Il titolo della lettera è, appunto, "Della dignità sacerdotale". Chi era Paola Antonia Negri?

Dovete sapere che il mio Fondatore, Sant'Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), non fondò solo i Barnabiti (i "Chierici Regolari di San Paolo"), ma, accanto a loro, un ramo femminile (le "Angeliche di San Paolo") e uno laicale (i "Coniugati di San Paolo"). I tre "collegi", come venivano chiamati, costituivano un'unica famiglia spirituale (la "Congregazione di San Paolo"): Barnabiti, Angeliche e Coniugati pregavano e operavano insieme (finché le rigide norme tridentine non li obbligarono a separarsi). Siccome lo Zaccaria morí assai giovane, leader della nuova comunità divenne la carismatica maestra delle novizie, Paola Antonia Negri (chiamata "divina madre"), la quale presiedeva pure ai capitoli e prendeva le decisioni piú importanti (potete immaginare le reazioni...). Questa donna aveva una profondissima spiritualità e doveva esercitare un fascino straordinario, se è vero che, durante una missione in Veneto, tutti i rampolli della nobiltà veneziana volevano farsi Barnabiti (e infatti ben presto i "paolini" furono accusati di spionaggio, espulsi dai territori veneziani, e la Negri fu sottoposta a processo e allontanata dal suo monastero...).

I tempi in cui vissero Sant'Antonio Maria Zaccaria e l'Angelica Paola Antonia Negri erano tempi non facili, per molti versi simili ai nostri giorni. Anche allora si sentiva bisogno di una riforma della Chiesa: qualcuno pensò di attuarla consumando uno scisma e mettendo in discussione la tradizionale fede cattolica, altri — i santi — invece capirono che l'unico modo per rinnovare la Chiesa era quello di partire dal rinnovamento interiore di sé stessi. C'è una frase della Negri, a proposito delle condizioni della Chiesa del suo tempo, che mi ha colpito particolarmente: «Non dobbiamo scandalizzarci mai, se ben vedessimo la navicella di Cristo andare fluttuando, ma sempre perseverare nella fede» (lettera scritta ai Paolini di Venezia nell'Ottava dell'Epifania del 1549).

Ritroviamo la stessa ansia per la riforma della Chiesa nella lettera a Don Gaspare de Franceschi, scritta il 3 ottobre 1544:

«Io so, e non mi inganno, che questo ministero è tanto efficace, al punto che un vero sacerdote potrebbe costrin­gere il Signore, che pure non può essere costretto, a capo­volgere l'ordine della sua giustizia in somma misericor­dia; a ottenere qualunque grazia, come il ripristino dei corrotti costumi cristiani, la riforma degli uomini e della santa Chiesa. E questo perché è tanto grande l'amore che porta ai suoi consacrati, avendoli dotati di privilegi molto grandi, al punto che tutto possono con Dio: possono for­zarlo in favore del suo popolo e riconciliarlo con lui. E se anche uno solo, che fosse secondo il suo cuore, potrebbe tanto, quanto potrebbero in molti?

Ma com'è insozzata la faccia della sua bella Sposa: il vino è fatto aceto, le uve sono mutate in lambrusche, il sale è scipito, l'abominazione è entrata nel luogo santo, la castità che dovrebbe essere nei ministri del sangue [di Cristo] è convertita in sporcizia, l'umiltà in ambizione, la liberalità in avarizia, la carità in invidia, la parsimonia in crapula, la pazienza e mansuetudine in ira e sdegno, la sollecitudine in inerzia; e in breve la virtú in vizio, la dol­cezza in amarezza, la devozione in freddezza e tiepidez­za. La mente, che dovrebbe essere abitacolo del Dio vivente, diventa ospizio di ogni cattivo e vano pensiero. Il cuore, che dovrebbe essere conservato con ogni custodia e diligenza, diventa preda di ogni nemico, albergo di ogni iniquità: tutto il mondo è posto in uno stato malvagio.

Perciò avete ragione, anima benedetta, nell'avere compassione di questa povera Sposa di Cristo e quindi disporvi e decidere di cominciare in voi stesso a riformar­la, allontanandovi da ogni opera morta e collocandovi nel seno e nel grembo della pietà del celeste e benigno Padre vostro, che, siatene certo, non vi farà mancare il suo aiuto perché possiate portare a compimento il vostro giusto e santo desiderio. E tutto questo fatelo con cuore allegro, allontanando da voi ogni cosa che abbia somiglianza del­l'uomo terreno. Ricordandovi del grado eccelso della vostra dignità, diventate e mantenetevi irreprensibile, cosí da essere degno del frutto del sangue [di Cristo] che assu­mete e servite ad altri.

Io non mi sottrarrò mai da quello che il Signore mi con­cederà di poter fare per aiutarvi a tradurre in pratica il desiderio che avete di essere fedele dispensatore e degno ministro [di Cristo]. Il che si degni di concedervi per sua pietà e misericordia; e con lui vi lascio, chiedendovi di pregare per me e di ricordarmi ne[lla celebrazione de]i vostri sacrifici
».

Forse è davvero provvidenziale questo Anno sacerdotale in un momento di gravissima crisi per la Chiesa. Forse la Chiesa è in crisi perché in crisi sono i suoi sacerdoti. La Chiesa ha bisogno di essere riformata; ma perché ciò accada, secondo la "divina madre", dobbiamo innanzi tutto "aver compassione di questa povera Sposa di Cristo", e poi dobbiamo disporci e decidere di cominciare a riformarla in noi stessi.

Cinquant'anni fa è stato convocato un Concilio, che si proponeva il rinnovamento della Chiesa. Quel Concilio ha scritto cose bellissime (anche riguardo ai sacerdoti), che però sono rimaste sulla carta; nella vita di ogni giorno, pur invocando sempre il Concilio e il suo "spirito", si è preferito far riferimento a ideologie che nulla avevano a che vedere con quel Concilio e con il suo vero spirito. Sarebbe ora, dopo cinquanta anni, di por mano alla vera riforma della Chiesa, cominciando da noi stessi, consapevoli che la Chiesa cambierà volto solo quando i suoi sacerdoti muteranno la loro mente e il loro cuore.

Secondo la Negri, il primo passo, perché ciò possa avvenire, consiste nella consapevolezza della dignità sacerdotale ("Ricordatevi del grado eccelso della vostra dignità"). In questi anni abbiamo fatto a gara a sminuire l'importanza del nostro ministero; oggi siamo invitati a riscoprire il privilegio di cui, senza alcun merito, siamo stati resi partecipi. Non rimane che corrispondere a tale grazia cosí da essere degni di quel sangue che beviamo e dispensiamo.

martedì 16 giugno 2009

Ecclesia semper reformanda

Due pubblicazioni mi hanno scosso non poco in questi giorni: innanzi tutto il Rapporto della Child Abuse Commission, costituita in Irlanda per indagare sugli abusi su minori compiuti negli istituti gestiti da religiosi (ne ha riferito ZENIT il 21 maggio scorso); quindi il libro di Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A. (a cui ha fatto riferimento ieri Sandro Magister sul sito www.chiesa). Non si tratta di novità: sono cose che già sapevamo; ma ciò che colpisce dalla pubblicazione di tali rapporti è l'endemicità di certi fenomeni.

