venerdì 31 dicembre 2010

Il “cortile dei gentili”

Articolo pubblicato sul n. 4/2010 (ottobre-dicembre 2010) dell’Eco dei Barnabiti, pp. 11-12, per la rubrica “Osservatorio ecclesiale”.


Uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II sono state, senza dubbio, le due giornate di preghiera per la pace organizzate ad Assisi rispettivamente nel 1986 e nel 2002. Sembrava che quegli incontri avessero inaugurato una nuova epoca nella storia della Chiesa. Si parlava dello “spirito di Assisi” come di un nuovo modo di essere, che avrebbe dovuto contrassegnare da allora in poi il cammino della Chiesa. 

A quegli incontri era assente uno dei prelati più influenti della Curia Romana, nientepopodimeno che il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il Card. Joseph Ratzinger. Egli non nascose le sue perplessità sull’opportunità di quella iniziativa, che avrebbe potuto costituire una sorta di legittimazione della visione relativistica secondo cui tutte le religioni si equivalgono. Nel caso della seconda giornata era perlomeno riuscito a ottenere che gli appartenenti alle diverse religioni non pregassero insieme, ma ciascun gruppo lo facesse separatamente. Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger è diventato Papa Benedetto XVI; e da allora non ci sono state, come era prevedibile, nuove giornate di Assisi. Incontri similari, che pure si sono svolti negli ultimi anni, sono stati promossi da qualche gruppo ecclesiale di base (p. es. la Comunità di Sant’Egidio).

Il Card. Ratzinger aveva espresso alcune riserve anche a proposito del dialogo interreligioso, riserve da lui confermate anche dopo l’elezione al supremo pontificato. Lo ha fatto non in un documento ufficiale, ma in una lettera privata, indirizzata al Senatore Marcello Pera, il quale l’ha pubblicata in apertura del suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondatori, Milano, 2008). In essa il Pontefice con grande lucidità afferma:

«Un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».

A rigor di termini, dunque, secondo Benedetto XVI, un dialogo interreligioso che avesse pretese teologiche non è praticabile, perché condannato alla sterilità: su che cosa ci si può mettere d’accordo, quando sul piano teologico non si ha nulla in comune? È diverso il caso del dialogo ecumenico con i fratelli cristiani non cattolici: in quel caso abbiamo qualcosa che ci accomuna (la stessa fede), sebbene ci possano essere molteplici punti, anche di un certo rilievo, che ci separano. Con le altre religioni non possiamo dire che abbiamo in comune lo stesso Dio (questione problematica anche nel rapporto con le cosiddette religioni “monoteistiche”; figuriamoci quando si tratta di dialogare con le religioni orientali); non basta essere contro l’ateismo o l’indifferentismo contemporanei per trovare un punto comune con le altre tradizioni religiose.

Il fatto che non sia possibile un dialogo teologico con le religioni, non significa però che non si possa stabilire con loro alcun tipo di dialogo. È per questo che Benedetto XVI parla di “dialogo interculturale”: è proprio sul piano culturale o, se vogliamo, razionale che è possibile incontrarsi con coloro che non condividono la nostra stessa fede. Nella sua lettera al Sen. Pera il Papa auspica un “confronto pubblico” sulle “conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo”: ciascuna religione dà origine a una cultura; ogni popolo possiede una sua cultura; ebbene, il dialogo fra tali culture è non solo possibile, ma necessario, perché da esso possono derivare “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole”.

Quali sono le premesse “ideologiche” (in senso positivo) di questo atteggiamento di Benedetto XVI? Probabilmente l’esperienza del cristianesimo delle origini. Il cristianesimo nacque all’interno di una determinata cultura, quella giudaica; ma ben presto, pur conservando alcuni tratti caratteristici di quella matrice, se ne distaccò confrontandosi con una nuova cultura, quella ellenistica. Si noti: il cristianesimo non intraprese un dialogo con le religioni pagane allora diffuse; ma non si fece scrupolo di confrontarsi con l’ellenismo, al punto di assumerne le categorie culturali e utilizzarle per esprimere la propria fede. Oggi parleremmo di un processo di “inculturazione” perfettamente riuscito (sull’incontro fra cristianesimo ed ellenismo si veda il magistrale discorso di Benedetto XVI a Ratisbona del 12 settembre 2006).

Uno sforzo più o meno simile fu tentato nei secoli successivi, anche se non con lo stesso successo. Quando, nel XIII secolo, san Tommaso d’Aquino si trovò di fronte ai musulmani e ai pagani del suo tempo, al fine di dare una fondazione razionale alle verità della fede cristiana, scrisse la Summa contra gentiles. Quando, nel Seicento, Matteo Ricci si recò in Cina, non teorizzò un dialogo con tutte le religioni ivi esistenti (per esempio, si oppose risolutamente al taoismo e al buddismo); ma si rese conto che con il confucianesimo, forse per il suo carattere più etico-civile che religioso, era non solo possibile ma necessario stabilire un confronto.

È ovvio che tutti gli uomini, al di là delle differenze culturali e religiose, possiedono una stessa natura, possono ritrovarsi su un terreno comune, che è quello della ragione; ed è a questo livello che possono e debbono dialogare per “una mutua correzione e un arricchimento vicendevole”. Oltre a ciò gli uomini appartenenti alle diverse religioni potranno accordarsi per perseguire obiettivi concreti in vari campi, quali la difesa della vita, la salvaguardia del creato, la lotta per la giustizia, lo sviluppo della società civile, la promozione della pace, ecc.

Proprio perché il terreno di incontro è quello della ragione, comune non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini, tale tipo di dialogo è esteso anche a coloro che affermano di non professare alcuna religione. Nel passato ci si compiaceva di presentarsi come “atei”; oggi si preferisce piuttosto definirsi “agnostici”; ma il risultato non cambia. Quale deve essere l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei non-credenti? Solitamente oggi parliamo, a questo proposito, di “nuova evangelizzazione” (a proposito, è stato appena costituito un “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”). Ma giustamente Benedetto XVI faceva notare un anno fa:

«Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi … Dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cf Is 56:7; Mc 11:17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio … Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto» (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2009).

Il “nuovo corso” inaugurato da Benedetto XVI dunque non ci invita, come qualcuno potrebbe credere, a sottrarci al confronto con l’esterno e a chiuderci in una specie di “torre d’avorio”. Esso piuttosto ci stimola ad aprici ancora di più verso chi cristiano non è. Il Papa addirittura auspica che si apra un “cortile dei gentili”, vale a dire uno spazio d’incontro, all’interno della stessa Chiesa. Ciò che gli sta a cuore è che il dialogo, per essere autentico, deve rispettare alcune regole fondamentali: 
— esso deve, innanzi tutto, avvenire nella chiarezza, senza confusioni o falsi irenismi;
— non deve nascondere, ma semmai sottolineare l’identità specifica di ciascuno dei dialoganti;
— deve svolgersi sull’unico terreno dove tutti si possono ritrovare, quello della comune umanità. 

martedì 28 dicembre 2010

Manomissione del salterio

L’amico sacerdote don Andrea, dopo aver letto il post di ieri, mi ha scritto:

«Alle osservazioni che hai fatto, ne aggiungo un’altra, anche se mi consta purtroppo che nessun padre sinodale abbia sollevato la questione: mi riferisco al tema dei salmi deprecatori che sono stati totalmente censurati dalla liturgia, e spesso gli stessi salmi vengono mutilati al loro interno. Esiste un criterio scientifico, teologico o pastorale per censurare la parola di Dio? È vero che forse certe espressioni possono destare meraviglia, ma la meraviglia può diventare una buona occasione per una catechesi e una riflessione. Non trovi che l’operazione sia una vera e propria edulcorazione del salterio? Di questi salmi e versetti si poteva studiare al limite una veste grafica diversa, ma trovo assai problematica la loro completa scomparsa».

Don Andrea tocca un problema serio: lui lo chiama, garbatamente, “edulcorazione del salterio”; io lo chiamerei piuttosto vera e propria “manomissione”. 

