lunedì 18 settembre 2017

Fra linguaggio inclusivo e banalità



A qualcuno il problema delle traduzioni bibliche e liturgiche, affrontato nel post della settimana scorsa, a seguito della pubblicazione del motu proprio Magnum principium, potrebbe apparire una questione di lana caprina; primo, perché si tratta di traduzioni (e si suppone che queste siano affidate ad esperti); secondo, perché, in fondo, cambia ben poco (invece di recognoscere, la Santa Sede si limiterà d’ora in poi a “confermare” le traduzioni, già approvate dagli episcopati nazionali). Per dimostrare che, invece, si tratta di una questione di non poco conto, prenderò un esempio dalla liturgia odierna. Prima lettura: prima lettera di San Paolo a Timoteo 2:1-8; vangelo: Luca 7:1-10. Farò riferimento alle traduzioni inglesi rispettivamente del Lezionario e del Messale Romano, che sono state entrambe condotte sulla base dell’istruzione Liturgiam authenticam (2001) e che, in base al recente motu proprio, potrebbero essere riviste.

Prima lettura. A un certo punto Paolo inserisce quella che sembra essere una primitiva professione di fede:

Uno solo, infatti, è Dio
e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini,
l’uomo Cristo Gesú,
che ha dato sé stesso in riscatto per tutti (vv. 5-6).

In italiano non ci sono problemi di traduzione: la versione CEI del 2008 (ma l’edizione del 1974 era pressoché identica), correntemente usata nella liturgia, ha reso alla lettera nella nostra lingua il testo originale greco. Se invece andiamo a leggere la traduzione inglese della New American Bible (NAB), usata per la liturgia negli Stati Uniti e in alcuni altri paesi anglofoni, troveremo significative differenze (da me evidenziate):

For there is one God.
There is also one mediator between God and the human race.
Christ Jesus, himself human,
who gave himself as ransom for all.

Si tenga presente che la NAB è un’ottima traduzione, ma, essendo stata fatta nell’ambiente anglosassone, attualmente ossessionato dal linguaggio sessista, ha inevitabilmente adottato un linguaggio, almeno in certi casi, piú inclusivo. Come nell’esempio su riportato: anziché “mediatore fra Dio e gli uomini”, preferisce parlare di “mediatore fra Dio e la razza umana”; anziché “l’uomo Cristo Gesú”, ricorre all’espressione “Cristo Gesú, lui stesso umano”. Voi capite che, con questa storia del linguaggio sessista, arriviamo all’assurdo di non poter piú affermare che Gesú Cristo è un uomo, ma dobbiamo dire che è un umano. Ora, mi può anche andar bene che all’inizio delle letture tratte dalle lettere di Paolo, al posto di dire “fratelli”, si dica “fratelli e sorelle”; ma che non si possa piú considerare Gesú un uomo, perché altrimenti qualcun* potrebbe sentirsi offes*, mi pare semplicemente un indizio di paranoia.

Ebbene, che cosa ha fatto la CCDDS, quando si è trattato di approvare (meglio, recognoscere) la traduzione del Lezionario da usarsi nelle Diocesi degli Stati Uniti (6 giugno 2001: si tenga presente che Liturgiam authenticam era stata pubblicata il 28 marzo precedente)? Ha fatto esattamente ciò a cui l’Arcivescovo Arthur Roche si riferiva nel suo commento al motu proprio, e cioè un “intervento alternativo di traduzione”, per cui nel Lezionario ora leggiamo:

For there is one God.
There is also one mediator between God and men.
the man Christ Jesus,
who gave himself as ransom for all.

Che è semplicemente — come deve essere — la traduzione letterale del testo originale.

Vangelo. Si tratta della guarigione del servo del centurione. In questo caso nel Lezionario è stata accolta la traduzione della NAB cosí com’è, senza variazioni. Si tenga presente, però, che in questo brano si trova l’espressione che la liturgia usa come invocazione dei fedeli prima della comunione (a voler essere precisi, la liturgia riprende la formulazione di Matteo 8:8, ma le differenze sono insignificanti):

Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto …
ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito (vv. 6-7).

La NAB traduce:

I am not worthy to have you enter under my roof …
but say the word and let my servant be healed.

Il vecchio Messale traduceva, molto liberamente (come fa anche il Messale italiano):

Lord, I am not worthy to receive you,
but only say the word and I shall be healed.

In questo caso il problema non è il linguaggio inclusivo; si tratta piuttosto di decidere se usare un linguaggio piú o meno formale. Il nuovo Messale inglese (unico per tutti i paesi anglofoni) traduce ora:

Lord, I am not worthy that you should enter under my roof,
but only say the word and my soul shall be healed.

Che è l’esatta traduzione del latino:

Domine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum,
sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea.

Praticamente, il nuovo Messale ha ripreso, con i dovuti aggiornamenti, la vecchia traduzione Douay-Rheims (la tradizionale versione cattolica della Bibbia, condotta sulla Volgata):

I am not worthy that thou shouldest enter under my roof …
but say the word, and my servant shall be healed.

Capisco che quel “that you should enter” suoni ostico a un orecchio americano, ma non è altro che una forma di inglese classico, che non stona affatto nella liturgia.

Ora che cosa succederà con l’entrata in vigore del nuovo motu proprio? Spero vivamente che tutto rimanga com’è; ma non posso escludere che nella Chiesa americana si faccia avanti qualche liturgista che chieda che si rivedano le traduzioni alla luce della nuova normativa. E i Vescovi non avranno la forza di opporsi. Sappiamo tutti che, in queste cose, gli episcopati c’entrano ben poco; sono gli esperti che fanno il bello e il cattivo tempo. Almeno prima c’era Roma che bloccava le loro intemperanze; ora non avrà piú gli strumenti per farlo. E torneremo cosí al linguaggio inclusivo e alle banalità, con grande gioia dei liturgisti e con grave danno dei fedeli.
Q