Non sono nato ieri, per cui non mi scandalizzo piú di tanto della fragilità umana; conoscendo me stesso, e sapendo che ogni giorno ho bisogno della misericordia di Dio, non mi straccio le vesti per le debolezze degli uomini di Chiesa. Non sono neppure un manicheo, che divide l'umanità fra buoni e cattivi, come se ci fossero uomini intrinsecamente perversi che vanno esemplarmente puniti e noi, i giusti, che abbiamo il diritto di giudicarli. Per questo non mi sono mai piaciute le campagne mediatiche contro i preti pedofili; è ovvio che essi vadano messi nella condizione di non nuocere, ma senza mai dimenticare che si tratta, anche nel loro caso, di esseri umani che hanno sbagliato e vanno, per quanto è possibile, recuperati.

Ma in questo caso si rimane male perché non si tratta tanto di "debolezze", di "cadute" isolate (situazioni nella quali tutti, prima o poi, possiamo trovarci); si tratta di "sistemi": sembra quasi che fosse normale avere certi comportamenti riprovevoli. Personalmente, ho sempre distinto fra moralità e correttezza. Sul piano morale, tutti possiamo sbagliare: è una questione personale che va affrontata e risolta fra noi e Dio (semmai con la mediazione del confessore). Ma, nello svolgimento delle nostre funzioni, dobbiamo cercare di essere sempre estremamente corretti: se sono un educatore, a prescindere dalle mie personali tendenze, non posso abusare delle persone che sono state affidate alle mie cure ("Maxima debetur puero reverentia"!); se sono un amministratore, devo amministare il denaro che mi è stato affidato con estremo rigore. Non si può pretendere da tutti la santità; ma si ha il diritto di aspettarsi da tutti la correttezza.

Ma la conoscenza di certe situazioni mi porta a fare anche un'altra riflessione. Direte che sono un fissato; vado sempre a finire allo stesso punto, ma non so come evitarlo. Lo svelamento di tali a dir poco incresciosi comportamenti smentisce la tesi, cara alla Scuola bolognese, del Concilio Vaticano II come "rottura", come "nuovo inizio" nella storia della Chiesa. Questi fatti dimostrano, purtroppo, che nella Chiesa c'è una avvilente continuità: gli abusi sessuali e gli scandali finanziari c'erano prima del Concilio (e ciò dimostra che la Chiesa aveva effettivo bisogno di riforma), e continuano a esserci dopo il Concilio (e ciò dimostra che il Concilio ha fallito nei suoi piani di riforma). Qui abbiamo tutti torto: hanno torto i tradizionalisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa, prima del Vaticano II, tutto andasse bene; hanno torto i progressisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa post-conciliare certe cose non possano piú avvenire. È stata una grande illusione pensare che potesse bastare convocare un concilio per rinnovare la Chiesa. Ci sono state, è vero, tante riforme esteriori, ma il nostro cuore, segnato dal peccato, è rimasto lo stesso.

Che fare? I tradizionalisti ci diranno: "Aboliamo il Concilio! Torniamo alla tradizione!", come se questa, da sé sola, fosse la panacea per tutti i mali della Chiesa, come se tra gli amanti della tradizione non esistesse il peccato originale. I progressiti ci diranno: "Queste cose ancora succedono perché il Concilio non è stato ancora pienamente applicato; specialmente a Roma, esso ha incontrato e continua a incontrare forti resistenze. Se si seguisse veramente lo spirito del Concilio, queste cose non accadrebbero". Illusi gli uni e gli altri. Non si rendono conto che la situazione potrà cambiare solo quando la smetteremo di preoccuparci dell'esteriorità, delle riforme strutturali, e incominceremo a preoccuparci del rinnovamento interiore. Nel Cinquecento ciò che rinnovò la Chiesa non fu tanto il Concilio di Trento (pur necessario), ma la fioritura di santità che ci fu prima e dopo quel Concilio.

Pertanto, ben venga un "Anno sacerdotale" a ricordare a noi sacerdoti quali sono i nostri doveri, primo fra tutti la santità. Negli anni dopo il Concilio si è fatto di tutto per distruggere l'immagine del prete; si guardava con sufficienza a tutti i tradizionali strumenti per la sua santificazione (preghiera e studio severo, mortificazione e sacrificio, prudenza e distacco dal mondo, ecc.); si è voluto fare del prete, a seconda dei casi, uno psicologo, un sociologo, un agitatore sociale, un sindacalista, un politico; ed ecco che cosa ci ritroviamo: non possiamo fare altro che raccogliere i cocci di quello che era una volta il prete. Ora ci viene riproposto l'esempio del Santo Curato d'Ars, che spese la sua vita in ginocchio davanti al Santissimo e seduto in confessionale. Saremo capaci di accogliere questo messaggio? Una cosa è certa: se vogliamo che la Chiesa si rinnovi, dobbiamo ripartire di lí.

domenica 14 giugno 2009

Corpo e Sangue di Cristo

Solitamente siamo portati a interpretare il vangelo odierno come una sorta di "profezia": Gesú dà ai discepoli alcune precise indicazioni su dove celebrare la Pasqua, ed essi "trovarono come aveva detto loro". Forse, senza scomodare la pur indiscutibile preveggenza di Gesú, si può dare una spiegazione molto piú semplice: Gesú aveva accuratamente preparato quella cena, perché la considerava un momento importante. Ne troviamo una conferma indiretta nel vangelo di Luca: "Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi" (Lc 22:15).

Perché Gesú attribuiva tanta importanza a questa cena? Una risposta immediata potrebbe essere: perché durante essa Gesú aveva intenzione di istituire l'Eucaristia e il sacerdozio e lasciare ai discepoli le sue ultime volontà, fra cui il comandamento nuovo dell'amore. Tutto vero; ma forse non è sufficiente rispondere in tal modo per capire realmente l'importanza dell'ultima cena. L'ultima cena non è soltanto un "preludio" della morte di Gesú sulla croce, cioè una sua anticipazione simbolica, ma è parte essenziale del mistero pasquale, senza la quale la morte sulla croce non avrebbe senso.

La morte di un uomo in quel modo è passibile delle piú svariate interpretazioni. La spiegazione piú ovvia è che si tratti della condanna a morte di un criminale. I due ladri che muoiono con Gesú vengono uccisi per questo motivo. Nel caso di Gesú, che subisce piú o meno lo stesso trattamento, le cose stanno in un modo un tantino diverso: egli non era un criminale; era un "giusto". Potrebbe dunque trattarsi di un errore giudiziario, o anche di un'ingiustizia perpetrata ai danni di un innocente. Vedete, lo stesso fatto può avere significati diversi. Ma nessuna di queste interpretazioni spiega il vero senso della morte di Gesú. Egli è certamente stato la vittima innocente di un'ingiustizia; ma, al di là di questo, si nasconde un "mistero", che mai potremmo immaginare. Tale mistero ci viene rivelato nell'ultima cena.

Durante la cena pasquale, celebrata la vigilia della sua passione, Gesú ci svela (non solo con le parole, ma coi gesti che compie) il vero senso della sua morte. Gesú non muore perché altri lo uccidono; Gesú muore perché dona sé stesso, dà la sua vita per noi. Questo "darsi" ha un nome: "sacrificio". Solitamente, siamo portati a pensare che l'essenza del sacrificio stia nell'uccisione di una vittima. Questo è un aspetto importante, ma secondario; ciò che fa il sacrificio non è l'immolazione, ma l'offerta della vittima. È esattamente ciò che Gesú fa durante l'ultima cena: offre sé stesso al Padre per la salvezza del mondo. L'Eucaristia che istituisce non è solo un'anticipazione simbolica del sacrifico che verrà consumato il giorno dopo; è già, essa stessa, sacrificio, perché Gesú sta già offrendo la sua vita per noi, dando cosí un senso imprevedibile a quanto avverrà l'indomani.

