lunedì 27 settembre 2010

Vetus et Novus Ordo

Il problema della liturgia continua ad appassionare. Lo dimostra la lettera che il Signor Stefano Fiorito mi ha inviato, dopo il mio secondo post sul motu proprio Summorum Pontificum. Essa non contiene argomenti totalmente nuovi (se ne è già parlato in altre occasioni su questo blog); ma, dato che si tratta di questioni di estrema importanza, forse non è male tornarci sopra, per chiarirci le idee.


«Senza voler sollevare alcuna polemica, e per amore di verità, bisogna ammettere certi problemi per poterli risolvere. Il problema del Novus Ordo, ahinoi, non riguarda solo la discontinuità “esteriore”. Nel NOM vi sono elementi evidenti di discontinuità con il VOM. E, tra l’altro, la discontinuità esteriore, lei giustamente fa notare, non è un criterio “univoco” ma una forma di creatività che potrebbe essere evitata. “Potrebbe”, “dovrebbe”. Padre, vede quanti condizionali? Questa discontinuità, questa creatività, se c’è, è un arbitrio o è una legittima “opzione” consentita? Perché sa bene che la cosa cambia molto nell’uno e nell’altro caso. Padre, qui non stiamo facendo i “lefebvriani”, ma stiamo seguendo la linea critica di molti Santi Sacerdoti niente affatto scomunicati come Mons. N. Bux, Mons. Pozzo, il Card. Cañizares, lo stesso Mons. Burke, Mons. B. Gherardini, ed altri. Piú o meno “autorevoli”. E parliamo anche dello stesso Card. Ratzinger. Egli stesso ha detto chiaro e tondo che il NOM è “un nuovo edificio”, sebbene costruito con i “pezzi” dell’antico. E questo genera confusione. E se chiede, da Papa, chiaramente, che il VOM “fecondi” il NOM, un problema di discontinuità NEL MESSALE nuovo evidentemente c’è. È chiaro che l’auspicio è che questa discontinuità sparisca, con i mezzi che il Papa sta adottando. Del resto la “riforma della riforma”, che timidamente prende corpo, almeno nella “ars celebrandi” del Pontefice e in piccoli passi compiuti, ha delle ragioni proprio in questa “discontinuità”. Altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno di questi elementi di continuità che, non dimentichiamolo, oggi non sono affatto “permessi” sempre e comunque. Ad esempio l’amministrazione della Santa Comunione adottata dal Papa, che è quella tradizionale, non è affatto “ovvia” e “comune”. L’indulto, dato da Paolo VI per “gestire” solo alcune realtà ribelli, è stato fatto diventare norma universale! Rovesciandolo! Per cui la situazione, Padre, non è cosí “lineare”. Se si dovessero applicare solo le norme esistenti, non ci sarebbe da fare nulla, oggi. E non ci sarebbero problemi da risolvere. Sarebbero già risolti. Poiché la “maggioranza” OPTA per la creatività (permessa), senza per questo andare contro alle norme vigenti (a meno di evidenti pagliacciate come a volte alcuni organi di informazione cattolica, dolorosamente, evidenziano. Ma io mi chiedo, queste pagliacciate hanno una qualche “base” sui cui prendono spunto?)! Per cui, dove sarebbe il problema? Il problema sta proprio nella SCELTA. Perché si deve poter “scegliere” nella Liturgia, che non è dell’uomo, ma di DIO PER L'UOMO? A meno di cose non sostanziali, la Liturgia dovrebbe essere immutabile. O no?

