domenica 27 ottobre 2013

«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo»

Il vangelo di oggi ci presenta la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18:9-14). Essa è preceduta da un’introduzione (v. 9), con cui l’evangelista spiega il motivo per cui Gesú l’ha pronunciata:

Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.

La vecchia traduzione della CEI suonava:

Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri.

Il testo originale greco ha:

Εἶπεν δὲ καὶ πρός τινας τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς ὅτι εἰσὶν δίκαιοι καὶ ἐξουθενοῦντας τοὺς λοιποὺς τὴν παραβολὴν ταύτην.

La traduzione latina della Vulgata (antica e nuova) rende l’originale nel modo seguente:

Dixit autem et ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam.

Anche chi non conosce il greco, semplicemente confrontando la traduzione latina con le due traduzioni italiane, si accorge della differenza: nella Vulgata (che riflette letteralmente il testo originale greco) si parla di «alcuni che confidavano in sé stessi come [se fossero] giusti» (alla Vulgata semmai si potrebbe rinfacciare una certa libertà nel tradurre ὅτι εἰσὶν δίκαιοι con tamquam justi, essendo la traduzione letterale «poiché sono [= erano] giusti»); nelle due traduzioni italiane si dice invece: «alcuni che presumevano di essere giusti» (1974); «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti» (2008). È cambiata la forma, ma è rimasto immutato il significato. Ebbene, ho l’impressione che con tale traduzione, assai libera e apparentemente suggestiva, in realtà si tradisca il significato originario del testo e si privi la parabola che segue della sua chiave interpretativa.

Tutto sta a interpretare correttamente l’espressione τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς. πεποιθότας è il participio perfetto di πειί  ίθω, verbo che significa appunto “persuadere, convicere”; ma, al perfetto (πέποιθα), assume valore intransitivo (“fidarsi, confidare, aver fiducia”). Si veda in proposito un qualsiasi dizionario di greco (p. es., il Rocci, p. 1451). Naturalmente i traduttori della CEI la loro interpretazione non se la sono inventata: il dizionario del Padre Zorell (Lexicon Græcum Novi Testamenti, col. 1023), dopo aver correttamente ricordato che il perfetto πέποιθα ha significato di presente (“fido, confido”), sostiene sorprendentemente che, seguíto da ὅτι (come nel nostro caso), πέποιθα significherebbe “avere la persuasione di…”, giustificando cosí la traduzione della Bibbia CEI. Si potrebbe far notare che quell’ὅτι potrebbe avere valore causale piú che dichiarativo:

È meglio tradurre hoti con “perché” invece che con il semplice “che”. I farisei erano completamente “giusti” di fronte alla legge; è per questo che essi avevano tanta fiducia in se stessi [2 Cor 1:9] (C. Stuhlmueller, “Il Vangelo secondo Luca”: Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia, 1973, p. 1018).

Il testo citato da Stuhlmueller (2 Cor 1:9) è pressoché identico a quello evangelico: ἵνα μὴ πεποιθότες ὦμεν ἐφ' ἑαυτοῖς ἀλλ' ἐπὶ τῷ θεῷ τῷ ἐγείροντι τοὺς νεκρούς, questa volta tradotto correttamente dalla CEI: «perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti». A volere, si potrebbe far riferimento anche a un celebre testo del Vecchio Testamento: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore» (Ger 17:7), che nel greco della Septuaginta suona: εὐλογημένος ὁ ἄνθρωπος, ὃς πέποιθεν ἐπὶ τῷ Κυρίῳ (si noti la medesima costruzione che troviamo nel vangelo e in San Paolo: πέποιθα + ἐπὶ + dativo).

Dopo questa lunga (e forse arida e noiosa) analisi filologica, vi chiederete perché abbia sostenuto all’inizio che le due traduzioni della CEI avrebbero privato la parabola della sua chiave interpretativa. Semplicemente perché la colpa del fariseo sta proprio nel confidare in sé stesso, non nell’avere “l’intima presunzione di essere giusto” (sottinteso, senza esserlo). In realtà, il fariseo era “giusto”, ma la sua giustizia era quella derivante dalla legge e non quella proveniente da Dio (Fil 3:9) che invece “giustifica” il pubblicano (tra parentesi, si vedano, nel capitolo terzo della lettera ai Filippesi, i vv. 3-4, dove viene usato lo stesso verbo πέποιθα per parlare della “fiducia nella carne”).

Come spesso capita, la liturgia coglie nella parola di Dio aspetti che agli esegeti, con tutta la loro acribía, sfuggono. L’antifona al Benedictus delle Lodi mattutine di questa XXX domenica durante l’anno, collegando sapientemente la conclusione della parabola (v. 14) con la sua introduzione (v. 9), canta:


Descéndit publicánus justificátus in domum suam, ab illo, qui in se confidébat.