Quella stessa Eucaristia continuiamo a celebrare ogni giorno con i medesimi effetti del giorno della sua istituzione. La Messa non è soltanto la commemorazione della morte sulla croce (come va di moda dire oggi: "il memoriale del sacrificio"), ma è, essa stessa, il sacrificio di Cristo, che continua a offrirsi per noi.

sabato 13 giugno 2009

"Ciascuno ha il proprio dono da Dio" (1 Cor 7:7)

Mi è stato chiesto di dire qualcosa sul Card. Martini. Come ben sanno i miei lettori, ho una istintiva ritrosia ad acconsentire a simili richieste, non perché non abbia il coraggio di espormi (penso di aver dimostrato a sufficienza di non avere... peli sulla lingua), ma perché non mi piace criticare il prossimo, soprattutto quando non sono sufficientemente informato. Anche in questo caso, non mi sento di esprimere giudizi su quanto il Card. Martini dice o scrive, perché non ritengo di saperne abbastanza. E questo perché, non essendo egli mai stato il mio Vescovo, né io uno dei suoi ammiratori, non ho mai letto i suoi libri, eccezion fatta per le sue prime lettere pastorali e alcuni opuscoli di meditazione biblica (che ho per altro trovato eccellenti).

È ovvio che sono a conoscenza dei suoi molteplici interventi sulle questioni "scottanti" (che sono poi sempre le stesse: comunione ai divorziati risposati, celibato dei preti, sacerdozio alle donne, preservativo e pillola, ecc.); ma le informazioni che ho in materia sono quelle riportate dai mezzi di comunicazione, ai quali in genere preferisco non dare eccessivo credito. Potrei, è vero, andare alle fonti; ma, innanzi tutto, non è facile per me, che vivo lontano; e poi, a dirla tutta, non è che la cosa mi interessi piú di tanto. Che posso dire allora?

In primo luogo dirò che il Card. Martini è un gesuita. E io dei Gesuiti, nonostante tutto, ho una grande stima; forse perché, dopo i Domenicani, sono stati i miei maestri, per cui ho avuto la possibilità di apprezzarne le capacità, la preparazione e la serietà. Ancora maggior stima ne ho in quanto guide spirituali: credo che nessun altro come loro sia capace di accompagnare le anime nei sentieri dello spirito. Col passare degli anni, mi son fatto questa convinzione: che ognuno deve fare il suo mestiere; per usare un linguaggio meno banale e piú "conciliare", ciascuno ha i propri carismi, e deve porli a servizio della Chiesa. Ecco, i Gesuiti hanno ereditato da Sant'Ignazio questo dono di "discernimento degli spiriti" e, quando si dedicano a esso, nessuno li batte. Anche il Card. Martini, se avete letto qualcuno dei libri-trascrizione degli esercizi spirituali da lui predicati, possiede questo grande dono, a cui va aggiunta una non comune competenza biblica. A questo Card. Martini, dunque, tanto di cappello!

Il problema è che, il piú delle volte, il Card. Martini che ci viene proposto non è il direttore di esercizi spirituali e neppure il biblista, ma è una specie di "anti-papa", che si pronuncia su tutto, in genere dicendo l'opposto di quel che dice il Papa. E questo non solo ora che è in pensione, ma anche (e forse soprattutto) quando era Arcivescovo di Milano: a quell'epoca i cattolici italiani appartenevano a due Chiese parallele, quelli che seguivano Papa Wojtyla e quelli che seguivano il Card. Martini. Sinceramente non so se questo sia intenzionalmente voluto dal Card. Martini o se non si tratti piuttosto di un brutto gioco mediatico; certo è che l'ex-Arcivescovo di Milano non vi si sottrae.

Non voglio entrare nel merito delle singole questioni ricorrentemente sollevate, anche perché si tratta di questioni molto diverse tra loro, su alcune delle quali è possibile discutere (il celibato dei preti), mentre su altre no (il sacerdozio alle donne); altre poi sono dei reali problemi pastorali a cui lo stesso Pontefice dimostra di essere sensibile (la comunione ai divorziati). Personalmente ritengo che nella Chiesa ci sia spazio per discutere ciò di cui è legittimo discutere; quello che non mi va è che certi (reali) problemi, a cui è giusto cercare delle soluzioni, vengano ideologizzati e diventino delle bandiere di partito.

Ho già ricordato in uno dei miei precedenti post che, quando uscí il libro di Benedetto XVI Gesú di Nazaret, il Card. Martini fece maliziosamente notare che il Papa non era un biblista, ma un teologo dogmatico. Non si rendeva conto che un rilievo simile si potrebbe fare nei suoi confronti: lui è un biblista (o, a voler essere pignoli, uno studioso di critica testuale); non mi risulta che alcuna delle questioni su riportate abbiano una qualche attinenza con il testo biblico; esse sono semmai questioni o dogmatiche o morali o disciplinari.Finché era titolare di una sede episcopale, si potevano ancora ancora giustificare i suoi interventi; ma ora a quale titolo li fa? Non è un esperto di quei settori; quel che lui dice ha lo stesso valore di quel che dico io; con la differenza che lui è un Cardinale, e i Cardinali hanno uno speciale vincolo di sottomissione al Papa. Personalmente ritengo che essi, specialmente una volta superati gli ottanta anni, farebbero meglio a ritirarsi in silenzio (e queste sembravano in un primo momento le sue intenzioni). I Gesuiti usano una bellissima espressione per indicare il ruolo di coloro che sono in pensione: "Prega per la Compagnia". A maggior ragione, un Cardinale gesuita dovrebbe, secondo me, fare proprio questo: pregare per la Chiesa e per il suo Ordine religioso, anziché andare a cercare nuovi pulpiti mediatici da cui pontificare.

mercoledì 10 giugno 2009

Galileo aveva ragione

ZENIT riporta un'ampia intervista a Mons. Melchor Sánchez de Toca, Sottosegretario del Pontificio Consiglio per la Cultura, sul caso Galileo. Devo confessare di non aver mai approfindito la questione; ho letto, sí, molti articoli in materia, ma non posso dire che essi mi abbiano aiutato granché a chiarirmi le idee. Sono ancora alquanto confuso. Di una cosa sola sono certo: che ci troviamo di fronte a un mito. Il problema è che i vari tentativi fatti finora per "demitizzare" Galileo sono completamente falliti. Se voi leggete i diversi articoli pubblicati negli ultimi anni su Galileo, non ne troverete due che dicano la stessa cosa: ciascuno cerca di risolvere il caso da un punto di vista diverso; per cui, alla fine, non sai a chi dar retta.

Se devo essere sincero, ancora non ho capito per quale esatto motivo Galileo sia stato condannato. Quest'oggi Mons. Sánchez de Toca ci dice che Galileo aveva violato una precedente disposizione, aveva ottenuto fraudolentemente l'imprimatur per un suo libro, e che la teoria copernicana, sebbene non condannata come eretica, fu dichiarata contraria alle Scritture. Finora mi sembrava di aver capito che la colpa di Galileo fosse stata quella di aver preteso di interpretare le Scritture, di essere cioè sconfinato in un campo che non era il suo. A me sta bene tutto; vorrei solo che ci fosse un po' piú di chiarezza in materia.

