domenica 27 febbraio 2011

Criteri di traduzione

Il prossimo 9 marzo, mercoledí delle Ceneri, uscirà la nuova edizione (la quarta) della New American Bible (“NAB Revised Edition”), la traduzione cattolica della Bibbia ufficiale negli Stati Uniti. Dovrebbe essere quella definitiva: la prima edizione era stata pubblicata nel 1970; nel 1986 era stato rivisto il Nuovo Testamento; nel 1991, i Salmi; ora, finalmente, è stata ultimata la revisione dell’Antico Testamento. I criteri adottati in queste successive revisioni in genere hanno seguito una duplice tendenza: da una parte, una maggiore fedeltà al testo biblico; dall’altra, uno sforzo di adattamento all’evoluzione del linguaggio. Rientra in questa seconda tendenza la discutibilissima adozione, almeno nel caso del Nuovo Testamento (non so come si siano comportati per l’Antico), del cosiddetto “linguaggio inclusivo” (per quanto in una forma mitigata).

Ha avuto una certa risonanza (vedi qui) la decisione di non utilizzare piú nell’Antico Testamento la parola “holocaust”, in quanto ormai riservata esclusivamente (con la “H” maiuscola) allo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. La decisione, che non era stata in alcun modo sollecitata, è stata accolta con favore dalle organizzazioni dei sopravvissuti (vedi qui).

Ciò che mi irrita maggiormente non è tanto l’adeguamento totale, da parte della Chiesa cattolica, alla political correctness (ieri con l’adozione del linguaggio inclusivo, oggi con l’eliminazione della parola “olocausto”), quanto piuttosto l’incoerenza nell’utilizzo dei criteri di traduzione che si è deciso di seguire. Da una parte si dichiara di voler eseguire una traduzione letterale (e in molti casi lo si fa); dall’altra si ricorre spesso e volentieri alla creatività arbitraria. 

Si pensi che talvolta, pur di rimanere fedeli al testo originale, si è addirittura rinunciato a tradurre. In certi casi, secondo me, giustamente, come per esempio conservando l’espressione “Amen”, quando Gesú dice: «In verità vi dico» (Amen, I say to you); o ritenendo alcune espressioni popolari usate da Gesú, come “raqa” (Mt 5:22) o “mammon” (Mt 6:24). In altri casi, a mio parere, senza nessun valido motivo, come quando in Nm 21 si parla di “saraph serpents” (nella vecchia versione CEI tradotto con “serpenti velenosi” e nella nuova con “serpenti brucianti”).

Nel caso di “olocausto”, che in tutte le lingue è un termine tecnico per indicare un particolare tipo di sacrificio (quello nel quale la vittima viene completamente consumata dal fuoco), si è invece preferito ricorrere a una perifrasi descrittiva: “burnt offering” (= offerta bruciata). Il motivo sarebbe perché ormai la parola “Holocaust” avrebbe mutato significato e si riferirebbe, in maniera univoca, alla Shoah. C’è da dire che l’espressione “burnt offering” non è nuova (essa veniva già usata, in qualche caso, nella traduzione cattolica classica Douay-Rheims e, sempre, in quella protestante King James) e rende correttamente il senso di “olocausto”. Ma perché privarsi di un termine cosí specifico, oltretutto perfettamente comprensibile?

La critica all'incoerente applicazione dei criteri di traduzione non si rivolge solo alla NAB-RE, ma può essere rivolta anche alla nuova versione della CEI. Avete notato il vangelo della Messa di oggi (Mt 6:24-34)? Da una parte, la nuova traduzione segna un netto miglioramento rispetto alla vecchia: il verbo μεριμνάω viene reso, in tutte e sei le sue ricorrenze, con “preoccuparsi” (a differenza di quanto avveniva nella vecchia traduzione). D’altra parte, si è preferito abbandonare l’espressione “mammona” (presente nella vecchia versione e facente parte del linguaggio comune) e tradurla con “ricchezza”. È troppo chiedere che, una volta adottati dei criteri, essi vengano sempre coerentemente applicati?