giovedì 23 settembre 2010

Ancora sul motu proprio

Pensavo che il mio ultimo post fosse un post molto tranquillo, che avrebbe incontrato il consenso di tutti, dal momento che cercava di dare un po’ di ragione a tutti. E invece, a quanto pare, si trovano le differenze anche nelle sfumature, che, pur non toccando la sostanza, sono inevitabilmente presenti in qualsiasi discorso. Caterina mi fa notare:

«Mi riferisco al suo post, nel quale mons. Burke ne esce, mi creda, bastonato... forse e di certo non era nelle sue intenzioni, ma nello spiegare le tre ragioni che accomunano i tre interventi (Jesus, Augé e Burke), di fatto chi viene penalizzato è proprio mons. Burke... La sua ricostruzione, citando la Lettera e il MP Summorum Pontificum per giustificare le affermazioni di Jesus e Augé, sono correttissime, ma non altrettanto lei ha fatto per giustificare l’intervento di mons. Burke del quale si è premurato di sottolineare che “non è una voce ufficiale”, mentre non ha fatto lo stesso distinguo nel citare gli interventi di Jesus e Augé...».

Sono andato a rileggermi il post, e devo convenire che, effettivamente, si può avere questa impressione: mentre nei primi due casi si dà piena ragione agli autori, nel caso dell’intervento di Mons. Burke si fa la precisazione che non si tratta di una “interpretazione autentica” del motu proprio. Perché mi sono sentito in dovere di fare tale precisazione? Semplicemente perché c’era stato qualcuno che aveva interpretato l’intervento del Prefetto della Segnatura Apostolica proprio in questo senso; e non mi sembrava corretto. Poi però ho cercato di dare la mia interpretazione (naturalmente discutibile come tutte le interpretazioni non-autentiche): il Summorum Pontificum ha un valore universale nel senso che vuole inculcare il principio della continuità tra l’antica e la nuova Messa. Non mi sembra corretto invece vedere nel motu proprio un invito del Papa a celebrare ogni domenica in ogni parrocchia una Messa in forma straordinaria, come sostenuto da alcuni alti prelati della Curia Romana. Mi pare che si tratti di un’estensione indebita della mens del motu proprio. Se questa fosse realmente la volontà del Santo Padre, egli non avrebbe certo alcun imbarazzo a manifestarla espressamente. Da parte sua, il Signor Stefano Fiorito aggiunge:

«Mi consenta di dissentire sulla conclusione a cui giunge, riguardo al motivo della promulgazione del MP Summorum Pontificum. Ciò che lei fa notare nella sua disamina è sicuramente vero. Riguardo alla valenza del MP, il quale è un atto pontificio che è volto ANCHE alla soddisfazione delle richieste di alcuni gruppi tradizionalisti, alla risoluzione del “contenzioso” con la FSSPX. Cosí come la “mens” del Papa è sicuramente, come da Lui stesso specificato, quella di rendere evidente l’ermeneutica della continuità. Il mio dissenso riguarda il suo affermare la sostanziale “particolarità” del provvedimento, il quale non dovrebbe riguardare tutti, e soprattutto il fatto che sembra lei constati la “continuità” tra i due messali come già presente. Sa benissimo che cosí non è. Poiché se fosse stata presente ed evidente, non si sarebbe reso necessario il MP, e soprattutto tutto ciò che ad esso fa capo».

Credo che risulti chiaro, da quanto detto, che il motu proprio ha un valore particolare in quanto rivolto ad alcuni gruppi, dallo stesso Pontefice ben definiti; ha invece un valore universale nell’intento di inculcare il principio della continuità fra le due forme della Messa.

Posso trovarmi abbastanza d’accordo sul fatto che, forse, tale continuità è piú un auspicio che una realtà, almeno a stare a quel che vediamo nelle chiese. Va riconosciuto con molta serenità che certe celebrazioni sembrano fare di tutto per sottolineare la discontinuità con l’antico rito. Ma lo stesso discorso potrebbe farsi — e di fatto i lefebvriani lo fanno — piú in generale, a proposito dell’ermeneutica della continuità applicata al Concilio o alla Chiesa pre- e post-conciliare. Per quanto il Santo Padre continui a ripetere che il Concilio non ha dato vita a una nuova Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare e quella post-conciliare sono la medesima Chiesa, non si può negare che ci siano alcune differenze, talvolta anche piuttosto marcate. 