In mancanza di tale chiarezza, non ci si può poi lamentare che la gente creda che Galileo sia stato imprigionato, torturato e bruciato sul rogo, nonostante che questo non stia scritto da nessuna parte. Quanto fatto dalla Chiesa in questi ultimi anni non ha scalfito minimamente la vulgata corrente; anzi, direi, non ha fatto altro che confermarla. Che cosa rimane, nella mente della gente, della revisione del processo a Galileo, voluta da Giovanni Paolo II? Che la Chiesa ha riconosciuto i propri errori e che il Papa ha chiesto scusa per la condanna di Galileo. Dunque, tutto ciò che si è sempre pensato a proposito di Galileo era vero! Anche il Papa ha dovuto ammeterlo!

Perciò, visto che ho le idee ancora un po' confuse sul caso Galileo, preferisco non entraci e non dire nulla. Vorrei però soffermarmi su un paio di aspetti, tra loro correlati, che secondo me meritano una qualche attenzione. Innanzi tutto, perché la Chiesa continua ad avere la coda di paglia sul caso Galileo, quando essa non era la sola a non condividere le sue posizioni, ma aveva dalla sua parte tutto il mondo scientifico dell'epoca? Come mai tutti se la prendono con la Chiesa e nessuno se la prende con gli scienziati di allora? Questo fatto dovrebbe farci riflettere: la Chiesa dovrebbe andarci piano a identificarsi con le teorie scientifiche proprie di ciascuna epoca, proprio perché si tratta di semplici "teorie"; la Chiesa farebbe meglio a rimanere nel suo campo (fede e morale) e lasciare che gli scienziati se la vedano fra loro. Andiamoci piano prima di affermare che certi risultati sono "scientificamente sicuri"; anche se lo fossero, non è compito della Chiesa ratificare le conclusioni scientifiche. Il rischio è che poi, con l'evolversi della scienza, la Chiesa ci perda completamente la faccia.

Per me è stata una novità apprendere — e questo è il secondo aspetto che volevo rilevare — che Galileo era perfettamente cosciente di tale pericolo:

«Galileo chiedeva che la Chiesa non condannasse la teoria copernicana, non tanto per timore della propria carriera professionale, quanto perché, se si fosse dimostrato in seguito che la Terra ruota intorno al Sole, la Chiesa si sarebbe trovata in una situazione molto difficile e si sarebbe ridicolizzata di fronte ai protestanti, e Galileo voleva evitare questo perché era un uomo cattolico sincero. Egli diceva: “Se oggi si condanna come eretica una dottrina scientifica, come è quella secondo cui la Terra si muove attorno al Sole, cosa succederà il giorno in cui la Terra dimostri di muoversi intorno al Sole? Bisognerà dichiarare eretici quindi coloro che sostengono che la Terra sia al centro?”».

La Chiesa avrebbe dovuto far tesoro di questa esperienza; e invece mi sembra che continui a ricadere nello stesso errore. Per la smania di essere al passo coi tempi (evidentemente ai tempi di Galileo era lo stesso), essa non si accorge di mettersi in una situazione estremamente rischiosa. I tempi cambiano velocemente; la storia travolge quelli che potevano sembrare i protagonisti delle epoche precedenti, ma la Chiesa rimane e diventa facile bersaglio delle nuove generazioni, che l'accusano di rimanere legata al passato. È ovvio che, vivendo nella storia, la Chiesa non possa fare a meno di adattarsi alle esigenze del proprio tempo; ma forse dovrebbe farlo con un certo distacco, senza compromettersi piú di tanto. Per esempio, per rimanere in campo scientifico, un certo atteggiamento eccessivamente benevolo verso l'evoluzionismo può essere alquanto pericoloso, perché un giorno quella teoria potrebbe essere confutata. La stessa morale, nello stabilire le norme dell'agire umano, dovrebbe forse prescindere da ipotesi scientifiche per nulla definitive (come p. es. la morte cerebrale). Piú in generale, possiamo notare come l'attuale rincorsa della Chiesa dietro la modernità, a parte il consueto ritardo, è piuttosto rischiosa perché già ora viviamo in un'epoca che si definisce "post-moderna". Riflessioni analoghe si potrebbero fare anche in campo storico-politico (nel rapporto con gli Stati o nell'adozione acritica di "verità storiche" non ancora del tutto verificate). La Chiesa, in linea di principio (è ovvio che poi bisogna fare i conti con la realtà), dovrebbe evitare di compromettersi piú di tanto; perché quel che oggi dice per compiacere il mondo, le verrà un giorno immancabilmente rinfacciato. Sí, in questo caso, Galileo aveva ragione.

lunedì 8 giugno 2009

Islam, fede e disciplina

Ho letto su AsiaNews una bellissima intervista a Padre Carlo Buzzi, missionario del PIME in Bangladesh, che, avendo scelto di vivere fra i musulmani, conosce bene quella realtà.

Ebbene, i due aspetti che, secondo Padre Buzzi, caratterizzano l'Islam sono la profonda fede in Dio e una vita regolata dalla religione (preghiera, digiuno, aiuto del prossimo). Per noi, che siamo abituati a giudicare tutto e tutti dall'alto in basso, potrebbe sembrare scontato; ma non lo è. Non lo è, perché in Occidente non ci sono piú né la fede né, tanto meno, la pratica cristiana. E proprio per questo non siamo capaci di riconoscere e accettare che in qualche altra parte del mondo ciò ancora esista. Siccome noi, succubi di secoli di razionalismo e illuminismo, non crediamo piú, pensiamo che non sia possibile che ci sia ancora qualcuno che creda veramente e si abbandoni totalmente in Dio. E cosí bolliamo la fede dei musulmani come "fanatismo".

Non parliamo poi della pratica religiosa. Ormai noi siamo "adulti"; non abbiamo piú bisogno di certe espressioni adatte a popoli ignoranti. Noi ce la intendiamo direttamente con Dio, come fa acutamente notare il missionario del PIME:

«Molti cristiani pensano: io parlo con Dio, me la intendo col Signore, non è necessario andare in chiesa, voglio bene a Dio e al prossimo, basta questo. Il musulmano no, sa che c’è una regola precisa che va osservata: pregare cinque volte al giorno, andare in moschea, fare il digiuno, fare l’elemosina legale, essere solidali con chi ha meno di noi, ecc.».

E perciò liquidiamo sbrigativamente l'Islam come
farisaico e ipocrita. Sia ben chiaro, Padre Buzzi riconosce che ci siano ipocrisia, fariseismo, legalismo e costrizione nell'Islam; ma ciò non significa che tutti i musulmani siano ipocriti: la maggior parte di loro crede veramente in ciò che fa.

A parte la fede, che è un atteggiamento interiore su cui è ben difficile giudicare tanto fra i cristiani quanto fra i musulmani, credo che sia importante riflettere un attimino su questo secondo aspetto della religione, quello della disciplina esteriore. Noi ormai ci abbiamo rinunciato in maniera pressoché definitiva, perché lo consideriamo secondario se non addirittura superfluo. Fa notare Padre Buzzi:

«
Noi mettiamo troppo l‘accento sul fatto interiore, sulla coscienza personale (che può anche essere oscurata, ignorante) e non sulla legalità dell’osservanza della Legge, i musulmani mettono troppo l’accento sulla pratica esteriore e legalistica e a volte anche farisaica della Legge».

