giovedì 24 novembre 2016

Dalla sapienza all’ideologia



Domenica scorsa, 20 novembre, in concomitanza con la chiusura del Giubileo straordinario della misericordia, Papa Francesco ha firmato la lettera apostolica Misericordia et misera. Ciò che di questo documento ha destato maggiore scalpore è stata la concessione a tutti i sacerdoti della «facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto» (n. 12), facoltà che era stata già concessa all’inizio del Giubileo, limitatamente alla durata dello stesso (qui). Nessuno vuole mettere in discussione la legittimità di tale disposizione, che rientra senz’alcun dubbio tra le facoltà della suprema autorità della Chiesa e che anzi può portare un po’ di uniformità e semplificazione nella “giungla” normativa finora esistente (disposizioni diverse da una diocesi all’altra; sacerdoti autorizzati e sacerdoti non autorizzati ad assolvere; religiosi col privilegio di rimettere le censure; ecc.), che poteva creare solo confusione nei fedeli. Mi siano però permesse un paio di osservazioni.

1. In simili situazioni ci si aspetterebbe una maggior chiarezza e precisione. La frase «concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto» non mi sembra che brilli per rigore giuridico. È vero che si tratta di un documento pastorale e non di un trattato di diritto canonico; ma non credo che “pastorale” sia sinonimo di superficialità e approssimazione. Innanzi tutto, che significa «in forza del loro ministero»? Questa facoltà concessa dal Papa prescinde dalla facoltà che ogni sacerdote deve ricevere dall’Ordinario del luogo per poter assolvere validamente i peccati (can. 966, § 1) o è subordinata ad essa? In secondo luogo, non si fa alcun cenno alla scomunica latae sententiae prevista dal can. 1398. Si dirà: Ma è sottinteso! la concessione si riferisce proprio all’assoluzione dalla scomunica. Ma allora perché non dirlo? perché parlare solo di peccato? Forse per farsi capire meglio dai non addetti ai lavori? Per me, usando questo pressappochismo, si crea solo confusione. Tanto è vero che nella conferenza stampa di presentazione della lettera c’è voluta la domanda di un giornalista per chiarire che «ci sarà una riforma del Codice per recepire la norma dettata ora dal Papa, ma la scomunica non cade: cambia la via per esserne liberati. Fino ad ora occorreva rivolgersi a un confessore autorizzato dal vescovo a tale compito, che generalmente era il penitenziere della Cattedrale, ora si potrà avere l’assoluzione da ogni sacerdote e con l’assoluzione sarà tolta la scomunica» (qui). In questo caso almeno la risposta è stata chiara; anche se viene da chiedersi che senso abbia una scomunica rimessa ordinariamente da qualsiasi sacerdote…

2. Ma, a parte questo aspetto formale, ciò che lascia un tantino perplessi è l’opportunità della nuova disciplina. Va detto che Papa Francesco è stato assolutamente chiaro e deciso nel riaffermare la gravità del peccato di aborto: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente» (Misericordia et misera, n. 12). Ma, almeno a stare a quanto hanno riportato i giornali (basta dare un’occhiata alla foto con cui si apre questo post), non sembra che il messaggio sia giunto a destinazione: si direbbe che la decisione del Papa abbia piuttosto portato a una banalizzazione dell’aborto. Come al solito, i giornalisti si sono dimostrati alquanto superficiali; ma se loro hanno capito in questo modo, che cosa capirà la gente comune, che da loro dipende per essere informata? Credo che, a questo proposito, sia quanto mai opportuna una riflessione. 

Quando si vuol comunicare un messaggio, il piú delle volte le parole, per quanto chiare esse possano essere, non bastano; occorre che siano accompagnate da “segni” (che possono essere gesti, esempi, divieti, punizioni, ecc.). Questo è particolarmente evidente in campo pedagogico: una educazione che si limiti alle “prediche” difficilmente riesce a produrre risultati efficaci. I genitori, se vogliono che i loro figli non imparino a dire le parolacce, devono innanzi tutto dare loro l’esempio, non dicendole; e poi, alla prima parolaccia che sentono, devono immediatamente mollare un bel ceffone, se davvero vogliono che i loro figli capiscano una volta per tutte che le parolacce non vanno dette. La Chiesa, che è una grande pedagoga, ha sempre usato questo metodo educativo; fa specie che, proprio ora che tanto si parla di “conversione pastorale”, ci si dimentichi di certe ovvietà. 