È innegabile che la Chiesa abbia sempre operato una selezione delle pagine bibliche da proporre ai fedeli: non tutti i passi della Scrittura sono sempre “edificanti”. Una delle obiezioni che viene fatta da alcuni al nuovo lezionario è proprio quella che esso propone talvolta letture che potrebbero scandalizzare i piú semplici (al punto che alcuni sacerdoti preferiscono, non appena se ne presenti l’occasione, sostituire le letture feriali con quelle proprie dei santi). In passato la selezione, soprattutto per quanto riguarda il Vecchio Testamento, era ancora piú ristretta, onde evitare qualsiasi imbarazzo. Si tratta di una preoccupazione pastorale della Chiesa, che nessuno può ragionevolmente contestare.

Ma non era mai avvenuto che si procedesse a una “censura” del salterio. Siccome l’Ufficio divino era un tempo recitato esclusivamente dal clero (e in latino), non si poneva il problema dei salmi o dei loro passi imprecatori. Ora invece che viene raccomandata a tutti la celebrazione della Liturgia delle Ore, la Chiesa si è posto il problema — pastorale — dell’opportunità di leggere quel tipo di salmi. L’Institutio generalis de Liturgia Horarum (IGLH) afferma in proposito:

«I tre salmi 57, 82 e 108, nei quali prevale il carattere imprecatorio, vengono esclusi dal salterio corrente. Cosí pure alcuni versetti di qualche salmo sono stati omessi come viene indicato all’inizio del salmo. L’omissione di questi testi è dovuta unicamente a una certa qual difficoltà psicologica. Infatti questi stessi salmi imprecatori si trovano nella pietà del Nuovo Testamento, per esempio nell'Apocalisse al cap. 6, 10, e in nessun modo intendono indurre a maledire» (n. 131).

Dunque, tre salmi non vengono mai recitati nell’attuale Liturgia delle Ore e altri salmi sono stati “emendati”. Due soli esempi, fra quelli che recitiamo piú frequentemente: il salmo 62 (63), che preghiamo alle Lodi mattutine della domenica della prima settimana, non termina, come potremmo pensare, con: «A te si stringe l’anima mia. La forza della tua destra mi sostiene»; ma continua con le seguenti parole:

«Ma quelli che attentano alla mia vita scenderanno nel profondo della terra, saranno dati in potere alla spada, diventeranno preda di sciacalli. Il re gioirà in Dio, si glorierà chi giura per lui, perché ai mentitori verrà chiusa la bocca».

Il salmo 109 (110), che recitiamo tutte le domeniche ai Vespri, è ancora piú crudo. Il v. 6, che nella Liturgia delle Ore viene omesso, afferma: «Giudicherà i popoli: in mezzo a cadaveri ne stritolerà la testa su vasta terra».

Probabilmente i lettori, leggendo tali testi, non proveranno alcun dispiacere per la loro estromissione dalla liturgia. Eppure l’IGLH precisa che si tratta di un’omissione motivata esclusivamente da «una certa qual difficoltà psicologica». Non si tratta dunque di una “censura” o, peggio, di una “correzione” del salterio. Non esistono motivi teologici di sorta che possano in alcun modo giustificare una “revisione” della Bibbia. Se è vero che la Scrittura contiene la parola di Dio, che autorità abbiamo noi di “emendare” la parola di Dio? Al massimo, potremo, anzi dovremo sforzarci di interpretarla.

Eppure nella Liturgia Horarum, cosí come essa si presenta oggi a noi, una censura di fatto esiste, perché se uno volesse pregare il salterio nella sua interezza e i singoli salmi nel loro testo integrale, non può farlo: se vuol farlo, deve far ricorso alla Bibbia. Il che non sembra molto corretto. Ricordo che il compianto Padre Luis Alonso Schökel diceva giustamente che sarebbe stato piú corretto procedere come si era fatto nel caso del Canone Romano, dove i nomi dei santi non erano stati omessi, ma semplicemente racchiusi fra parentesi, lasciando al celebrante la libertà di leggerli o meno. Soluzione, questa, che è stata successivamente adottata nel volumetto Psalmi et cantici iuxta Novae Vulgatae editionis textum, Libreria Editrice Vaticana, 1999, che riporta l’intero salterio (piú i cantici dell’Antico e Nuovo Testamento usati nell’Ufficio) con l’apparato per l’uso corale (l’asterisco «*» per la mediana e l’obelisco «†» per la flexa): i testi imprecatori sono, appunto, riportati fra parentesi quadre (senza apparato). Il Salterio corale del Padre Paolino Beltrame-Quattrocchi, invece, ha adottato un diverso sistema: i testi imprecatori sono riportati (col rispettivo apparato) in corsivo, compresi i salmi 57, 82 e 108. Ciò si spiega perché i monaci seguono una diversa distribuzione del salterio, comprendente tutti i salmi senza eccezioni.

Una o l’altra delle soluzioni citate avrebbe potuto essere adottata, a mio parere, senza difficoltà anche dalla Liturgia delle Ore secondo il Rito Romano. Si sarebbe cosí lasciata a tutti la libertà di leggere o tralasciare i passi imprecatori. Se non altro, almeno in alcune occasioni, l’imbattersi in certe espressioni, avrebbe potuto diventare, come giustamente ricorda don Andrea, «una buona occasione per una catechesi e una riflessione».

lunedì 27 dicembre 2010

“Verbum Domini” et... verba hominum

Finalmente sono riuscito a leggere l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini. A giudicare dalle reazioni e dai commenti, praticamente inesistenti, sembrerebbe già caduta nell’oblio. Mi sono chiesto il perché. In fondo è fatta bene, è completa e ricca di spunti. Come mai dunque nessuno ne parla? Butto là qualche possibile spiegazione. 

Forse è passato troppo tempo tra la celebrazione del Sinodo (5-26 ottobre 2008) e la pubblicazione dell’esortazione apostolica (11 novembre 2010): non sono un tantino eccessivi due anni per rielaborare le conclusioni di un Sinodo e stenderne una sintesi?

Forse la pubblicazione di Verbum Domini è stata troppo presto “oscurata”, una decina di giorni dopo, da quella del libro-intervista Luce del mondo, che ha avuto una notevole risonanza sui media, per i motivi che conosciamo.

Forse il “monopolio” della Libreria Editrice Vaticana ha ritardato la distribuzione dell’esortazione apostolica nelle librerie: quando il documento è uscito, se uno, preso dalla curiosità, andava a cercarlo in libreria, non lo trovava; quando è arrivato (con un mesetto di ritardo), l’interesse era già scemato.

Forse la mole del documento (232 pagine) ha scoraggiato qualcuno: d’accordo che c’erano tante cose da dire; ma possibile che non si potesse essere un po’ piú sintetici?

Qualcun altro forse è stato scoraggiato dal prezzo: non sono pochi 6 euro per un opuscolo che, una volta aperto, si trasforma in un raccoglitore di foglietti volanti. Possibile che non si riuscisse a fare un’edizione piú agile ed economica? In fondo, gli Orientamenti pastorali della CEI Educare alla vita buona del Vangelo, pubblicati dalle Paoline, costano un quarto dell’esortazione apostolica (€ 1,50).

La lettura di Verbum Domini non ha dissipato le perplessità che avevo espresso in un recente post, a proposito delle esortazioni apostoliche e del sistema sinodale in genere. Mi chiedo se valga la spesa mettere in moto una macchina cosí complessa come il Sinodo dei Vescovi, per avere poi dei documenti che saranno anche belli, ma, con la pretesa di dire un po’ tutto, finiscono per essere verbosi e ripetitivi. Per parlare della parola di Dio, è proprio necessario metterla in rapporto con tutto lo scibile teologico (liturgia, sacramenti, catechesi, vocazioni, ministri ordinati, vita consacrata, laici, famiglia, evangelizzazione, giustizia, pace, giovani, migranti, poveri, ecologia, cultura, mezzi di comunicazione, ecumenismo, dialogo interreligioso, ecc. ecc.)? Non stiamo esagerando un pochino? Sarà anche vero che al Sinodo sono stati toccati tutti questi aspetti; ma... a che serve? Non vorrei apparire iconoclasta, ma a me sembra che il sommergere la parola di Dio in un profluvio di parole umane non giovi molto alla sua causa.