Che ci sia un primato dell'interiorità sull'esteriorità, non ci piove. Il fatto è che, a forza di spiritualizzare il cristianesimo, esso si è talmente rarefatto, che è scomparso del tutto. L'osservanza esteriore, su cui forse esagerano i musulmani, ha la sua (relativa) importanza. Certo, se con essa pretendiamo di conquistarci la salvezza (come pensavano i farisei) siamo sulla strada sbagliata; ma quando l'osservanza è l'espressione di un atteggiamento di umiltà, di obbedienza, di "sottomissione" (= Islam) a Dio, essa non solo è importante, ma necessaria, indispensabile, perché ci pone nell'atteggiamento giusto che dobbiamo assumere di fronte a Dio. Di fronte a Dio non possiamo avere alcuna pretesa: se vogliamo essere salvati da lui, dobbiamo riconoscere la nostra condizione di mendicanti.

Senza considerare l'altro aspetto, sottolineato dal missionario: il carattere che crea la sottomissione a tale disciplina:

«
Alle 6 del mattino, i bambini, piova o faccia sole, con la loro piccola stuoia sotto il braccio, vanno in moschea e vi rimangono fin verso le sette. L’islam è radicato perché costa fatica pregare cinque volte al giorno, alzarsi presto, la circoncisione che fanno a sei-sette-otto anni è una grande sofferenza. Poi il digiuno, che è un fatto comunitario, un’emulazione l’un con l’altro: Hai fatto il digiuno? Io l’ho fatto…. Il digiuno è un sacrificio, ma lo affrontano con grande determinazione. Poi c’è la preghiera. Alzarsi alle cinque per pregare tutti i giorni segna la vita, crea carattere, decisione, spirito di sacrificio. L’islam io vedo che è forte perché crea persone che vivono la fede con convinzione».

Esattamente ciò che noi abbiamo definitivamente perso. Che cosa possiamo attenderci da un Occidente il cui unico ideale di vita, scrupolosamente inculcato fin dai primi anni di vita è: divertirsi? Per questo abbiamo paura dell'Islam: non perché sono terroristi e vogliono costruirsi la bomba atomica (come qualcuno vorrebbe farci credere), ma perché sono spiritualmente piú forti di noi.

Ma noi siamo cristiani; loro no! Mi spiace, noi non siamo piú cristiani: abbiamo abiurato la nostra fede. È vero, i musulmani non riconoscono la divinità di Cristo; ma sono nella condizione di poterlo incontrare: il loro atteggiamento è quello proprio dei "poveri del Signore", pronti ad accogliere la salvezza quando questa si manifesterà loro. Non mi sembra casuale che ci sia in loro una certa ammirazione del cristianesimo: evidentemente, ne afferrano la superiorità. E questo, penso, sia sufficiente, per essere graditi a Dio. Con Pietro posso dire: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10:34-35). Che Dio si stia preparando un popolo che ci rimpiazzi, quando si sarà consumata l'apostasia?

domenica 7 giugno 2009

Santissima Trinità

«Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!".
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria».

Ricòrdati, o uomo, che sei mia creatura; io ti ho fatto con queste mie mani, perché mi servissi. Non dimenticare che è un grande onore essere miei servi! Eppure, non mi sono accontentato di crearti e porti al mio servizio. Sai, ho un Figlio: come tutti i figli unici, si sentiva un po' solo. Allora gli ho detto: "Perché non ti fai un giretto sulla terra, rimani lí qualche anno, te ne stai un po' con gli uomini e vedi se andate d'accordo? Se vuoi, possono diventare tuoi fratelli". E lui ha accettato la mia proposta: si è fatto uno di voi per fare di voi uno di noi. È venuto nel mondo, in tutto simile a voi, e vi ha annunciato questa buona notizia: non siete piú schiavi; d'ora in poi potete considerarvi figli di Dio; potete rivolgervi a Dio chiamandolo Padre. Ma voi non avete voluto dargli ascolto; l'avete preso per un impostore, e lo avete ucciso. Ma lui, mio Figlio, il mio unico Figlio, non è cosí meschino come voi: tornando a casa, non mi ha detto: "E tu volevi darmeli come fratelli? Basta! Ne ho abbastanza degli uomini, non ne voglio piú sapere". No, mi ha detto: "Padre, ti ringrazio di avermi permesso di fare questa esperienza: è stata un po' difficile, ma ne valeva la pena. Gli uomini non mi hanno compreso; anzi, mi hanno ucciso; ma io non posso piú fare a meno di loro; dopo essere stato con loro per tanti anni, ora sento la loro mancanza; li voglio qui con me, per sempre. Io, quello che potevo farlo, l'ho fatto; ho dato la mia vita per loro. Ora, se vuoi, manda loro il tuo — il nostro — Spirito, quello Spirito che mi fa essere tuo Figlio; dàllo anche a loro, cosí che diventino anche loro figli e partecipino alla mia eredità". Avrei potuto opporre un rifiuto a questa preghiera? Avrei potuto rimanere sordo alla supplica di mio Figlio, che vi aveva tanto amato da dare la sua vita per voi? Considerando i suoi meriti, ho fatto quel che mi chiedeva: vi ho mandato il mio Spirito, per fare di voi i miei figli, i fratelli di mio Figlio, eredi insieme con lui di tutto ciò che possiedo. D'ora in poi, anche voi potete chiamarmi, come lui fa: "Abbà!". Ora anche voi siete parte della famiglia.

sabato 6 giugno 2009

Una parola definitiva sul Concilio

Apprendo dal blog Messainlatino.it la notizia della pubblicazione del libro Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, di Mons. Brunero Gherardini. Avevamo appena letto sul nuovo blog Disputationes Theologicae un articolo dell'autore del libro sullo stesso soggetto. Coloro che seguono regolarmente il mio blog sanno quanto io sia interessato a questa problematica. La recensione di Messainlatino.it è molto sobria, ma sufficiente per solleticare l'interesse per il libro. Spero di potermene procurare presto una copia. Il blog riporta per intero una "Supplica al Santo Padre", che mi sembra degna della massima attenzione. In tale supplica Mons. Gherardini esprime al Sommo Pontefice l'esigenza assai diffusa "che si faccia un po' di chiarezza" a proposito del Concilio Vaticano II:

«Per il bene della Chiesa — e piú specificamente per l'attuazione della "salus animarum" che ne è la prima e "suprema lex" — dopo decenni di libera creatività esegetica, teologica, liturgica, storiografica e "pastorale" in nome del Concilio Ecumenico Vaticano II, a me pare urgente che si faccia un po' di chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla continuità di esso — non declamata, bensí dimostrata — con gli altri Concili e sulla sua fedeltà alla Tradizione da sempre in vigore nella Chiesa».

L'autore prende le mosse dall'ormai famoso discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, nel quale Benedetto XVI contrapponeva una "ermeneutica della continuità" a una "ermeneutica della rottura". Ebbene — rileva opportunamente Mons. Gherardini — tale "ermeneutica della continuità" non basta dichiararla, ma occorre dimostrarla:

«Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all'auspicata ermeneutica della continuità, se prima non si sia proceduto ad un'attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d'ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote, e si continui invece a parlarne solo ripetendone il contenuto o presentandolo come una novità assoluta».