Va detto che la continuità non si pone tanto nelle forme esteriori (che possono variare), quanto nella sostanza delle cose. Inoltre non dobbiamo tanto giudicare sulla base di ciò che fa Tizio, Caio o Sempronio (c’è sempre stato e ci sarà sempre chi fa di testa sua), ma in base alle decisioni ufficiali della Chiesa (anche queste ovviamente possono essere talvolta discutibili e perfettibili, ma ciò non giustifica il loro rifiuto). Infine, dobbiamo convincerci che molto dipende, piú che dalle riforme promosse dalla Chiesa, dal modo in cui esse vengono attuate da ciascuno di noi.

Ciò che ho detto in generale per la Chiesa vale anche in campo liturgico. La continuità fra la vecchia e la nuova liturgia non va giudicata sulla base di ciò che vediamo nelle nostre chiese, ma in base ai due messali. A questo proposito, il Signor Benedetto Serra mi chiede:

«A proposito del suo ultimo post, volevo chiederle che differenza c’è, in realtà, fra una Messa di Paolo VI in latino, con tutti gli accorgimenti consentiti (o non proibiti) per renderla piú vicina possibile a quella di S. Pio V (ad Orientem, comunione in ginocchio, etc.), e una messa di S. Pio V? Mi sembra di capire, dopo aver riflettuto sulle discussioni che ci sono state sul blog di P. Augé, che in realtà queste differenze non sono poi cosí grandi. La tesi del P. Augé è che in realtà la Messa di Paolo VI è piú ricca, contiene molti piú “tesori” della liturgia di quella antica, ne conserva tutti i testi e anzi li arricchisce e li amplia. Dà inoltre molta piú libertà di celebrare (nelle diverse lingue, leggendo ad alta voce i testi in modo che tutti sentano, etc.).  In poche parole, se uno vuole, può, mantenendo un’unica forma  del rito latino […], conservare praticamente tutto della Messa di S. Pio V».

Alla domanda del Signor Serra vorrei rispondere con una frase ripresa da una preziosissima lettera del Card. Ratzinger pubblicata da Padre Augé proprio in questi giorni:

«La differenza tra il Messale di 1962 e la Messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI» (18 febbraio 1999). 

In effetti, a ben vedere, da un punto di vista rituale, le differenze sono minime: una semplificazione generale del rito (in particolare i riti di introduzione e quelli di offertorio); un arricchimento notevole delle letture e di altri testi (orazioni e prefazi); una molteplicità di preghiere eucaristiche. Sostanzialmente, mi trovo d’accordo sulla maggiore ricchezza della nuova liturgia: il Messale di Paolo VI non rappresenta una diminuzione, ma un accrescimento rispetto a quello di San Pio V. Se poi il modo in cui il nuovo rito è stato di fatto celebrato ha significato molto spesso un depauperamento, questo è un altro discorso: ciò non può essere addebitato al Messale, ma ai singoli celebranti.

Si dirà: questo è stato possibile perché il nuovo Messale, con le pressoché illimitate possibilità offerte, lo ha permesso. Posso essere d’accordo che forse si è dato troppo spazio alla “creatività”, ma è altrettanto vero che oggi non sarebbe possibile tornare a un fissità assoluta delle rubriche, senza alcuna possibilità di adattamento. Se, invece, si sfruttassero le possibilità di adattamento proprio in senso tradizionale, si potrebbero avere dei risultati che certamente non dispiacerebbero agli amanti della tradizione. Per averne un esempio, si vadano a vedere le foto della Messa di ringraziamento per la beatificazione di J. H. Newman proprio oggi pubblicate da Cantuale Antonianum. Non dico che tutti debbano fare cosí; ma, se uno lo vuol fare, lo può fare: nessuno glielo impedisce. Penso che in questa prospettiva, come dice Papa Ratzinger, la liberalizzazione della forma straordinaria del rito romano possa effettivamente giovare alla corretta celebrazione della sua forma ordinaria. Ma ciò non significa che si debba cancellare la riforma liturgica e tornare tutti all’antica liturgia. Se c’è stata una riforma liturgica, è perché ce n’era bisogno: se è vero che spesso si celebra sciattamente il Novus Ordo, è altrettanto vero che si può celebrare sciattamente anche il Vetus.