Oltre tutto, in qualche caso, quando si trattava di affrontare problemi specifici, si è preferito sorvolare. Tanto per fare un esempio, il Sinodo aveva avanzato una proposta, discutibile quanto si vuole, ma concreta: l’apertura del ministero del lettorato alle donne (proposizione 17). Ebbene, nell’esortazione apostolica... ne verbum quidem (cf n. 58). Capisco che talvolta, su certi argomenti, sia meglio glissare. Ma perché non dare una spiegazione della mancata accoglienza della proposta dei Vescovi? A che serve continuare a ripetere certe frasi fatte (“genio femminile”, n. 85), che rischiano di ridursi a semplici slogan? Non sarebbe stato piú semplice dire: “Sebbene non ci siano motivi teologici che lo impediscano, almeno per il momento si preferisce rimanere fedele alla secolare tradizione della Chiesa, che ha sempre riservato i ministeri istituiti ai soli uomini” (cf Paolo VI, motu proprio Ministeria quaedam, 15 agosto 1972, norma VII).

Da parte mia, vorrei soffermarmi su due aspetti, certamente secondari, ma ai quali sono particolarmente interessato. Il primo riguarda il rapporto fra la parola di Dio e la liturgia. L’esortazione apostolica gli dedica uno spazio non indifferente (dal n. 52 al n. 71). Personalmente, ho trovato molto stimolante la connessione fra “lettura orante” della Bibbia e liturgia:

«In un certo senso la lettura orante, personale e comunitaria, deve essere sempre vissuta in relazione alla celebrazione eucaristica. Come l’adorazione eucaristica prepara, accompagna e prosegue la liturgia eucaristica, cosí la lettura orante personale e comunitaria prepara, accompagna e approfondisce quanto la Chiesa celebra con la proclamazione della Parola nell’ambito liturgico» (n. 86).

C’è però, secondo me un altro aspetto che è stato completamente trascurato: è vero che la lectio divina dovrebbe far riferimento alla parola di Dio letta durante la Messa; ma è altrettanto vero che la riforma liturgica ha, in qualche modo, assunto la lectio divina all’interno della liturgia stessa, e precisamente nella Liturgia delle Ore, con un’Ora specifica detta, appunto, Officium lectionis. In italiano quest’Ora viene chiamata, piuttosto banalmente, “Ufficio delle letture”, senza rendersi conto che si tratta, invece, dell’Ufficio della lectio. Ebbene, che dice a questo proposito il Sinodo? Nulla. C’è — è vero — un numero dedicato a “Parola di Dio e Liturgia delle Ore”, che non aggiunge però nulla di nuovo: si limita a ripetere cose che già sapevamo. Si afferma che «il Sinodo ha espresso il desiderio che si diffonda maggiormente nel Popolo di Dio questo tipo di preghiera [= la Liturgia delle Ore], specialmente la recita delle Lodi e dei Vespri». Sí, benissimo; ma che c’entra in questo contesto? Perché non promuovere piuttosto la celebrazione, privata e pubblica, dell’Officium lectionis? E perché non raccomandare l’uso del ciclo biennale delle letture, previsto nella Institutio generalis Liturgiae Horarum (nel breviario attualmente in uso è contenuto il ciclo unico, che tralascia buona parte dei libri della Bibbia) e, già che c’eravamo, sollecitare la pubblicazione del “Supplemento” atteso da quarant’anni (ibid., n. 145)?

Un altro aspetto che mi sta a cuore è quello delle traduzioni della Bibbia. Verbum Domini ne parla al n. 115. Giustamente l’esortazione apostolica lamenta che «varie Chiese locali non dispongono ancora di una traduzione integrale della Bibbia nelle proprie lingue». Purtroppo è vero. Ma, accanto a tale problema, esiste anche quello delle traduzioni scadenti. È mai possibile che nelle Filippine (unico paese cristiano dell’Asia, con oltre l’80% di cattolici) per la liturgia si debba usare una modestissima traduzione della Bibbia in tagalog di origine protestante? (l’unica preoccupazione è stata quella di sostituire gli spagnolismi con termini indigeni, p. es. bautismo è stato rimpiazzato da binyagan). In barba alla raccomandazione conciliare di tradurre la Bibbia dai testi originali (Dei Verbum, n. 22), spesso viene il dubbio che certe traduzioni nelle lingue locali siano in realtà “ritraduzioni” dalle lingue europee...

Giustamente l’esortazione apostolica, citando un precedente documento della Pontificia Commissione Biblica, rammenta che «una traduzione ... è sempre qualcosa di piú di una semplice trascrizione del testo originale». Ma non sarebbe stato opportuno accennare almeno a qualche criterio di traduzione? Visto che si discute se si debba adottare la “corrispondenza letterale o formale” o la “equivalenza letteraria o dinamica” (vedi qui), non sarebbe stato il caso di suggerire qualche orientamento? In campo liturgico, si è intervenuti in maniera categorica, con l’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001). Le traduzioni bibliche, a prescindere dal loro uso liturgico, non meritavano un’analoga attenzione?

sabato 25 dicembre 2010

In Nativitate Domini



Buon Natale a tutti i lettori!

martedì 21 dicembre 2010

Continuità e sviluppo

Un lettore mi ha segnalato la lettera del Padre Giovanni Cavalcoli al Prof. Corrado Gnerre, pubblicata l’altro giorno su Messainlatino.it, esprimendo l’auspicio di un mio intervento sull’oggetto della controversia. 

Avevo già letto la lettera, come tutti gli interventi precedenti sull’argomento. Come sanno i miei lettori, il problema dell’interpretazione del Concilio rientra tra i miei maggiori interessi. Questo blog è nato con la pubblicazione di una riflessione proprio su Concilio e “spirito del Concilio” in tempi non sospetti (lo studio era del giugno 2008 e fu pubblicato a fine gennaio 2009). Come spiegavo in quel post, avevo inviato le mie considerazioni a un paio di siti web (uno dei quali aveva sollecitato una mia collaborazione), senza però vederle pubblicate. Erano passati già quattro anni dal discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana sulle due ermeneutiche del Concilio, ma fino ad allora quel discorso non aveva provocato alcun dibattito. Sembrava quasi che le mie riflessioni non potessero interessare nessuno. Una volta pubblicate, esse ebbero una discreta risonanza, soprattutto sui siti tradizionalisti. In questi ultimi due anni sembrerebbe che tutti si siano d’un tratto svegliati: ciascuno vuol dire la sua. La cosa non può che farmi piacere. Non vorrei essere frainteso: non sono cosí sciocco da pensare che l’interesse sul Concilio sia stato risvegliato dal mio post; voglio solo dire che avevo visto giusto dicendo che, trascorsi quarant’anni dal Vaticano II, fosse «non solo legittimo, ma in certa misura doveroso procedere a un ripensamento del Concilio».

Successivamente sono tornato a piú riprese nei miei post sull’argomento, non soltanto per confermare quanto da me espresso in quel primo studio, ma spesso per precisare, completare, rivedere e correggere le mie posizioni. L’argomento, secondo me, è ancora aperto, per cui leggo con grande interesse tutti i contributi che vengono pubblicati. Ciò che non prendo in considerazione sono le prese di posizione preconcette, ispirate dall’ideologia e che non ammettono discussione, come quando si presenta il Concilio come “nuovo inizio” o, al contrario, come “rovina” della Chiesa.

In questi ultimi tempi, è vero, non sono piú intervenuto in materia, nonostante l’intensificarsi del dibattito. Come mai? Mi sembra che questo debba essere per me un momento di ascolto e di riflessione prima che di proposta di soluzioni. Vedo che sono stati pubblicati recentemente contributi di un certo spessore: penso che prima di pronunciarsi sia doveroso leggerseli. E io confesso di non aver avuto ancora tempo e modo di leggere né il libro di Mons. Brunero Gherardini (fra l’altro, non reperibile nelle comuni librerie cattoliche) né, tanto meno, quello appena uscito del Prof. Roberto De Mattei. Non vorrei prendere una cantonata simile a quella che presi quando scrissi un post sul libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto? senza averlo ancora letto (per forza, a quell’epoca ero in India; eppure ci fu chi si indignò perché mi ero permesso di fare delle riflessioni basate su una recensione): quando poi lo lessi, mi accorsi che non rivestiva l’importanza, che sembrava attribuirgli Introvigne nella prefazione. Attualmente sto leggendo un testo fondamentale nel settore: lo Iota unum di Romano Amerio, al quale molti interventi successivi fanno riferimento. Per ora preferisco non pronunciarmi, dal momento che non ne ho ancora concluso la lettura, anche se mi sto già facendo un’idea.

