venerdì 20 novembre 2009

Chiesa e immigrazione

Beatrice, dalla Francia mi chiede un parere su una questione molto attuale, delicata e dibattuta: l’immigrazione. Nel suo messaggio fa riferimento al discorso pronunciato dal Santo Padre, una decina di giorni fa, nel corso dell’udienza ai partecipanti al VI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati. E aggiunge:

«Come dice Caterina per un altro soggetto, si tratta di un argomento che, “non avendo nulla a che fare con l’infallibilità”, può essere pacificamente discusso. Debbo confessare che faccio un po’ fatica a capire che cosa si aspetta il Santo Padre da noi (pur essendo sicura che egli dice la sola cosa possibile nel suo ruolo) leggendo questo: “La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie, sapendo che essi non sono solo un ‘problema’, ma costituiscono una ‘risorsa’ da saper valorizzare opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo”. Personalmente, credo di fare il mio possibile, ma l’inverso non è affatto evidente, qui dove vivo...».

Sono d’accordo con Beatrice che, trattandosi di una questione pastorale, non entra in gioco l’infallibilità, che riguarda esclusivamente le questioni dottrinali di fede e di morale. I problemi pastorali possono avere soluzioni diverse (e di fatto la Chiesa li affronta in maniera diversa, a seconda dei tempi e dei luoghi) e se ne può perciò liberamente discutere. Ciò non significa però che la Chiesa non abbia il diritto — e il dovere — di dare ai fedeli degli orientamenti da seguire, ispirandosi ai principi morali (quelli, sí, immutabili) e tenendo conto delle situazioni concrete in cui viviamo. Si tratta di uno dei compiti principali della Chiesa in ogni tempo: essa non deve solo interpretare e proclamare la retta dottrina, ma deve anche applicare tale dottrina alle diverse epoche storiche e ai diversi ambienti geografici in cui si trova a vivere.

Benedetto XVI, giustamente, rileva nel suo discorso: «Se il fenomeno migratorio è antico quanto la storia dell’umanità, esso non aveva mai assunto un rilievo cosí grande per consistenza e per complessità di problematiche, come al giorno d’oggi. Interessa ormai quasi tutti i Paesi del mondo e si inserisce nel vasto processo della globalizzazione». Se questa osservazione è vera — come è vera (e penso che nessuno possa eccepire sulla sua validità) — potrebbe la Chiesa ignorare tale fenomeno e far finta che non esista? Se lo facesse, allora sí che la si potrebbe accusare di vivere fuori del mondo. Non è solo suo diritto, ma è suo dovere prendere posizione in materia, non per “fare politica” (è ovvio che non è compito della Chiesa proporre soluzioni tecniche al problema), ma per ricordare i principi morali che devono guidarci nella ricerca di tali soluzioni tecniche e, soprattutto, per indicarci quale deve essere l’atteggiamento di fondo, le disposizioni interiori con cui dobbiamo affrontare il problema.

Il tema del convegno (e del discorso del Papa) era: “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”. Esso ci ricorda che la novità non sta nel fenomeno migratorio in sé (sempre esistito), ma nell’era della globalizzazione, in cui esso si inserisce. Per quanto si possa discutere sulla globalizzazione, essa è un dato di fatto, è la realtà in cui viviamo: ne godiamo dei benefici e ne subiamo gli inconvenienti. Dove inseriamo le migrazioni: fra i benefici o fra gli inconvenienti della globalizzazione? Probabilmente sia fra gli uni che fra gli altri, perché tale fenomeno comporta tanto benefici quanto inconvenienti; come, del resto, qualsiasi altra realtà umana: non c’è rosa senza spine.

La tentazione, che assale anche molti cristiani, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione e dall’immigrazione è quella di chiuderci in noi stessi e dire (come abbiamo sentito ripetere anche in questi giorni): “Tornino a casa loro! Non c’è lavoro per noi; figuriamoci per loro!”. Può essere una reazione comprensibile; ma del tutto irrazionale. In certi casi, non possiamo lasciarci guidare dalle emozioni; dobbiamo usare la testa. Soprattutto chi ha la responsabilità della cosa pubblica e deve trovare le soluzioni tecniche di cui si diceva, deve farlo usando la ragione e non assecondando le spinte emotive.