Di qui l'idea, a lungo accarezzata e ora finalmente esternata, di una "messa a punto" sul Vaticano II:

«Da tempo era nata in me l’idea — che oso ora sottoporre alla Santità Vostra — d'una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull'ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti. Pare, infatti, logico e doveroso che ogni suo aspetto e contenuto venga studiato in sé e contestualmente a tutti gli altri, con l'occhio fisso a tutte le fonti, e sotto la specifica angolatura del precedente Magistero ecclesiastico, solenne ed ordinario. Da un cosí ampio ed ineccepibile lavoro scientifico, comparato con i risultati sicuri dell'attenzione critica al secolare Magistero della Chiesa, sarà poi possibile trarre argomento per una sicura ed obiettiva valutazione del Vaticano II in risposta alle seguenti — tra molle altre — domande: Qual è la sua vera natura? La sua pastoralità — di cui si dovrà autorevolmente precisare la nozione — in quale rapporto sta con il suo eventuale carattere dogmatico? Si concilia con esso? Lo presuppone? Lo contraddice? Lo ignora? È proprio possibile definire dogmatico il Vaticano II? E quindi riferirsi ad esso come dogmatico? Fondare su di esso nuovi asserti teologici? In che senso? Con quali limiti? È un "evento" nel senso dei professori bolognesi, che cioè rompe i collegamenti col passalo ed instaura un'era sotto ogni aspetto nuova? Oppure tutto il passato rivive in esso "eodem sensu eademque sententia"?».

Monsignore è certo che questo immenso sforzo otterrà il risultato desiderato: dimostrare che il Vaticano II si pone in continuità con la tradizione della Chiesa; ma non esclude che, su qualche punto, questa continuità non sia possibile dimostrarla:

«Qualora [l'identità dogmatica di fondo], o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza, in risposta all'esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo».

Par di capire dalla supplica che tale grandioso lavoro di approfondimento scientifico del Concilio dovrebbe essere solo il presupposto di un intervento pontificio teso a rimettere ogni cosa al suo posto:

«Il Papa, anche "seorsim", è sempre in grado — per dirla con S. Bonaventura — di "reparare universa" perfino nel caso che "omnia destructa fuissent". Basta una Sua parola, Beatissimo Padre, perché tutto, essendo essa stessa la Parola, ritorni nell'alveo della pacifica e luminosa e gioiosa professione dell'unica Fede nell'unica Chiesa. Ho detto, strada facendo, che lo strumento per "reparare omnia" potrebb'esser un grande documento papale, destinato a rimanere nei secoli come il segno e la testimonianza del Suo vigile e responsabile esercizio del ministero petrino».

Mons. Gherardini prende in considerazione anche l'eventualità che il Papa non se la senta di fare un intervento personale:

«Qualora, però, non volesse agire da solo, Ella potrebbe disporre che o qualche suo dicastero, o l'insieme delle Pontificie Università dell'Urbe, o un organismo unitario e di vastissima rappresentatività, assicurandosi la collaborazione di tutti i più prestigiosi, sicuri e riconosciuti specialisti in ognuno dei settori in cui s'articola il Vaticano II, organizzi una serie di congressi d'altissima qualità a Roma o altrove; o una serie di pubblicazioni su ognuno dei documenti conciliari e sulle singole tematiche di essi».

La supplica mi trova in gran parte d'accordo. Anch'io sento il bisogno che si dica una parola autorevole, chiarificatrice e definitiva sul Concilio. Non possiamo continuare all'infinito in questa diatriba tra quanti lo considerano un "nuovo inizio" e quanti vorrebbero cancellarlo dagli annali della Chiesa. Sono d'accordo che c'è bisogno di uno studio serio, scientifico, che coinvolga gli specialisti dei diversi settori. Non si tratta solo di pubblicare una nuova edizione dei documenti conciliari con l'annotazione delle fonti; forse c'è bisogno di realizzare un commentario a ciascun documento, in cui venga messa in luce la continuità e le eventuali novità dei suoi contenuti. Un'opera ciclopica che richiede necessariamente qualche anno. Al termine di tale lavoro scientifico, risulta indispensabile un intervento magisteriale solenne che faccia in qualche modo proprie le conclusioni del lavoro scientifico previo e ponga termine a ogni diatriba teologica circa il valore del Vaticano II.

Secondo Mons. Gherardini, tale intervento magisteriale dovrebnbe avere un carattere primaziale; dovrebbe cioè essere un documento del Sommo Pontefice. È possibile; sarebbe una specie di ratifica definitiva del Concilio. Ma lo stesso Monsignore si rende conto che il Papa potrebbe avere qualche difficoltà ad agire da solo. Ecco dunque che egli propone il coinvolgimento della Curia Romana o delle Pontificie Università. Sinceramente, la proposta non mi sembra molto pertinente. Non perché i dicasteri vaticani o i centri accademici romani non debbano essere coinvolti; ma dovrebbero esserlo nella fase preliminare, quella dello studio scientifico. Nella seconda fase ciò che è richiesto è un intervento magisteriale. Ora, a me pare che lo strumento per non lasciare solo il Papa nell'esercizio del suo ministero già esista: il Sinodo dei Vescovi.

Se devo essere sincero, non sono molto entusiasta dei risultati finora ottenuti dalle assemblee ordinarie del Sinodo. Ho l'impressione che si faccia una grande sforzo, che alla fine non porta a nulla. Ditemi voi, che fine hanno fatto le varie esortazioni apostoliche post-sinodali promulgate in questi anni? Hanno forse cambiato qualcosa nella prassi pastorale della Chiesa? Ma, per quanto possa essere perplesso sull'efficacia di tale strumento, non mi sento di rifiutarlo a priori; riconosco che può essere un modo — pur limitato — per coinvolgere i Vescovi nell'esercizio del primato pontificio.

Fra i vari Sinodi che si sono susseguiti in questi anni, ce n'è già stato uno, straordinario, sul Concilio Vaticano II, convocato in occasione del 20° anniversario della sua conclusione (1985). Ebbene, credo che quel Sinodo sia stato uno dei piú fruttuosi, perché pose termine alla retorica della Chiesa-popolo di Dio, rammentando l'autentico insegnamento conciliare sulla Chiesa-mistero. Perché, dunque, non convocare una nuova assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi in occasione del 50° anniversario della conclusione del Concilio (2015)? Se si avviasse subito il lavoro scientifico, esso potrebbe essere tranquillamente concluso per quella data, e i Vescovi potrebbero prenderlo in esame e dire una parola autorevole sulla corretta interpretazione dei testi conciliari. Il Papa infine, con un documento forse un tantino piú impegnativo di una semplice esortazione apostolica post-sinodale, facendo proprio l'approfondimento teologico degli studiosi e il pronunciamento dei Vescovi, dovrebbe dire una parola definitiva sul Vaticano II e riportare cosí serenità nella professione dell'unica fede.

venerdì 5 giugno 2009

Secolarizzazione e formazione sacerdotale

ZENIT riferisce dell'intervento dell'Arcivescovo Jean-Louis Bruguès O.P., Segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica, all'annuale incontro dei rettori dei seminari pontifici. Mi sembra un intervento particolarmente interessante.