Quanto alla lettera di Padre Cavalcoli (che ho avuto modo di conoscere al convegno su Amerio, tenuto a San Marino il 12 giugno scorso), non posso che condividerla in toto. Sarà che quando si ha la stessa formazione, si finisce sempre per ritrovarsi piú o meno d’accordo; ma a me quello di Padre Cavalcoli sembra un contributo notevole, che meriterebbe ben piú di una lettera. Mi sembrano quanto mai pertinenti le sue precisazioni sulla natura “pastorale” del Concilio. Questa non esclude affatto una sua innegabile dimensione “dottrinale”: «Il Concilio [contiene] pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite».

Agli esempi portati da Padre Cavalcoli (l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa) mi permetto di aggiungerne un altro, che rende bene l’idea del valore dogmatico del Concilio: la definizione della sacramentalità dell’episcopato, una verità che fino ad allora era non era stata ancora sufficientemente messa in luce (si pensava che l’episcopato aggiungesse al sacerdozio solo la potestas jurisdictionis):

«Insegna il Sacro Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei Santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, vertice del sacro ministero» (Lumen gentium, 21).

Sfido chiunque a considerare tale testo un intervento “pastorale”; il suo carattere dottrinale è indiscutibile («Insegna il Sacro Concilio...»). Semmai, si potrà discutere sulla sua “nota teologica” (= il suo carattere vincolante).

Un tale pronunciamento illustra bene anche il vero senso da dare all’idea di “continuità”, ripreso da Padre Cavalcoli:

«La continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche ... ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli».

Alcuni avrebbero voluto che il Concilio si limitasse a riproporre, tali e quali, le formule già elaborate nei secoli precedenti; siccome non lo ha fatto, ciò sarebbe prova della sua “rottura” con la tradizione. Come spiega bene Padre Cavalcoli, “continuità” non è sinonimo di “ripetizione”, ma implica l’idea di “sviluppo” e di “progresso”, come nel caso della sacramentalità dell’episcopato, una “novità” ben radicata nella tradizione. Non per voler citare me stesso, ma solo per evitare di ripetere cose già dette, mi permetto di rinviare, a questo proposito, al mio post Tradizione e tradizione. Di solito, se si vuole difendere la tradizione, bisogna accettarne lo sviluppo; talvolta l’attaccamento acritico al passato e la riproposizione materiale delle vecchie formule possono rivelarsi come il peggior tradimento della tradizione.

mercoledì 15 dicembre 2010

Tradizionalista o liberale?

Ho l’impressione che la pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI Luce del mondo abbia provocato, nelle file del tradizionalismo, una certa delusione. E non soltanto per via del pronunciamento — obiettivamente inedito (nonostante i tentativi di interpretazione alla luce della dottrina morale tradizionale) — a proposito dell’uso del profilattico.

I tradizionalisti pensavano che Benedetto XVI fosse uno dei loro. Effettivamente, prima di diventare Papa, il Card. Ratzinger passava per il maggior rappresentante dell’ala conservatrice della Curia Romana: i suoi interventi come Prefetto del Sant’Uffizio erano sempre stati in difesa dell’ortodossia (ma si dimentica forse che tali interventi erano il piú delle volte “commissionati” da Giovanni Paolo II). Una volta divenuto Papa, Benedetto XVI aveva attirato le simpatie dei tradizionalisti per l’atteggiamento di apertura verso i lefebvriani e, soprattutto, per i suoi interventi in campo liturgico (in primis, la liberalizzazione del rito romano antico). È vero che c’erano stati altri atteggiamenti che lasciavano perplessi; ma solitamente o li si riconduceva a manovre di corte (la resistenza dei settori piú progressisti della Curia Romana) o a motivi di opportunità “politica” (la dovuta considerazione delle posizioni talvolta radicali di alcuni episcopati). 

La pubblicazione di Luce del mondo ha in qualche modo segnato la fine delle illusioni: Benedetto XVI non è il Papa tradizionalista che veniva dipinto sia da destra che da sinistra, ma continua a essere il teologo progressista che ha preso parte attiva al Concilio Vaticano II. Certo, da allora ne è passata di acqua sotto i ponti; le posizioni di Ratzinger si sono progressivamente evolute, ma senza mai mettere in discussione l’atteggiamento liberale di fondo. 

Se si vuole descrivere a grandi linee tale evoluzione, penso che si possano individuare tre o quattro “svolte” nella sua vita. La prima è quella del Sessantotto, che, secondo Hans Küng, avrebbe notevolmente impressionato Ratzinger, portandolo su posizioni piú moderate. La seconda svolta è stata il suo trasferimento a Roma, che gli ha permesso di vedere le cose in una prospettiva diversa, sia perché Roma è un osservatorio piú universale, sia perché il compito svolto lo costringeva ad assumere posizioni piú rigide. La terza svolta è stata costituita dal contatto, per motivi istituzionali, con i movimenti tradizionalisti (fu lui a gestire lo “scisma” lefebvriano), che lo obbligò a riconoscere almeno in parte le loro ragioni. L’ultima svolta è consistita nell’elezione al pontificato: fra i suoi obiettivi programmatici è apparso fin dall’inizio l’ecumenismo; ed è in tale contesto che va considerata la ricomposizione della frattura con la FSSPX, che ha comportato la liberalizzazione della liturgia romana antica e la remissione delle scomuniche ai quattro vescovi lefebvriani. Tutto ciò non ha mai significato un rinnegamento delle posizioni di partenza, anzi va letto alla luce di quelle: l’apertura al movimento di Mons. Lefebvre non può essere considerata come un’approvazione del tradizionalismo qua talis, ma come una delle tante attuazioni dell’ecumenismo voluto dal Concilio. Penso che un giudizio sintetico, che fotografa bene la personalità di Benedetto XVI, sia quello espresso da Mons. Bernard Fellay in una conferenza tenuta a Bahia il 9 luglio 2010: «Il Papa è un uomo con la testa progressista, ma col cuore cattolico, amante della tradizione».

Probabilmente è un bene che ci sia stata questa disillusione. I tradizionalisti sembravano volersi in qualche modo “annettere” il Papa, rendendolo quasi il leader di un partito e dimenticando che egli non può che essere il padre di tutti. Allo stesso tempo però penso che sia un bene anche rendersi conto che non bisogna mai riporre le proprie speranze esclusivamente in un uomo, fosse pure il Papa. Il Papa è certamente un punto di riferimento fondamentale nella Chiesa, ma non può essere, neppure lui, assolutizzato: ciò che conta è la fede in Cristo, l’amore alla Chiesa, la fedeltà alla tradizione (quella vera!). In tutto ciò il Papa ci è di guida; ma non deve scandalizzarci se a un certo punto scopriamo che anche lui ha le sue idee, che non collimano in tutto con le nostre. Certo, sarebbe meglio, come scrivevo in un mio post precedente, che, per evitare disorientamenti, il Papa in qualche modo si spogliasse di sé e si limitasse a fare il Papa; ma questo forse è diventato impossibile ai nostri giorni (pensate che cosa direbbero se si rifiutasse di rispondere alle domande dei giornalisti!). Quel che conta è rimanergli fedeli non quando rilascia interviste (nel qual caso si può tranquillamente dissentire), ma nel momento in cui egli esercita la sua autorità apostolica.

martedì 7 dicembre 2010

Il segreto dell'indefettibilità della Chiesa

Ripensavo al mio post di ieri questa mattina, mentre leggevo la seconda lettura dell’Officium lectionis, tratta dalle lettere di Sant’Ambrogio:

«Non senza motivo, fra le tante correnti del mondo, la Chiesa resta immobile, costruita sulla pietra apostolica, e rimane sul suo fondamento incrollabile contro l’infuriare del mare in tempesta. È battuta dalle onde ma non è scossa e, sebbene di frequente gli elementi di questo mondo infrangendosi echeggino con grande fragore, essa ha tuttavia un porto sicurissimo di salvezza dove accogliere chi è affaticato».