Il pensare di potersi chiudere in sé stessi e in tal modo risolvere i nostri problemi è semplicemente ingenuo e illusorio. Che lo si voglia o no, viviamo in un mondo globalizzato; siamo cioè interconnessi col resto del mondo e dell’umanità. E non possiamo farne a meno: tanto vale cogliere questa occasione per trarne il maggior beneficio per noi stessi e per gli altri. Viene gente da ogni parte del mondo a cercare lavoro qui da noi? Che male c’è? Lo abbiamo fatto anche noi nel passato; e se oggi godiamo di un certo benessere, lo dobbiamo anche ai sacrifici dei nostri padri e dei nostri nonni, che hanno lasciato l’Italia in cerca di fortuna all’estero. Inoltre, noi abbiamo bisogno di questi lavoratori: non è vero che rubano il lavoro ai nostri figli; semplicemente riempiono dei posti che, senza di loro, rimarrebbero vuoti. Non solo non possiamo rifiutarli, ma dovremmo essere loro riconoscenti, perché vengono a svolgere dei servizi, di cui abbiamo bisogno e che altrimenti nessuno farebbe.

Questo, credo, significhi trasformare un “problema” in una “risorsa”. È vero che talvolta tale frase può trasformarsi in uno slogan; ma si tratta di un principio generale profondamente vero: saggio è colui che è capace di trasformare i problemi in “opportunità”. Anziché continuare a lamentarsi, imprecare e piangersi addosso, è molto meglio cercare di trarre qualche vantaggio da certe situazioni che siamo costretti a subire. Difficile? Non c’è dubbio; ma dove sta scritto che la vita sia facile? Oltre tutto, quando non ci sono soluzioni alternative, l’unica via da seguire è appunto questa: sfruttare la situazione per trarne la maggior convenienza. Come vedete, non faccio un discorso moralistico, ma un discorso di interesse (ovviamente, non un tornaconto egoistico, ma, se vogliamo, “globale”).

Beatrice chiede: Che cosa si aspetta il Santo Padre da noi? Non sono il Santo Padre per poter rispondere alla domanda; ma il buon senso mi suggerisce che certamente non si aspetta che noi risolviamo problemi piú grandi di noi: non ci riescono i politici; dovremmo riuscirci noi? Credo che l’unica cosa che il Papa si attende dai cristiani sia, appunto, un atteggiamento di “apertura” nei confronti degli immigrati: «La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie». “Aprire il cuore” non significa, necessariamente, aprire la propria casa o aprire il portafoglio: ci potranno essere dei momenti o delle situazioni in cui ci viene chiesto anche questo; ma è ovvio che, in generale, i semplici fedeli (e cittadini) non possono farsi carico dei problemi dell’umanità intera. “Aprire il cuore” significa non essere prevenuti verso gli immigrati, non considerarli dei “nemici” o dei criminali, ma dei poveri disgraziati, che hanno bisogno della nostra compassione e del nostro aiuto. Aiuto non significa fare loro l’elemosina (oltretutto non rispettosa della dignità delle persone), ma dare loro la possibilità di trovare un lavoro e una sistemazione: se, per esempio, abbiamo bisogno di qualcuno che lavori per noi, non dovremmo escludere la possibilità di affidare (pur con tutte le cautele e nel pieno rispetto della legalità) tale lavoro a un immigrato. Ma ciò che è piú importante è vedere negli immigrati non delle bestie, ma degli esseri umani o, se volete, dei “fratelli” (anche quando non condividono la nostra stessa fede, ma sono pur sempre “figli di Dio”). Non potremo forse risolvere tutti i loro problemi; ma, per lo meno, li avremo fatti sentire accolti e non degli stranieri.