Ieri il mio articolo su Concilio e "spirito del Concilio" è stato pubblicato su La Porte Latine, sito ufficiale del Distretto di Francia della Fraternità sacerdotale San Pio X. Potrei dire: "Missione compiuta". Quel testo è finalmente giunto a destinazione. Perché a loro era diretto. E mi fa piacere leggere, nel messaggio che mi hanno inviato per comunicarmi la pubblicazione, che il testo è considerato "très interéssant". Sono sempre stato convinto che con un diverso approccio alla questione del Concilio sia possibile trovare una qualche soluzione. Ringraziamo il Signore e preghiamo perché il seme gettato possa portare frutti.
A questo punto però il sottoscritto corre un grosso rischio: se l'articolo viene condiviso dai lefebvriani, significa che chi lo ha scritto è un loro simpatizzante. Si tratta di una delle tante semplificazioni a cui siamo abituati. Per fortuna, vedo che non tutti si lasciano trascinare in simili riduttivismi. Per esempio su Le Forum Catholique il mio articolo è stato cosí presentato: "Il provient d'un prêtre non traditionaliste". Confermo: non mi considero "tradizionalista", come non mi considero "progressista"; mi sembrano etichette banali, prive di significato. Mi sento, questo sí, radicato nella tradizione, ma una tradizione vivente, che si evolve, che progredisce. Il grande Biffi era solito dire, a proposito del razionalismo, che tra questo e la ragione intercorre la stessa differenza che passa fra i polmoni e la polmonite. La stessa cosa vale per la tradizione e il progresso: "tradizionalismo" e "progressismo" non ne sono che le rispettive degenerazioni.
Credo che possa essere utile riportare, per chiarire la mia posizione soprattutto in materia liturgica, la traduzione italiana di un articolo che pubblicai, in inglese, oltre un anno fa (Natale 2007) su iPaul, la newsletter del Saint Paul Scholasticate, a commento del motu proprio "Summorum Pontificum". Era intitolato If only...
Il 7 luglio 2007 (07/07/07! qualche significato recondito?) Papa Benedetto XVI ha pubblicato il motu proprio "Summorum Pontificum" sull'uso della liturgia romana precedente alla riforma del 1970. Già nel 1984 Papa Giovanni Paolo II, con uno speciale indulto, aveva permesso l'uso del Messale Romano pubblicato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 (l'ultima edizione prima della riforma liturgica); ma l'indulto doveva essere concesso dai Vescovi diocesani, i quali però, per i piú svariati motivi, spesso si rifiutavano. Pertanto nel 1988 lo stesso Pontefice, col motu proprio "Ecclesia Dei", aveva esortato i Vescovi a fare generoso uso di questa facoltà in favore di tutti i fedeli che lo desideravano. Ma anche dopo questo secondo intervento la situazione era cambiata poco. Non pochi fedeli erano costretti ad andare nelle chiese e nelle cappelle dei lefebvriani, se volevano partecipare alla Messa secondo il vecchio rito. Con questo nuovo motu proprio Papa Benedetto XVI liberalizza l'uso della liturgia tridentina per tutti quei sacerdoti e fedeli che amano questo rito. Non ci sarà piú bisogno di chiedere il permesso al Vescovo del luogo. D'ora in poi deputati ad accordare l'autorizzazione saranno i parroci, i rettori delle chiese e i superiori maggiori per le comunità religiose. Nel motu proprio, il Papa dichiara che il vecchio Messale non è stato mai abrogato, e perciò può essere liberamente usato come "forma straordinaria" della liturgia romana, rimanendo la "forma ordinaria" il Messale promulgato da Paolo VI nel 1970.
Nella lettera ai Vescovi che accompagna il motu proprio Benedetto XVI spiega il motivo che lo ha indotto a liberalizzare la celebrazione della Messa tridentina: "Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente." Con tali parole il Santo Padre rivela il vero motivo che lo ha spinto a emanare il motu proprio. Potremmo chiamarlo un "motivo ecumenico", che è come dire l'unità della Chiesa. Il riferimento del Papa è evidente. Egli vuole recuperare alla piena comunione ecclesiale quei fedeli che al presente vivono ai margini della Chiesa per motivi liturgici (sebbene non solo liturgici), e cioè i sacerdoti e laici affiliati alla Società San Pio X, conosciuti come "lefebvriani" dal nome del loro iniziatore, l'Arcivescovo Marcel Lefebvre, CSSp (1905-1991).