La mia attenzione si è fermata in particolare sulla frase che in italiano è stata tradotta: «È battuta dalle onde ma non è scossa». Se ci riflettete, cosí formulata, essa risulta contraddittoria: ciò che è battuto è per ciò stesso scosso. E infatti Ambrogio non dice questo; il testo originale suona: «Abluitur undis, non quatitur», che significa: «È lavata dalle onde, non scossa». Il che è ben diverso!

Mi veniva allora di pensare all’esperienza che la Chiesa sta attualmente vivendo con lo scandalo degli abusi. La campagna mediatica ingaggiata contro la pedofilia sembrerebbe una tempesta che sta scuotendo la Chiesa, col rischio di farla affondare. In realtà, ci ammonisce il Santo Vescovo di Milano, quelle onde che colpiscono la Chiesa, nonché squassarla, servono per lavarla. Come non si stanca di ricordarci il Santo Padre, invece di lamentarci contro i media che mettono in piazza il male presente nella Chiesa, dovremmo ringraziare il Signore che ci dà, con ciò, un’occasione di purificazione.

Un monaco del VI secolo, San Doroteo di Gaza, in una delle sue istruzioni (De accusatione sui ipsius), arriva al punto di dire che, anziché irritarci, dovremmo essere grati a quanti ci attaccano:

«Se vuole ottenere misericordia, [chi viene accusato] faccia penitenza, si purifichi, cerchi di migliorare, e vedrà che a quel fratello [che lo accusa] invece di un oltraggio doveva piuttosto rivolgere un ringraziamento, essendo stato messo da lui in un’occasione di progresso spirituale» (PG 88, 1699).

Ecco il segreto dell’indefettibilità della Chiesa: ciò che, secondo i suoi nemici, dovrebbe servire per affondarla, si trasforma inspiegabilmente in uno strumento di purificazione e di salvezza. Abluitur undis, non quatitur.

lunedì 6 dicembre 2010

Una Chiesa irrilevante?

Il Signor Benedetto Serra mi chiede un parere sull’articolo di Giuseppe de Rita pubblicato ieri sul Corriere della sera:


«Oggi sul Corriere c’è un commento di Giuseppe De Rita, intitolato “Perché deve riprendere il dialogo tra la Chiesa, la società e la politica”. Il sottotitolo è “Cultura cattolica, il rischio del declino”. L’attacco del pezzo è il seguente: 

“Nulla disturba la psiche di noi mortali quanto la sensazione di essere irrilevanti. E si può presumere che il disturbo sia ancora piú spiacevole per le istituzioni collettive e per chi le abita e le governa. Mi incuriosisce in questa fase, e in parte mi coinvolge, la realtà attuale della Chiesa cattolica che, malgrado la sua persistenza millenaria, è da piú parti indicata come grande icona dell’irrilevanza rispetto alla convulsa attualità delle dinamiche culturali e dei dibattiti politici.”

Secondo me, il tono dell’articolo è un po’ ambiguo. È vero che la società attuale e la sua cultura emargina la Chiesa (le Chiese), ma la frustrazione di De Rita sulla “irrilevanza” della Chiesa mi lascia un po’ perplesso.

Nostro Signore non è stato “un Ebreo marginale”? E che rilevanza ha avuto mai Gesú Cristo per l’Impero Romano? E, mi chiedo ancora, se la Chiesa proclama “valori non negoziabili”, come potrebbe cercare un dialogo su questo con la società moderna? Certo, c’è il rischio di essere (o di sembrare) “autoreferenziali”, ma Nostro Signore non è “autoreferenziale” per eccellenza? Se la Chiesa non conta niente per i giornaloni laici e per le società secolarizzate del Nord Europa (e non solo), bisogna forse cercare a tutti i costi un dialogo che non trova né interesse né interlocutori?

Del resto, dei quattro “campi” di dialogo che De Rita indica, tutti e quattro vengono definiti dallo stesso De Rita “delicati” e, soprattutto, “ambigui”. Il rapporto fra dimensione ecclesiale e potere sociopolitico, il rapporto con la modernità e la post-modernità, il nuovo “statuto” antropologico dell’uomo e, infine, il “ruolo” della Chiesa nel mondo.

Mi chiedo, ma ha davvero tutta questa importanza il dialogo con il “mondo” in questo quattro campi? È vero che la Chiesa non conta niente, ma agli inizi dell’800, ai tempi del Santo Curato d’Ars, era forse diverso? E che cosa contava la Chiesa per Stalin? E cosa contavano il fondatore del Suo Ordine, o Madre Teresa di Calcutta? E che rilevanza ha Benedetto XVI? (…)

Va bene il dialogo, è importantissimo, ma se il “mondo” non lo vuole, deve la Chiesa preoccuparsi piú di tanto di inseguire la cultura moderna? Conclude De Rita: “E siccome i pericoli maggiori li corre oggi la cultura cattolica, è forse opportuno che i primi passi del confronto vengano proprio da quella parte”. Lei che ne pensa?».


Bisogna dire che l’articolo di De Rita è interessante (anche se non è sempre facile seguire il filo del ragionamento). Sull’analisi della situazione della Chiesa non si può non concordare:

«Troppi documenti ad alta genericità, troppi appelli di puro volontarismo, troppi sconfinamenti su argomenti su cui non si ha molto da dire, troppe rivendicazioni valoriali e di principio, troppi eventi che non riescono a farsi notare fuori dei propri recinti».

Quello che non mi convince affatto è questa eccessiva preoccupazione della irrilevanza della Chiesa. Se poi andiamo a vedere bene, di che irrilevanza si tratta? Dell’irrilevanza della Chiesa nel mondo della comunicazione e in quello della politica o, se volete, presso quell’inafferrabile realtà che oggi siamo abituati a chiamare (senza sapere che cosa precisamente sia) “opinione pubblica”. Beh, se proprio devo essere sincero, la cosa non è che mi angusti piú di tanto. 

Bisogna dare atto a De Rita di rappresentare fedelmente il battibecco attualmente in corso fra gli uomini di Chiesa e i media: «Le cose che diciamo non sono adeguatamente valorizzate» — «Non ci dicono niente di significativo». Anche a me dà noia quando al telegiornale, dopo aver dedicato decine di minuti a Berlusconi e Fini o al delitto di Avetrana, riservano solo un paio di minuti a qualche evento ecclesiale pure di una certa importanza. Anche a me dà noia quando la TV ignora 100.000 ragazzi dell’Azione cattolica in Piazza San Pietro, ma dà spazio a qualche decina di esponenti delle “vittime” degli abusi riuniti di fronte a Castel Sant’Angelo. Ma mi chiedo anche che bisogno ci sia che Padre Lombardi vada a “esprimere solidarietà”… Certe volte sembra quasi che ce l’andiamo a cercare (come quando la sera stessa del Concistoro, l’Osservatore Romano fa le anticipazioni sul libro-intervista del Papa: possiamo poi lamentarci che i media non hanno dato spazio al Concistoro?). 

Dunque, irrita anche me l’atteggiamento dei media verso la Chiesa (e ammiro chi, come l’Arcivescovo di New York gliele canta chiare, senza complessi d’inferiorità). Ma non è che questo provochi in me alcun senso di frustrazione. Semmai, mi convinco sempre di piú che chi è maggiormente in crisi in questo momento non è, come crede De Rita, la “cultura cattolica”, quanto piuttosto proprio quella “modernità” con cui la Chiesa dovrebbe riallacciare il dialogo. Se c’è qualcuno che in questo momento sta agonizzando, questo è proprio la modernità.

Personalmente sono d’accordo che la Chiesa debba dialogare con la modernità, ma non certo per poter essere piú “rilevante” (leggi: per poter apparire di piú sui mass media); bensí per salvare qualcosa della modernità irrimediabilmente destinata a morire. Certamente in essa sono presenti valori degni di essere preservati. Esattamente ciò che la Chiesa fece al crollo dell’antichità classica: furono i cristiani a salvare ciò che di meglio quella civiltà aveva saputo esprimere (filosofia, letteratura, arte, diritto, ecc.). 