E cose “sostanziali”, nel NOM, sono state toccate. Nel NOM emerge prepotente l’aspetto conviviale e assembleare della Messa, che in realtà è solo una conseguenza di quello sacrificale e preminente che le è proprio. Cosí dice il Catechismo, cosí insegna la Tradizione Apostolica (e Lei Padre), cosí dice Gesú Cristo! La Messa è il Sacrifico incruento della Croce. L’aspetto conviviale, enfatizzato, rischia di oscurare la realtà fondante della Messa! Nel NOM, l’eliminazione di molti Salmi, e di molti gesti sacri, ha “semplificato” un rito che in realtà dovrebbe girare tutto intorno al suo fondamento: la Croce. L’eliminazione del doppio Confiteor, e l’eliminazione della intercessione dei Santi nello stesso, non dà certo una continuità evidente con la tradizione. E non favorisce certo la distinzione non solo formale ma ONTOLOGICA tra sacerdozio comune e ordinato. Come del resto l’abolizione dell’Offertorio non favorisce la natura sacrificale della Messa. Come del resto l’opzionalità del Canone (peraltro modificato), e l’affiancamento di altri canoni decisamente piú generici, in cui si parla anche di “Santa Cena”, e la deformazione della famosa “anafora di Ippolito” che nel NOM è presente solo parzialmente ed è poi largamente interpolata, non favorisce per nulla la continuità e il risalto del fondamento sacrificale della Messa. 

Tutto questo sebbene, per grazia di Dio, non intacchi la piena validità della Messa, ne intacca la chiara continuità con la tradizione e la valenza sacrificale. Che non è piú chiara. Ciò che è chiaro è il valore conviviale e assembleare della Messa. Si è dunque rovesciato ciò che dovrebbe essere. Se da un lato il rito è stato “arricchito”, bisogna vedere in che direzione sia questo “arricchimento”. Se dall’altro è stato semplificato, bisogna vedere in che direzione. Non si può essere contrari all’arricchimento o alla semplificazione (del resto questo è stato fatto sempre!), ma si può essere contrari a COSA si vada ad arricchire ed a COSA si vada a semplificare. Se la semplificazione intacca alla sostanza, i dubbi si possono anche avere. Non crede?

Quindi io penso, con il Papa, che “... Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera piú forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia piú sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni”.

Lei sa bene che la sacralità è fondata sulla Croce. La celebrazione “riverente” da ciò che dal contenuto emerge. Il Papa cerca di spostare l’opzionalità attuale dalla creatività alla “permessa” continuità. E chissà, magari poi fare un passo avanti rendendo la creatività “fuori legge”. Le prescrizioni, infatti, PERMETTONO la celebrazione in continuità, ma non obbligano a questa. Cosí come il contenuto del NOM non identifica NETTAMENTE la continuità».


Il Signor Fiorito tocca diverse questioni. Per esigenze di chiarezza, cercherò di affrontarle in maniera ordinata.

1. Cominciamo dal problema della creatività. Io stesso, nel mio ultimo post, ammettevo che «forse si è dato troppo spazio alla “creatività”»; ma se vogliamo riflettere su questo problema in maniera seria, cerchiamo di non stravolgerne i termini. Innanzi tutto, stiamo attenti all’uso di tale termine, estremamente ambiguo. Per quanto ne so, i libri liturgici non parlano mai di “creatività”, ma solo di “adattamenti” (che è cosa ben diversa). E tali adattamenti spettano, in primo luogo ai Vescovi e alle Conferenze episcopali. Il sacerdote può, sí, adattare alcuni testi (praticamente le sole “monizioni”), ma entro limiti ben precisi, indicati dal n. 31 dell’Institutio generalis, 3ª ed. (a tale proposito, può essere interessante confrontare questo numero con il n. 11 della 2ª ed.). Se poi andiamo a leggere le rubriche, ci accorgeremo che non sono poi cosí numerosi i luoghi in cui si usano le espressioni “pro opportunitate” (p. es., a proposito dello scambio di pace) o “his vel similibus verbis” (appunto nel caso delle monizioni). Anzi, mi sembra che ci siano delle possibilità che non vengono mai sfruttate e che invece, secondo me, contribuirebbero a creare un’atmosfera di sacralità (si leggano con attenzione, per esempio, le rubriche dell’offertorio). Che poi si possano vedere, in alcune chiese, delle “pagliacciate”, siamo d’accordo; ma, per favore, non chiamiamole “creatività”: si tratta di puri e semplici abusi. Mentre non si può pensare di escludere qualsiasi tipo di adattamento: il Rito romano non è come il Rito ambrosiano, limitato a una sola diocesi; esso è diffuso in tutto il mondo, fra popoli e culture profondamente diversi; è inevitabile che si permettano alcuni adattamenti.