Innanzi tutto, Mons. Bruguès fa un'analisi della situazione della Chiesa europea e americana, rilevando una divisione fra una "corrente di composizione" e una "corrente di contestazione". Nel titolo dell'articolo tali due correnti sono indicate rispettivamente con i termini (non so se usati dallo stesso Arcivescovo) "integrati" e "alternativi", che, pur corrispondendo pienamente al senso dell'intervento, mi sembrano essere fuorvianti. Da sempre, "integrati" sono stati considerati i tradizionalisti, e "alternativi" i progressisti. In tal caso invece il significato è esattamente l'opposto. La "corrente di composizione" è costituita da quegli uomini di Chiesa (ormai per lo piú di una certa età) che insistono su una collaborazione con il mondo secolarizzato; mentre la "corrente di contestazione" consisterebbe nei piú giovani, che sottolineano le differenze con la società secolarizzata e propongono il cristiuanesimo come un modello alternativo.

Mi sembra che tale analisi, sebbene non possa essere assolutizzata ed esclusivizzata, corrisponda alla realtà dei fatti: è vero che la Chiesa odierna è divisa e che le varie differenze possono essere ricondotte a questa alternativa di fondo.
Interessante anche il rilievo che la prima corrente, che ha gestito finora e in gran parte continua a gestire il potere nella Chiesa, ha praticato una sorta di "autosecolarizzazione" della Chiesa. Come porre rimedio a tale situazione? Il Segretario dell'Educazione Cattolica propone un'interpretazione autentica del Concilio Vaticano II; proposta che non può che trovarmi consenziente, dal momento che all'origine di tutte le difficoltà che la Chiesa sta incontrando ai nostri giorni c'è, appunto, un'interpretazione distorta — ideologica — del Concilio.

Il tema dell'intervento di Mons. Bruguès era "Formazione per il sacerdozio, tra secolarismo e modello ecclesiale". Essendo anch'io impegnato nel campo della formazione alla vita religiosa e al sacerdozio, sono molto interessato a tali tematiche. Ebbene, l'Arcivescovo ha evidenziato anzitutto, una mancanza di cultura generale, provocata dalla secolarizzazione. È un punto che tutti sperimentiamo ogni giorno. Non si può piú pensare di avviare immediatamente agli studi teologici giovani privi di qualsiasi formazione umana-cristiana di base. Ecco dunque la necessità di una "formazione iniziale" di tipo culturale e catechetico. Su questo siamo ormai tutti d'accordo, non solo in Europa, ma in ogni parte del mondo.

Il secondo punto sottolineato poteva venire solo da un domenicano: la necessità dell'apprendimento della metafisica come condizione preliminare allo studio della teologia. Anche su questo, da buon alunno dei Domenicani, non posso che consentire; ma ho l'impressione che non ci sia la stessa sensibilità in tutta la Chiesa: non vedo in giro la convinzione dell'importanza della filosofia (e specialmente della metafisica) negli ambienti ecclesiastici. Ciò che vedo sono però le conseguenze devastanti di tale disattenzione.

Il terzo punto è la necessità di una "formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale". Confermo al 100%. Nel lodevole intento di dare ai seminaristi una formazione completa, abbiamo assistito in questi anni a un prolungamento oltre misura degli anni della formazione, a un'accumulazione di materie e di corsi spesso slegati fra loro (ma trascurando discipline fondamentali per l'educazione al ragionamento, come il latino), a una tendenza alla specializzazione prima ancora che si fosse ricevuta una presentazione completa e organica della teologia. Il risultato di tale impostazione è la frammentazione, il disorientamento, la confusione mentale.

Personalmente ritengo che il problema fondamentale sia la mancanza di una impostazione di fondo, di un quadro generale, di un "sistema", entro il quale integrare i diversi elementi acquisiti nella formazione. Non si può pretendere che il giovane studente faccia la sua sintesi, se non è opportunamente accompagnato dai suoi formatori. Tale impostazione può darla solo una "scuola"; ritengo che i Domenicani siano rimasti gli unici a farlo, proponendo nei loro atenei il sistema tomistico, che è in sé stesso una sintesi, che non impedisce però allo studente di aggiungere nuovi elementi e fare la propria sintesi personale. Speriamo che a poco a poco si faccia strada questa nuova sensibilità e che la preparazione del clero possa tornare a livelli rispettabili, all'altezza delle esigenze odierne.

mercoledì 3 giugno 2009

Problemi di linguaggio

Il blog Disputationes Theologicae ha riferito nei giorni scorsi su un convegno organizzato dalla Revue Thomiste e dall'Institute Catholique de Toulouse, dal titolo "Vaticano II: rottura o continuità? Le ermeneutiche presenti". A quanto pare, deve essersi trattato di un convegno molto interessante. Interessanti anche le riflessioni dei curatori del blog.

Mi ha colpito soprattutto un aspetto sollevato nel corso del convegno, quello del linguaggio. Si è fatto esplicito riferimento a un punto molto controverso del Concilio: "
Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella (subsistit in) Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" (Lumen gentium, n. 8). Fino al Vaticano II si era semplicemente identificata la vera Chiesa con la Chiesa cattolica; si poteva dire: la vera Chiesa è la Chiesa cattolica. Il Concilio dice: la vera Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica. Perché questo cambiamento?

Forse bisogna tener conto delle finalità del Vaticano II: tale Concilio ha intenzionalmente escluso per sé un carattere dogmatico; esso si è presentato come un concilio "pastorale". Non c'è bisogno di definire la dottrina — aveva affermato Giovanni XXIII all'apertura del Concilio — dal momento che essa è già chiara; scopo del Concilio è quello di trovare nuove forme per comunicare tale dottrina al mondo moderno. Come si vede, si trattava di trovare un nuovo linguaggio, piú comprensibile per l'uomo di oggi. È per questo che il Vaticano II ha abbandonato (anche se non completamente) il tradizionale linguaggio scolastico per adottare un linguaggio piú biblico, patristico e, in qualche caso, debitore della filosofia moderna.

Il proposito del Concilio è encomiabile. Il problema è: il Vaticano II ha raggiunto gli obiettivi che si prefissava? Come rilevavamo recentemente, i risultati sono stati spesso diversi, se non opposti a quelli che ci si era proposti ("eterogenesi dei fini"). Torniamo all'esempio del subsistit in: l'adozione di tale formula non solo non ha in alcun modo favorito il riconoscimento della Chiesa cattolica come vera Chiesa da parte di non-cattolici e non-cristiani, ma essa ha addirittura indebolito fra gli stessi cattolici la coscienza che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa. Anziché chiarire, essa ha creato maggior confusione. Ne sono prova non solo le innumerevoli discussioni teologiche (piú che legittime), ma addirittura i molteplici interventi magisteriali, che hanno cercato — per la verità, con poco successo — di precisare il significato di quell'espressione. Viene da chiedersi: era proprio necessario fare quel cambiamento?