Per il resto, sono perfettamente d’accordo col Signor Serra. A parte forse l’epoca di Innocenzo III, la Chiesa è stata sempre irrilevante. Eppure, c’è ancora. Dove sono finite tutte quelle civiltà, culture, ideologie, regimi politici, che di volta in volta si presentavano come il nuovo che avrebbe presto rimpiazzato l’antico? Dov’è oggi l’impero romano, dove sono i vari regimi rivoluzionari, dove sono Napoleone, Hitler e Stalin? Siamo proprio convinti che i potenti di oggi siano migliori di quanti li hanno preceduti?

Si dirà: ma il problema è che oggi è la Chiesa stessa a essere in crisi. Ingenui… La Chiesa in passato non era forse in crisi? era forse tutta d’un pezzo? Basta studiare un po’ di storia per accorgersi che la Chiesa in passato ha attraversato crisi, non solo esterne, ma anche interne, molto peggiori di quella attuale. Il problema è che non si tiene conto della natura vera della Chiesa: essa non è una istituzione semplicemente umana, ma divina. Umanamente parlando, essa farà pure acqua da tutte le parti; ma non è questo che ne determina il destino. Ciò che la rende imperitura è la presenza in essa di Cristo risorto, il quale «sacrificato sulla croce piú non muore, e con i segni della passione vive immortale» (prefazio pasquale III).

giovedì 2 dicembre 2010

La crisi (ecclesiale) irlandese

Giorni fa l’Arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin ha presieduto la celebrazione del 30° anniversario della morte del Servo di Dio Frank Duff, fondatore della Legione di Maria. Durante la Santa Messa ha tenuto un’omelia che costituisce un’approfondita riflessione sullo stato della Chiesa irlandese. Potete trovare il testo completo dell’intervento sul sito dell’Arcidiocesi di Dublino; ZENIT ne ha riportato ampi stralci in italiano.

Mi sembra importante soffermarsi sulle considerazioni di Mons. Martin, perché dànno un quadro completo della situazione della Chiesa in Irlanda. Negli ultimi anni l’attenzione dei media si è concentrata sullo scandalo degli abusi, una realtà che non può in alcun modo essere negata o anche semplicemente ignorata. Ma sarebbe sbagliato fermare l’attenzione esclusivamente su quel problema: gli abusi sono solo la punta di un iceberg; la crisi, secondo il Primate irlandese, è molto piú profonda.

Permettete, a questo proposito, che porti la mia piccola esperienza. Io avevo sempre nutrito una grande ammirazione per la Chiesa irlandese. Quando ero studente di teologia (negli anni Settanta) — dico la verità — guardavo con una certa invidia ai miei compagni irlandesi, perché erano ancora numerosi, al contrario di quanto avveniva in Italia, dove era già arrivata la crisi delle vocazioni. Successivamente, senza aver mai avuto la possibilità di contatti diretti con l’isola di San Patrizio, continuai a nutrire la convinzione che la Chiesa irlandese godesse di un ottimo stato di salute. Una decina di anni fa ebbi l’occasione di recarmi negli Stati Uniti; una cosa che mi colpí molto fu la cura riservata in America alle liturgie, soprattutto dal punto di vista musicale (fu allora che scoprii la bellezza degli antichi inni inglesi). Feci questa riflessione: visto che la maggior parte dei cattolici americani sono o di origine italiana o di origine irlandese, siccome non possono aver ereditato questa attenzione per la liturgia dall’Italia, certamente essa farà parte del retaggio irlandese. Pensavo: chissà che belle liturgie ci saranno in Irlanda! Non vedevo l’ora di poter verificare di persona. Nel 2003 ebbi la fortuna di trascorrere due mesi nella verde isola per motivi di studio. Quale fu la mia delusione! Non solo non trovai i begl’inni che mi attendevo, ma trovai le chiese semideserte, con poca o punta partecipazione dei fedeli alle celebrazioni; trovai una Chiesa pressoché agonizzante: i seminari vuoti; una secolarizzazione galoppante; la gente interessata esclusivamente al benessere economico (erano gli anni del boom della “tigre celtica”). Quel che mi impressionò maggiormente era che, a differenza dell’Italia, dove bene o male si era fatto un certo cammino di rinnovamento (pur con risultati contraddittori), lí sembrava quasi che non ci fosse stato neppure il minimo tentativo di rinnovamento. In campo liturgico, ritrovavo tutti gli aspetti piú deteriori della Chiesa preconciliare (individualismo, passività, trasandatezza, ecc.). Sembrava quasi che del rinnovamento conciliare si fossero adottati solo gli aspetti piú esteriori e discutibili, come il rilassamento dello stile di vita, l’abbandono dell’abito ecclesiastico da parte di sacerdoti e religiosi, ecc.

Chiesi: ma che è successo? Mi spiegarono che dieci anni prima (quindi durante gli anni Novanta) era cambiato tutto. Il segno piú appariscente di questa crisi fu lo svuotamento, da un giorno all’altro, dei seminari. Mi trovavo a Maynooth, una graziosa cittadina a pochi chilometri da Dublino, dove si trova un enorme seminario, il St. Patrick’s College, che un tempo conteneva centinaia di seminaristi: si era ridotto a essere praticamente l’unico seminario di tutto il paese, con qualche decina di seminaristi (tant’è vero che i locali erano stati utilizzati per un’università cattolica aperta a tutti). Nella stessa città tutti gli istituti religiosi avevano costruito le loro case di formazione (dei bellissimi edifici con tutte le comodità): completamente vuote o destinate a nuovi usi (lo studentato dei Verbiti, dove ero ospite, era stato trasformato in una scuola di inglese per stranieri).

Durante la mia permanenza, osservai molto attentamente la situazione e cercai di trovare una spiegazione a quanto accaduto. Giunsi a questa conclusione, che ora trovo confermata nell’omelia di Mons. Martin («a certain sense of arrogance and power seeking»): mi resi conto che il vero problema della Chiesa irlandese era che fino ad allora essa era stata una Chiesa estremamente potente. Forse proprio per questo non si era preoccupata di almeno tentare una qualche sorta di rinnovamento: perché farlo? che bisogno ce n’era? Nel momento in cui la società irlandese iniziò a cambiare, ovviamente il controllo che vi esercitata la Chiesa entrò in crisi. E, da un momento all’altro, crollò tutto. Allora non si parlava ancora di abusi (o perlomeno io non ne fui in alcun modo informato); ma quando lo scandalo venne a galla, la cosa non mi meravigliò piú di tanto, perché in quel contesto poteva essere facilmente compreso.

Nella sua omelia l’Arcivescovo di Dublino non si limita all’analisi della situazione, ma guarda anche al futuro, alla ricerca di possibili soluzioni. Innanzi tutto, Mons. Martin riconosce la necessità di rinnovamento: «Il rinnovamento è una dimensione essenziale della vita della Chiesa in ogni momento della storia». Ma aggiunge anche che «la Chiesa non sarà mai riformata dall’esterno … Il rinnovamento e la riforma della Chiesa verranno solo dall’interno della Chiesa … Il rinnovamento della Chiesa non consiste in strategie mediatiche o riforme strutturali». E siccome la crisi della Chiesa «non riguarda il ruolo della Chiesa nella società; non riguarda i numeri; ma riguarda la vera natura della fede in Gesú Cristo; riguarda la nostra comprensione del messaggio di Gesú Cristo; riguarda la fede nel Dio rivelato in Gesú Cristo; riguarda la questione fondamentale: chi è Gesú Cristo?», il rinnovamento della Chiesa consisterà nella «volontà di conoscere Gesú e di entrare in una vera amicizia con lui», consisterà nel «conoscere il Padre attraverso l’incontro con Gesú».

Penso proprio che il Primate d’Irlanda abbia colto perfettamente la portata della crisi (una crisi di fede, prima che una crisi morale) e abbia individuato con estrema lucidità la via d’uscita dalla crisi: la conoscenza del Padre che si realizza nell’incontro con Cristo (non si tratta di belle parole, ma della questione essenziale). Credo che, in un momento cosí delicato per gli irlandesi (sia sul piano economico-civile, sia sul piano morale-ecclesiale), si debba essere pienamente solidali con questi nostri fratelli. Le premesse per uscire dalla crisi ci sono tutte; dobbiamo però accompagnarli con la nostra preghiera e la nostra simpatia.