2. Passiamo ora alla continuità. Dicevo la volta scorsa che «la continuità non si pone tanto nelle forme esteriori (che possono variare), quanto nella sostanza delle cose». Tale affermazione si fonda su un insegnamento tradizionale della Chiesa: «[Sacrosanta oecumenica et generalis Tridentina Synodus] declarat hanc potestatem perpetuo in Ecclesia fuisse, ut in sacramentorum dispensatione, salva illorum substantia, ea statueret vel mutaret, quae suscipientium utilitati seu ipsorum sacramentorum venerationi, pro rerum, temporum et locorum varietate, magis expedire iudicaret» (Concilio di Trento, Sessione XXI, Dottrina sulla comunione sotto le due specie, c. 2: Denzinger-Schönmetzer, n. 1728). Dunque, se la sostanza rimane la stessa, c’è continuità (anche se cambia la “parte cerimoniale”); la discontinuità interviene quando cambia la “sostanza” (= materia e forma dei sacramenti). Sul fatto che la “parte essenziale” della celebrazione eucaristica sia rimasta identica, penso che tutti possiamo trovarci d’accordo (ché altrimenti non saremmo piú in comunione con la Chiesa cattolica). Sono d’accordo che la continuità, in un determinato rito, oltre che nella sostanza, debba anche manifestarsi nelle forme esteriori; ma personalmente ritengo che anche questa seconda continuità sia stata sostanzialmente salvaguardata con la riforma liturgica. I cambiamenti che sono stati introdotti sono solo un “adattamento alle nuove condizioni”, per altro richiesto espressamente dal Concilio Vaticano II (si leggano, per cogliere la mens di tale adattamento, i nn. 10-15 del proemio della Institutio generalis). Il Signor Fiorito fa alcuni esempi:

— l’aspetto conviviale, che avrebbe oscurato il valore sacrificale della Messa. Che nel Novus Ordo sia stato rivalutato anche l’aspetto conviviale della Messa, non c’è dubbio; ma questo non significa che ciò sia avvenuto a scapito dell’aspetto sacrificale (naturalmente qui si sta parlando dell’Ordo Missae, non delle chiacchiere di questo o quel prete). Non basta accusare il Messale di Paolo VI di aver trasformato il Sacrificio eucaristico in una “santa cena”; bisogna dimostrarlo. È vero che nella 2ª ed. del Messale italiano è stata introdotta una preghiera eucaristica, la quinta, dove si parla di “santa cena”; ma, come giustamente lamentò il Card. Biffi, si era trattato di un “blitz” dei liturgisti, avvenuto all’insaputa dei Vescovi. Attualmente quella preghiera eucaristica è stata accolta anche nella 3ª ed. del Messale latino, ma totalmente rifusa. L’aver rivalutato l’aspetto conviviale della Messa ha ridato equilibrio alla celebrazione, che, per polemica col protestantesimo, aveva enfatizzato esclusivamente l’aspetto sacrificale;

— la semplificazione, che avrebbe toccato elementi qualificanti del rito: la semplificazione dei riti introduttivi avrebbe offuscato la distinzione fra il sacerdozio ministeriale e quello comune dei fedeli; la semplificazione dei riti offertoriali avrebbe invece oscurato il valore sacrificale della Messa. Beh, non mi sembrano argomenti convincenti. Non penso che ci sia bisogno di due Confiteor per ribadire la distinzione fra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune: non è quello il momento. Anzi, l’atto penitenziale è il momento in cui tutti, sacerdote e fedeli, ci poniamo dinanzi a Dio col nostro peccato e ne chiediamo perdono. Scusatemi l’impertinenza, ma non sono proprio i tradizionalisti che lamentano, nel Novus Ordo, l’eccessiva centralità del celebrante e sostengono che tutti, sacerdote e fedeli, devono essere rivolti al Signore? Non devono forse esserlo nel momento della confessione dei peccati? Per quanto riguarda l’offertorio, è stato piú volte ribadito che il rito precedente era una sorta di anticipazione del sacrificio, assolutamente fuori luogo. Una semplificazione di tale rito non può che dare maggiore risalto all’offerta del sacrificio, che avviene con la preghiera eucaristica;

