giovedì 7 settembre 2017

Irreversibile? Una domanda.



Avrei preferito non esprimermi sul recente discorso del Papa ai partecipanti alla Settimana liturgica nazionale (24 agosto 2017), che ha fatto tanto discutere i commentatori soprattutto per la frase «la riforma liturgica è irreversibile». In genere, quando tutti dicono la loro, avendo l’impressione che sia stato ormai già detto tutto, mi passa la voglia di aggiungere qualcosa, che rischia di essere solo una inutile ripetizione. Inoltre, per me che varie volte ho invocato interventi piú autorevoli da parte del Pontefice, vedere che, finalmente, Papa Francesco aveva fatto un discorso come Dio comanda non poteva che rallegrarmi. Magari, l’appellarsi all’«autorità magisteriale» poteva sembrare un po’ fuori luogo, visto che finora non lo si era mai fatto per questioni di ben altra rilevanza; ma, insomma, lasciamo perdere, andava bene cosí.

Siccome però il dibattito non accenna ad attenuarsi, e siccome sono stato sollecitato dalla richiesta di qualche lettore, vedrò di aggiungere la mia voce a quella degli altri osservatori, accettando consapevolmente di correre il rischio di cui sopra. Per dire cosa? Per dire che l’affermazione «la riforma liturgica è irreversibile» non è chiara per nulla. Che significa? Che la riforma liturgica, cosí come è stata elaborata, non può essere, almeno per il momento, cambiata? Beh, se cosí fosse, a me la cosa non dispiacerebbe poi piú di tanto. Sono sempre stato un convinto assertore della riforma liturgica. Ciò non mi ha impedito però di rilevarne serenamente anche i limiti; e per questo non mi dispiaceva l’idea di una “riforma della riforma”, intesa come aggiustamento — non certo come abrogazione — della riforma liturgica. Ma, se questo non è possibile (per ragioni che, sinceramente, al momento mi sfuggono), devo dire che a me la liturgia rinnovata va bene anche cosí com’è, purché celebrata decorosamente, a norma dei libri liturgici, e non secondo le improvvisazioni e la “creatività pastorale” di ciascun celebrante.

Ma ho paura che non sia questa l’interpretazione da dare alle parole «la riforma liturgica è irreversibile». Significherebbe considerare la riforma liturgica come qualcosa di statico, dato una volta per tutte e immutabile. E, se cosí fosse, come ha giustamente rilevato l’altro giorno Claudio Crescimanno, i propugnatori del rinnovamento liturgico diverrebbero, tutto a un tratto, dei conservatori. Il che non appare credibile. È molto piú probabile che, quando Papa Bergoglio afferma che «la riforma liturgica è irreversibile», intenda piuttosto dire: il processo innescato dal Concilio con la riforma liturgica è irreversibile; è un processo che va avanti e non può essere fermato. Non è, questa, una mia semplice supposizione; si tratta di un’interpretazione che trova il suo fondamento in affermazioni contenute nello stesso discorso:
I libri riformati a norma dei decreti del Vaticano II hanno innestato [sic] un processo che richiede tempo, ricezione fedele, obbedienza pratica, sapiente attuazione celebrativa da parte, prima, dei ministri ordinati, ma anche degli altri ministri, dei cantori e di tutti coloro che partecipano alla liturgia (corsivo mio).
Tale interpretazione è perfettamente coerente con la visione “filosofica” del Pontefice. Se ricordate, il primo dei quattro postulati di Papa Francesco, afferma che “il tempo è superiore allo spazio”. Ebbene, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, tale assioma viene cosí illustrato:
Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. […] Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci (n. 223; corsivo nel testo).
Provate ad applicare queste parole alla riforma liturgica, e capirete che cosa voglia dire Papa Francesco quando afferma che «la riforma liturgica è irreversibile»: la riforma liturgica è un processo che non può essere fermato; è un movimento in costante crescita, che non ammette retromarce. È la stessa comprensione che, in un orizzonte piú vasto, i novatores hanno del Concilio: il Vaticano II non è importante per i suoi documenti, e cioè per le conclusioni a cui è giunto (se cosí fosse, esso costituirebbe solo una nuova ortodossia da sostituire all’antica). Il Concilio è importante per aver avviato un processo, lento ma inarrestabile, verso traguardi non previsti dal Concilio stesso, ma da esso resi possibili.

È evidente la matrice idealistica di questa concezione, che presuppone il primato del divenire sull’essere. Ma diciamo che l’idea di “processo”, affrancata dalle sue premesse filosofiche, la si potrebbe pure accettare. Dopo tutto, Dio si è manifestato nella storia, e la rivelazione si è realizzata progressivamente attraverso i secoli. La stessa tradizione della Chiesa, intesa come tradizione vivente, potrebbe essere considerata alla stregua di un “processo”. Ebbene, se la riforma liturgica è un processo, la proposta di una “riforma della riforma” potrebbe essere vista come un momento all’interno di esso: nessuno dei suoi sostenitori — né il Card. Ratzinger né il Card. Sarah — hanno mai pensato di mettere in discussione la riforma liturgica; parlando di riforma della riforma, si sono voluti appunto inserire in questo processo riformatore, che nessuno vuol fermare, ma solo continuare e approfondire nella giusta direzione (che è quella indicata dal Vaticano II). Si potrebbe addirittura pensare che Benedetto XVI, nel pubblicare il motu proprio Summorum Pontificum, abbia voluto, a sua volta, avviare un processo: quando parla di un reciproco arricchimento delle due forme del rito romano, sta accennando a qualcosa di indeterminato che deve ancora avvenire e che potrebbe sfociare — perché no? — in quella “riconciliazione liturgica” di cui ora parla il Card. Sarah.

Quindi parliamo pure di “processo” a proposito della riforma liturgica, a patto però che eliminiamo certe espressioni apparentemente ovvie, ma in realtà prive di senso, come, appunto, che si tratta di un processo irreversibile o che si deve andare sempre avanti e non si può tornare indietro. Il nostro buon Vico ci insegna che, nella storia, si dànno corsi e ricorsi; la storia intesa come progresso infinito (verso dove?) è pura ideologia, che non trova riscontro nella realtà. In secondo luogo, dobbiamo liberare la categoria di processo da qualsiasi forma di determinismo, come se fosse già programmato quel che dovrà accadere; si tratterebbe solo di attendere. Molti, parlando di processi storici, pensano di sapere già come si evolveranno le cose, semplicemente perché i loro schemi ideologici già prevedono l’esito finale del processo. Per questo non sono infondate le preoccupazioni per una ulteriore evoluzione della riforma liturgica verso quelli che sono alcuni dei punti del programma riformatore che sembra essere all’origine dell’attuale pontificato: diaconato (e sacerdozio?) femminile; primato della parola di Dio sull’Eucaristia; concelebrazione ecumenica con i protestanti; ecc. 

Ma, cosí facendo, verrebbero smentite le affermazioni, piú volte ripetute, circa le “sorprese di Dio”. Una volta avviato un processo, non sappiamo dove esso condurrà. Dobbiamo appunto rimanere sempre aperti alle “sorprese di Dio”. E se Dio volesse, in questo processo di riforma liturgica permanente, recuperare alcuni aspetti dell’antica liturgia della Chiesa, chi siamo noi «per porre impedimento a Dio?» (At 11:17).
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