Ma credo pure che la vicenda irlandese dovrebbe insegnare qualcosa a tutti noi: ci insegna che la Chiesa deve essere in uno stato di continuo rinnovamento. Non si può dormire sugli allori, pensando che tutto va bene, che non c’è bisogno di cambiare nulla. Non si può essere soddisfatti delle posizioni raggiunte; non si può confidare sul potere; non ci si può mostrare arroganti. Si deve piuttosto avere sempre la consapevolezza della nostra debolezza e riconoscere umilmente i nostri peccati. Occorre vivere in uno stato di perenne conversione e auto-riforma. Soprattutto, bisogna ricentrare lo sguardo su Cristo, senza il quale non avrebbe nessun senso continuare a dirsi cristiani.

venerdì 26 novembre 2010

“Ognuno è libero di contraddirmi”

Qualcuno dei miei lettori si sarà chiesto come mai finora non ho fatto alcun commento alla pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI Luce del mondo, che tanto scalpore ha suscitato sui media. Beh, devo confessare che il mio silenzio, solitamente, non è casuale: quando taccio, è perché voglio tacere; è perché preferisco non prendere posizione su determinati argomenti. Anche in questo caso sono stato molto indeciso a intervenire, soprattutto perché c’è di mezzo il Papa. E io, del Papa, ho una concezione piuttosto sacrale: il Papa non può essere criticato; se proprio non si è d’accordo con lui (cosa sempre possibile), si tace.

Che cos’è che in questo caso mi induce a derogare alle mie convinzioni? Il fatto che, nel caso presente, Benedetto XVI, come è stato autorevolmente sottolineato, non ha voluto compiere un atto magisteriale. Nella premessa a Gesú di Nazaret, lui stesso aveva affermato: «Ognuno è libero di contraddirmi». Penso che la stessa libertà valga, a maggior ragione, in questa occasione.

Qualcuno penserà che io voglia contestare al Papa la sua “apertura” sull’uso del profilattico. No, non voglio entrare nel merito delle questioni affrontate nell’intervista. Voglio solo soffermarmi su una questione previa, diciamo cosí “procedurale”. Sarò un po’ all’antica; ma è proprio necessario che il Papa scriva libri e rilasci interviste? Personalmente lo trovo non solo non necessario, ma anche inopportuno. Perché? Perché, scrivendo un libro, il Papa non agisce piú come Papa, ma come semplice teologo (un tempo si sarebbe detto “dottore privato”). Si dirà: che male c’è? Non c’è nessun male; ma nella Chiesa, secondo me, ciascuno deve fare il proprio mestiere: il Papa, il Papa; il teologo, il teologo. Quando poi il Papa rilascia un’intervista, riferisce le sue personali opinioni, certamente autorevoli, ma pur sempre opinioni. E, se devo essere sincero, a me interessa relativamente che cosa pensa il Papa; a me interessa che cosa egli insegna.

Ho l’impressione che con gli ultimi due pontificati si sia persa, almeno in parte, la consapevolezza della peculiarità del ministero petrino: diventando Papa, un uomo in qualche modo cessa di essere ciò che era; il suo nuovo incarico in un certo senso si impossessa della sua persona. Si potrebbe dire che l’eletto diventa “un altro”. Non credo sia un caso che il Papa, all’elezione, cambi nome (questo non avviene per gli altri Vescovi). Non credo fosse un caso che, una volta, il Papa nel parlare non usasse la prima persona singolare (“io”), ma il pluralis maiestatis (“noi”). È ovvio che il Papa continuerà ad avere le sue personali convinzioni; ma queste non interessano piú, devono essere messe da parte. I fedeli non si aspettano da lui di essere aggiornati sulle sue opinioni, ma di essere confermati nella fede. E nel caso di un teologo, come l’attuale Pontefice? Secondo me, dovrebbe sacrificare la sua scienza, per consacrarsi esclusivamente al proprio servizio ecclesiale. Penso che l’ultimo Papa che ha avuto piena coscienza del ruolo che gli era stato affidato fu Paolo VI: aveva certamente le sue idee; un orientamento di grande apertura intellettuale lo aveva sempre contraddistinto; ma, una volta divenuto Papa, fu capace di mettere tutto fra parentesi e di concentrarsi esclusivamente nella difesa del dogma.

Oltre tutto, l’esperienza che stiamo facendo dovrebbe insegnare che si tratta di operazioni estremamente rischiose, che alla fine potrebbero rivelarsi controproducenti. È vero che Benedetto XVI, alla domanda di Padre Lombardi se si rendesse conto di tale rischio, pare abbia risposto con un sorriso. Personalmente però ho l’impressione che, nel suo candore, non sempre si renda perfettamente conto di quanto i figli di questo mondo siano piú scaltri dei figli della luce (Lc 16:8). Proprio nell’intervista, a un certo punto, riferendosi al discorso di Ratisbona, afferma:

«Avevo concepito quel discorso come una lezione strettamente accademica, senza rendermi conto che il discorso di un Papa non viene considerato dal punto di vista accademico, ma da quello politico. Da una prospettiva politica non si considerò il discorso prestando attenzione ai particolari; fu invece estrapolato un passo e dato ad esso un significato politico, che in realtà non aveva».

Questa volta è accaduto lo stesso. Di che cosa hanno parlato i media in questi giorni? Fra le molteplici questioni trattate nel libro, si sono concentrati esclusivamente sul profilattico (esattamente ciò che lui stigmatizza nell’intervista), e anche qui, senza prestare attenzione ai particolari, hanno dato alle sue parole un significato “politico”, che in realtà non avevano. Non che non si possa affrontare la questione, estremamente seria, dell’uso del condom; ma lasciamolo fare ai teologi moralisti. Se lo fa il Papa, inevitabilmente il discorso diventa “politico”.

L’unica differenza fra le due situazioni è che, nel caso di Ratisbona, le sue parole gli attirarono solo critiche; ora, a quanto pare, solo consensi. Ma anche questo dovrebbe suonare come un campanello di allarme. Parole di Benedetto XVI nell’intervista:

«Se avessi continuato a ricevere soltanto consensi, avrei dovuto chiedermi se stessi veramente annunciando tutto il vangelo».

Il Papa non me ne voglia; ma, se ci siamo presi la libertà di sollevare qualche perplessità, è perché gli vogliamo bene.

mercoledì 24 novembre 2010

Sinodo o Concistoro?

La “giornata di preghiera e di riflessione”, svoltasi venerdí scorso in preparazione al Concistoro di sabato, ha stimolato in me alcune considerazioni su come si potrebbe attuare il principio di “sinodalità” nella Chiesa latina. Sappiamo che tale principio è al centro delle discussioni fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse: in queste ultime (come del resto nelle Chiese orientali cattoliche), accanto alla figura del Patriarca, esiste sempre un “Sinodo patriarcale”. A tale assemblea spettano fondamentalmente il potere legislativo e quello giudiziario, oltre che l’elezione del Patriarca (cf CCEO, can. 110).

In Occidente, come sappiamo, si è sviluppato soprattutto il principio del primato (esercitato dal Romano Pontefice) ed è rimasto nell’ombra, pur senza mai scomparire, quello della sinodalità. (Preferisco parlare di “sinodalità”, piuttosto che di “collegialità”, perché quest’ultima è sempre rimasta viva nella Chiesa cattolica, sia nella forma conciliare — cosa che invece non è piú avvenuta nelle Chiese ortodosse — sia in particolare circostanze, come la definizione dei dogmi di fede).

Con il Concilio si è cercato in qualche modo di ripristinare il principio della sinodalità nella Chiesa cattolica. Fu per questo che Paolo VI nel 1965 istituí il “Sinodo dei Vescovi”, che è poi entrato a far parte in maniera definitiva dell’organizzazione della Chiesa con il Codice di diritto canonico del 1983. 