— l’arricchimento, che potrebbe, esso pure, intaccare la continuità. Sinceramente non riesco a vedere la difficoltà. Personalmente faccio fatica a comprendere come si possa, per esempio, criticare l’abbondanza di parola di Dio che ci viene offerta nella liturgia rinnovata. Potrei capire se fossero stati inseriti elementi estranei alla liturgia; ma se ogni giorno leggiamo una pagina diversa della Scrittura, che male c’è? Dovremmo essere piú che felici di poter ascoltare la parola di Dio. 

3. Visto che stiamo parlando di “arricchimento”, passiamo al problema del reciproco arricchimento fra i due Messali, auspicato dal Santo Padre nella sua lettera ai Vescovi. Alla mia osservazione, nel post del 16 settembre, che finora è stato ripetutamente e positivamente escluso, da parte della Commissione “Ecclesia Dei”, che si possa intervenire sul Messale del 1962, mi è stato fatto notare che il Papa, nella lettera ai Vescovi, limita l’influsso del Messale di Paolo VI su quello di Pio V all’introduzione di nuovi santi e di alcuni nuovi prefazi. Si evidenzia invece che è il Vetus Ordo che dovrebbe influire sul Novus; ma non si sottolinea che anche in questo caso il Papa dà una precisa indicazione sulla natura di tale influsso: «Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera piú forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso». Una ulteriore conferma che non dobbiamo aspettarci una “riforma della riforma” consistente in una modifica del rito della Messa; essa deve essere intesa semplicemente come un recupero della sacralità propria della liturgia. Tale sacralità non è monopolio dell’usus antiquior, ma è possibile (e dovrà tornare a essere la norma) anche nel Novus Ordo. Non a caso il Santo Padre aggiunge: «La garanzia piú sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale».

Mi permetta ora il Signor Fiorito un’osservazione piú generale, che si riferisce a un atteggiamento piuttosto diffuso nel mondo tradizionalista. Non vuole essere un rimprovero, ma solo una forma di correzione fraterna. Mi sembra piú che legittimo apprezzare la forma straordinaria del Rito romano e rivendicare il diritto di celebrare liberamente la Messa secondo questo uso. Visto che tale diritto è stato riconosciuto dalla suprema autorità della Chiesa con il motu proprio Summorum Pontificum, mi sembrerebbe che, a parte le legittime proteste per eventuali illegittimi ostacoli posti all’esercizio di tale diritto, ci si dovrebbe mostrare soddisfatti e riconoscenti e vivere in piena comunione col resto della Chiesa, che segue la forma ordinaria. E invece no: invece di godersi in santa pace la Messa tradizionale, si continua a polemizzare contro il Novus Ordo. Potrei capire se ci si indignasse per gli abusi. No, si critica il Novus Ordo in quanto tale, trovando in esso chissà quali deficienze. Che il Novus Ordo possa non piacere, OK; ma che lo si continui a biasimare, quasi costituisse un nuovo rito piú o meno ereticheggiante (salvo poi ribadirne la validità), proprio non lo capisco. Possibile che non ci si renda conto che, cosí facendo, si va contro l’insegnamento del Santo Padre, che ha esplicitamente riaffermato la continuità fra l’antico e il nuovo rito? Se il Papa ci dice che «non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura», perché non ci rimettiamo con semplicità al suo magistero? In che cosa consiste la nostra obbedienza e sottomissione, se poi ci opponiamo cosí apertamente al suo inequivocabile insegnamento?