Con questo non voglio dire: era meglio lasciare tutto com'era, e ora l'unica soluzione possibile è riconoscere l'errore e annullare il Concilio (come qualche tradizionalista radicale potrebbe sperare). La soluzione proposta da Disputationes Theologicae (a quanto pare ispirata dalle conclusioni del convegno) è la seguente:

«
L’assenza di una terminologia chiara in tanta parte del testo conciliare rinvia dunque a riflettere sull’opportunità di un’opera di revisione, di spiegazione, di interpretazione autentica. – Un dichiarato ritorno alla precisione della terminologia scolastica, cosí come l’impiego della teologia tomista, non soltanto faciliterebbe la comprensione universale dei testi, ponendo ostacoli insormontabili alle ermeneutiche non ortodosse, ma aprirebbe anche la strada ad una vera intelligenza della dottrina cattolica per i nostri contemporanei. Un tale rinnovamento tomista della teologia conciliare è ciò che invocano in definitiva gli organizzatori del Convegno e siamo convinti dell’opportunità di quest’appello. Tuttavia questo lavoro presuppone, a nostro avviso, per essere realmente proficuo, la convinzione dell’opportunità di mettere mano non solo all’interpretazione, ma anche alla lettera del testo conciliare».

Non vorrei entrare, per il momento, su quest'ultima questione (se non sia opportuno rivedere i testi stessi del Vaticano II); ma soffermarmi esclusivamente sul linguaggio da adottare nell'interpretazione del Concilio. I curatori di Disputationes Theologicae dicono: torniamo al linguaggio scolastico e alla teologica tomista. Essendo stato formato alla scuola domenicana, la cosa non dovrebbe che farmi piacere; ma, avendo poi proseguito la mia formazione alla scuola rosminiana, devo riconoscere obiettivamente che un ritorno
puro e semplice alla scolastica oggi non è piú proponibile. Perché?

Perché questo è esattamente ciò che la Chiesa faceva prima del Concilio, e abbiamo visto che non era sufficiente. Per quale altro motivo si è sentito bisogno di un Concilio? Perché ci si era accorti che la Chiesa non era stata capace, nell'Ottocento e nel Novecento, di rispondere alle sfide della modernità; c'era bisogno di adottare un nuovo atteggiamento. Ci aveva provato, agli inizi del Novecento, il modernismo, ma sappiamo con quali risultati. Nella seconda meta del secolo, il Vaticano II ha fatto un nuovo tentativo, certamente migliore del primo, ma ancora non del tutto soddisfacente. Probabilmente il limite principale del Concilio è stato l'inevitabilità del compromesso. Personalmente, non sono contrario in linea di principio ai compromessi: secondo me, essi sono alla base della convivenza pacifica fra persone che hanno interessi diversi. Ma quando si tratta di definire la dottrina, il compromesso non è certo la migliore soluzione, perché inevitabilmente esso porta a espressioni ambigue, che vengono accettate dalle parti appunto perché passibili di interpretazioni diverse. È esattamente ciò che è avvenuto al Concilio: per mettere tutti d'accordo si sono preparati dei testi che possono essere interpretati in maniera opposta. Per questo è giusto fare ricorso a un linguaggio rigoroso, che non permetta il conflitto delle interpretazioni.

Il linguaggio scolastico? Esso è stato elaborato per rispondere alle esigenze del Medioevo. L'errore della Chiesa moderna (leggi: Leone XIII) è stato quello di volerlo riproporre tale e quale per i nostri giorni. Ma tale tentativo è fallito. E la dimostrazione di tale fallimento sono appunto il modernismo prima e il Vaticano II poi. L'errore, commesso dalla Chiesa nell'Ottocento (errore che stiamo pagando ancora oggi) è stato quello di non voler riconoscere che Dio aveva donato alla Chiesa chi le forniva gli strumenti per affrontare il confronto con la modernità: il Beato Antonio Rosmini, interprete nel suo tempo della filosofia perenne. Ma allora si preferí condannarlo e si pensò che fosse sufficiente ricreare in laboratorio una filosofia d'altri tempi, il neo-tomismo (che molto poco aveva a che fare con il tomismo vero, presente nella filosofia rosminiana). I risultati di quell'operazione di "archeologismo filosofico" li abbiamo sotto gli occhi. Per cui mi sembra ingenuo pensare che si possa riproporre il linguaggio scolastico come soluzione ai problemi ermeneutici del Vaticano II. Solo quando, dopo aver riconosciuto la santità del Rosmini, la Chiesa avrà riconosciuto anche il suo contributo filosofico-teologico, forse avremo gli strumenti per risolvere i problemi che attanagliano la Chiesa d'oggi.

martedì 2 giugno 2009

Santo subito? Non c'è fretta

Ho letto il dossier de La Stampa sulla corrispondenza intercorsa tra Karol Wojtyla e Wanda Poltawska (trovate qui il penultimo degli articoli di Giacomo Galeazzi; sotto la foto troverete i link agli altri articoli; molto interessante anche l'intervista di oggi al postulatore; potete poi leggere il post di Andrea Tornielli, che aggiunge elementi nuovi alle informazioni riportate dal quotidiano torinese).

Che Giovanni Paolo II avesse un'amica, non mi fa alcun problema; che con lei abbia intrattenuto una corrispondenza, mi sembra più che naturale (per esperienza diretta so che il linguaggio dei santi può talvolta assumere certi toni ed essere frainteso). Se devo essere sincero, non mi interessa affatto il contenuto delle lettere che i due amici si scambiavano. In questo, sono d'accordo col Card. Dziwisz, secondo il quale le cose personali avrebbero dovuto rimanere personali, e la Poltawska non avrebbe dovuto pubblicare quel carteggio (soprattutto se, come afferma Tornielli, ci sono riferimenti a terzi).

Quello che invece mi meraviglia è che la totalità di quel carteggio non fosse ancora giunto nelle mani del postulatore e non sia stata considerata nel processo diocesano. C'è da chiedersi con quale serietà sia stato condotto quel processo. Le norme che regolano i processi di beatificazione e canonizzazione sono chiare. Nel caso di Papa Wojtyla era già stata fatta un'eccezione di non poco conto: l'introduzione immediata della causa, quando le norme, emanate dallo stesso Pontefice, fissano a cinque anni il termine minimo per quell'atto (e oggi tocchiamo con mano l'opportunità di quella norma). Si pensava di poter soprassedere anche alla norma di presentazione di tutti gli scritti del Servo di Dio? E la questione temo che non riguardi solo le lettere della Poltawska: a quanto mi risulta da fonte solitamente bene informata, lo stesso Card. Dziwisz non ha consegnato l'intero archivio personale di Giovanni Paolo II.

"Santo subito!" Dirò sinceramente che quel grido non mi ha mai trovato consenziente, non perché metta in dubbio la santità di Papa Wojtyla, ma semplicemente perché non vedo la necessità di tanta fretta. Abbiamo atteso cen'anni per la beatificazione di Pio IX; è da cinquant'anni che aspettiamo quella di Pio XII; perché Giovanni Paolo II dovrebbe diventare santo subito? Che fretta c'è? Se è santo, la sua santità prima o poi verrà riconosciuta; di che cosa si ha paura? Si tratta di cose estremamente serie; non a caso la Chiesa ha voluto che si facessero dei "processi". Un processo, per essere rigosoro, richiede i suoi tempi. Pensate che cosa sarebbe avvenuto ora, se il Papa avesse dispensato dallo svolgimento dei processi (avrebbe potuto farlo)!

Non so, e non mi interessa, se ci sono altre dietrologie in questa vicenda (come qualcuno vuole insinuare); dico solo che è doveroso (e penso che lo stesso Wojtyla lo vorrebbe) che tutto sia fatto secondo le regole, per evitare che si possa sollevare in futuro qualunque tipo di sospetto.