A quasi 50 anni dalla sua istituzione, dopo dodici assemblee generali ordinarie, due assemblee generali straordinarie e una decina di assemblee speciali, penso che sia giunto il momento di procedere a una valutazione. Personalmente ho l’impressione che si sia dato vita a una sorta di “pachiderma” che si muove a stento e che non produce i risultati sperati. A intervalli piú o meno regolari (tre o quattro anni, senza contare le assemblee speciali) si mette in moto una procedura piuttosto macchinosa: si inizia con i lineamenta, che vengono sottoposti all’esame delle Chiese locali; con le osservazioni da queste inviate si elabora il cosiddetto instrumentum laboris; su questo si svolge l’assemblea vera e propria, che consiste in una serie di relazioni (solo recentemente è stata introdotta la possibilità di dibattito), che poi devono confluire in un elenco di propositiones da presentare al Papa, il quale, dopo un notevole lasso di tempo, emana una “esortazione apostolica post-sinodale”. E, diciamo la verità, tali esortazioni apostoliche lasciano un po’ il tempo che trovano, e vengono presto dimenticate.

Forse non è stata una grande idea l’istituzione di un Sinodo di questo tipo. Probabilmente ci vorrebbe qualcosa di piú stabile (una sorta di “sinodo permanente”, che non richieda ogni volta l’elezione dei membri da parte delle Conferenze episcopali) e, allo stesso tempo, piú agile (che non abbia bisogno di oltre un anno di preparazione; che possa svolgersi in tempi ragionevoli; che non debba attendere due anni per vedere pubblicate le proprie conclusioni).

Mi frullava per la mente: si potrebbe pensare a una sorta di “Sinodo dei Metropoliti”, cioè di tutti gli Arcivescovi a capo delle diverse province ecclesiastiche; ma, in tal caso, il numero dei partecipanti supererebbe i cinquecento: altro che “pachiderma”! Ciò che è avvenuto la settimana scorsa mi ha fatto allora pensare: che bisogno c’è di inventare nuove forme di sinodalità quando esiste già un organismo che, se fatto funzionare a dovere, risponderebbe perfettamente alle esigenze di comunione e di partecipazione, sempre esistite nella Chiesa e particolarmente sentite ai nostri giorni? 

Attualmente sembrerebbe che il Sacro Collegio abbia come sua unica competenza l’elezione del Papa, ma il diritto canonico a tale compito ne aggiunge un altro: «I Cardinali assistono il Romano Pontefice … agendo collegialmente quando sono convocati insieme per trattare le questioni di maggiore importanza» (can. 349). Oltretutto, essendo ora presenti nel Collegio cardinalizio Vescovi provenienti da ogni parte della Chiesa, esso risponde adeguatamente alle esigenze di rappresentatività dell’Episcopato mondiale.

Non c'è quindi bisogno di modificare l’attuale legislazione; il “sinodo” della Chiesa latina esiste già: il Collegio cardinalizio riunito in Concistoro. Basterebbe dargli nuovo impulso ed eventualmente nuove prerogative. Si potrebbe pensare di riunirlo a scadenze regolari (per esempio ogni anno) e sottoporre ad esso tutte le questioni di una certa rilevanza. L’attuale Sinodo dei Vescovi potrebbe invece essere convocato, senza regolarità fissa, per affrontare questioni particolari, soprattutto a carattere locale (come è avvenuto recentemente con il Sinodo per il Medio Oriente).

sabato 20 novembre 2010

Mater divinae Providentiae



Oggi i Barnabiti celebrano la festa della B. V. M. “Madre della divina Provvidenza”. Tale devozione ebbe inizio a Roma, nella chiesa di San Carlo ai Catinari, nel Settecento. Di lí essa si è diffusa nel mondo, in tutti i luoghi dove sono presenti i Barnabiti, che hanno dedicato a lei altari, cappelle, chiese, case religiose e istituti scolastici. Nella camera di ogni Barnabita, in ogni chiesa da loro officiata e in ogni aula delle loro scuole è presente la sua immagine. Non pochi istituti religiosi l’hanno scelta come loro celeste patrona. Dinanzi a lei, nel suo santuario romano, si sono inginocchiati i pontefici, da Pio VII a Giovanni Paolo II.

Stamattina, dovendo preparare l’omelia della Messa per gli alunni della scuola media, e volendo spiegare loro che cosa fosse la Provvidenza divina ho preso il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica. Vi ho trovato una spiegazione ineccepibile:

«[La Provvidenza] consiste nelle disposizioni, con cui Dio conduce le sue creature verso la perfezione ultima, alla quale Egli le ha chiamate. Dio è l’autore sovrano del suo disegno. Ma per la sua realizzazione si serve anche della cooperazione delle sue creature. Allo stesso modo, dona alle creature la dignità di agire esse stesse, di essere causa le une delle altre» (n. 55).

Non c’è che dire. Ma, mi son chiesto, che cosa capiranno i miei ragazzi? Dopo un attimo di incertezza, ho chiuso il Compendio e ho ripreso il vecchio Catechismo della dottrina cristiana di San Pio X, il quale, fra le “prime nozioni della fede cristiana”, affermava:

«Dio ha cura e provvidenza delle cose create, e le conserva e dirige tutte al proprio fine, con sapienza, bontà e giustizia infinita» (n. 12).

E cosí mi son deciso a spiegare la Provvidenza alla vecchia maniera, perché mi sembrava piú semplice. 

venerdì 19 novembre 2010

Legge sulla blasfemia!?

Non voglio entrare nel merito della discussa “legge sulla blasfemia”, in base alla quale è stata condannata a morte in Pakistan Asia Bibi (speriamo che la mobilitazione internazionale in atto riesca a fermare l’esecuzione della condanna). Mi voglio solo soffermare brevemente sull’espressione che viene usata: “blasfemia”. Con l’uso di tale espressione, inesistente in italiano, dimostriamo quanto siamo diventati “anglodipendenti” e, allo stesso tempo, la nostra ignoranza della lingua inglese.

Appare evidente che “legge sulla blasfemia” non sia altro che un maldestro tentativo di traduzione dell’espressione inglese “blasphemy law”. Capisco che, in certi casi, occorre tradurre frettolosamente fonti di agenzia; ma basterebbe la consultazione di un qualsiasi dizionario (anche tascabile) per sapere che blasphemy in inglese significa semplicemente “bestemmia”. 

Ma quel che è peggio è il modo in cui si pronuncia la parola “blasfemia”. Udito con i miei orecchi in TV: blasfemía! Si dirà: ma questa è la pronuncia greca del termine. Già, ma si dà il caso che l’italiano non derivi dal greco, bensí dal latino (e anche i termini di origine greca gli arrivano attraverso il latino). E in latino blasphemĭa si legge per l’appunto blasfèmia.

Si sente proprio il bisogno di introdurre un neologismo? Benissimo; visto che esso esiste già da secoli in latino, possiamo tranquillamente adottarlo. Ma, per lo meno, pronunciamolo alla latina!

giovedì 18 novembre 2010

Il crittogramma di Subirachs

In occasione della dedicazione della basilica della Sagrada Familia a Barcellona, cercando su internet informazioni sull’opera di Gaudí, mi sono imbattuto in un misterioso “crittogramma” posto sulla facciata della passione. 


Si tratta del quadrato magico di Josep Maria Subirachs Sitjar, che è a sua volta la modifica del quadrato magico di Albrecht Dürer (sui quadrati magici si può vedere utilmente la scheda di Wikipedia). Mentre nel quadrato di Dürer sono presenti tutti i numeri da 1 a 16 e la somma dei numeri di ciascuna riga, colonna e diagonale è 34, nel crittogramma di Subirachs non sono presenti i numeri 12 e 16 (mentre i numeri 10 e 14 sono ripetuti due volte) e il risultato della somma dei numeri di ciascuna riga, colonna e diagonale è 33, gli anni della vita di Gesú.


Ho trovato scritto da qualche parte che ci sono 310 combinazioni che dànno come risultato 33. Non lo escludo, se per combinazione si intende qualsiasi tipo di successione di quattro dei quattordici numeri presenti nel quadrato. Ma, cercando solo combinazioni che rispettino un qualche ordine, io, insieme con i miei alunni, ne ho trovate soltanto 32. Possibile che non se ne riesca a trovare almeno un’altra, la trentatreesima?