Facciamo un paio di esempi. Fino a non molti anni fa la Messa si diceva in latino. Perché? Forse perché la Chiesa voleva che i fedeli non capissero nulla o perché preferiva l’uso di un linguaggio misterioso e quasi magico? No; ma solo perché voleva che si capisse che i sacramenti agiscono ex opere operato, vale a dire sono intrinsecamente efficaci, a prescindere dalla nostra comprensione. Una volta era proibita la comunione sotto le due specie. Perché, visto che Gesú aveva istituito l’Eucaristia usando sia il pane che il vino? Semplicemente perché bisognava comprendere che in ciascuna specie era presente tutto Cristo (corpo, sangue, anima e divinità). A questo proposito, può essere assai utile la lettura dei nn. 10-15 del proemio dell’Ordinamento generale del Messale Romano.

Ebbene, sembrerebbe che la Chiesa odierna abbia perso questa sapienza che l’aveva sempre contraddistinta nel corso dei secoli. La Chiesa dei nostri giorni sembra aver l’allergia per qualsiasi manifestazione di severità, quasi che la severità sia incompatibile con la bontà, dimenticando che essa è invece uno degli elementi essenziali del processo formativo. Si dirà che oggi l’urgenza è quella di mostrare agli uomini la misericordia di Dio. Non sarò certo io a contestare tale affermazione: sono profondamente convinto che Dio abbia suscitato santi come Suor Faustina Kowalska e Papa Giovanni Paolo II proprio per far conoscere al mondo il mistero della sua misericordia. Ma la misericordia divina non è una clemenza low cost: tutto ciò che è a buon mercato rischia di perdere valore agli occhi degli uomini. Un bambino non prende sul serio un educatore troppo indulgente. Chi sta nella scuola sa che gli alunni non hanno né stima né rispetto per i professori “troppo buoni”.

Persa la sua antica sapienza, la Chiesa odierna cerca di rimpiazzarla con l’ideologia. Papa Francesco è sempre stato attento a questo pericolo. Nella sua intervista a La Civiltà Cattolica (n. 3918, 19 settembre 2013) aveva detto:
Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante (pp. 469-470).
Ora, nell’intervista rilasciata nei giorni scorsi ad Avvenire (16 novembre 2016) ha riaffermato:
Con la Lumen gentium [la Chiesa] è risalita alle sorgenti della sua natura, al Vangelo. Questo sposta l’asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell’incarnazione del Figlio.
Ma qualche giorno prima, l’11 novembre, come ricordavo in un recente post, in una delle sue meditazioni mattutine in Santa Marta aveva dovuto ammettere che anche l’amore può trasformarsi in ideologia. Anche la misericordia, aggiungo io, può essere ideologizzata. 

“Ideologia” non significa qualcosa di per sé falso: in genere si tratta di una “verità impazzita”, vale a dire una verità slegata dal suo contesto, una verità parziale sconnessa dalla rete delle altre verità parziali con cui è in rapporto e assolutizzata. La giustizia e l’uguaglianza non sono forse valori apprezzabili? Eppure, isolate da altri valori altrettanto importanti, quali ad esempio la libertà e il legittimo pluralismo, si sono trasformate in una crudele ideologia. 

Una verità si trasforma in ideologia soprattutto quando perde il suo contatto con la realtà, quando si dimentica dei limiti e dei condizionamenti che caratterizzano la condizione umana. Messa di fronte alla realtà, l’ideologia non ha l’umiltà di adattarsi ad essa, ma pretende che sia la realtà a doversi adeguare. Robespierre aveva certamente dei grandi ideali; ma, una volta constatato che la rivoluzione non era stata capace di realizzarli, non trovò di meglio che far ricorso alla ghigliottina. Questo, Papa Bergoglio lo sa bene, essendo convinto che «la realtà è piú importante dell’idea». In Evangelii gaudium ha affermato che «l’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci» (n. 232). Aggiungo io: l’idea, staccata dalla realtà, diventa ideologia. E questo può avvenire anche nella Chiesa, anche con le cose piú sante che essa è chiamata a proporre e dispensare. Ciò accade quando un aspetto della sua predicazione viene “decontestualizzato” (= isolato dall’insieme dei dogmi) e assolutizzato, quasi che il resto non avesse piú alcuna importanza; oppure quando ci si dimentica della realtà, delle persone concrete con cui si ha a che fare. 

Ebbene, anche l’estensione a tutti i sacerdoti della facoltà di assoluzione dell’aborto, con la sua pretesa di evidenziare un grande valore (la misericordia di Dio), ma trascurando il fatto che i fedeli possono aver bisogno anche di una censura per rendersi conto della gravità del peccato, potrebbe essere il segno di una progressiva ideologizzazione della Chiesa.
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