Probabilmente nessun documento pontificio era mai stato avversato cosí duramente. Ciò che sorprende è che la piú forte resistenza ad applicare la decisione papale viene dai Vescovi stessi, ovviamente il piú delle volte non in maniera aperta, ma subdola, appigliandosi a ogni sorta di cavilli. Perché? Il motivo generalmente portato è che permettere di celebrare liberamente secondo il vecchio rito potrebbe provocare divisioni all'interno delle comunità parrocchiali. È curioso che quanti si sono sempre considerati fautori di libertà e pluralismo nella Chiesa, quanti dicevano che unità non significa uniformità, quanti hanno sempre tollerato spericolati esperimenti, creatività illimitata e scandalosi abusi, ora esigano assoluta uniformità, dimenticando che nella Chiesa sono sempre esistiti riti diversi, senza che ciò mettesse a rischio l'unità della Chiesa. È singolare che i sostenitori dell'ecumenismo con tutti e a ogni costo, gli stessi sempre pronti a criticare la Chiesa del passato per essere stata incapace di evitare divisioni, ora non solo non si curano della sorte dei loro fratelli tradizionalisti, ma neppure sono capaci di comprendere la sollecitudine del Santo Padre per i suoi figli erranti ai margini della Chiesa. È chiaro che la premura per l'unità delle comunità parrocchiali è solo un pretesto.
Forse il vero motivo di tali dure reazioni al motu proprio è un altro. Siccome la riforma liturgica è stato il "fiore all'occhiello" del Concilio Vaticano II, temono che permettere un ritorno alla liturgia preconciliare potrebbe condurre a mettere in discussione il Concilio nel suo insieme. Il Papa ha già chiarito che la riforma liturgica non è in questione, tanto meno il Concilio. Ma c'è qualcosa di vero nella preoccupazione degli "ammutinati". La decisione papale per lo meno mette in discussione un certo modo di interpretare il Concilio. Questo non è il luogo per discutere sul Concilio; ma è certo che, a piú di quaranta anni dalla conclusione del Vaticano II, una spassionata verifica del Concilio e delle successive interpretazioni diventa necessaria. Tanto piú che Benedetto XVI stesso ha già iniziato questo "ripensamento" del Concilio col suo autorevole discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 (e solo lui, che era stato uno dei protagonisti del Concilio, poteva farlo). In ogni modo, è curioso che coloro che si sono sempre appellati allo spirito del Concilio, ora si aggrappino alla sua lettera per contestare il Papa.
Ciò detto, vorrei aggiungere alcune considerazioni personali sul motu proprio. Io sono uno che ha fatto in tempo a conoscere la vecchia liturgia: quando divenni chierichetto, la Messa era ancora in latino. Ma proprio in quegli anni cominciò la riforma liturgica e io ne fui un convinto assertore. Io amo la nuova liturgia; la trovo bella, quando celebrata nel modo dovuto, ricca e teologicamente profonda. Da sacerdote non ho mai celebrato secondo il vecchio Messale, e dopo il Concilio ho partecipato alla Messa tridentina appena un paio di volte. Se devo essere sincero, non la trovo per nulla affascinante. Amo il latino e mi piace celebrare la Messa in latino, specialmente se cantata in canto gregoriano. Ma, nell'usus antiquior, a parte Dominus vobiscum e Oremus, non si sente nulla; tutto è detto sottovoce. Il mese scorso [novembre 2007] ho comprato un messalino, che riproduce il Messale del 1962, ma l'ho trovato estremamente povero in confronto al Messale di Paolo VI. Ciò che colpisce maggiormente è l'assenza dell'abbondanza della Parola di Dio che troviamo nella nuova liturgia. Perciò non ho alcuna nostalgia della vecchia Messa (per quanto la consideri un gioiello della tradizione) e non penso che mi avvarrò della possibilità concessa dal motu proprio, a meno che qualche gruppo di fedeli non mi chieda di celebrare la Messa tridentina (fa parte dello spirito paolino essere disponibili verso tutti).
Penso che il motu proprio, cosí come esso è stato pubblicato, non possa essere l'ultima parola in materia. Secondo me, a parte alcuni punti da chiarire (p. es. che cosa significa il "gruppo stabile di fedeli" autorizzato a richiedere al parroco la celebrazione secondo il vecchio rito), ci sono alcuni problemi che devono, prima o poi, essere affrontati. Vedo tre grossi problemi: l'uniformità del calendario (non ha senso avere due diversi calendari); l'adozione del nuovo lezionario (che considero uno dei frutti migliori della riforma liturgica); la partecipazione attiva dei fedeli. Ma mi sembra che il Santo Padre stesso lasci la porta aperta a possibili futuri sviluppi, quando nella lettera accompagnatoria ai Vescovi dice: "Le due forme dell'uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda".
Vorrei concludere con un'esperienza avuta lo scorso ottobre [2007]. Una coppia di Filippini che vivono negli Stati Uniti e che di solito vanno a Messa in una chiesa della Fraternità San Pietro (da non confondersi con la Società San Pio X) a Phoenix in Arizona, mi ha chiesto se potevo celebrare una Messa tridentina in occasione del loro anniversario di matrimonio. Ho risposto che non potevo, innanzi tutto perché non sapevo come celebrare, in secondo luogo perché non avevo il Messale (non avevo ancora comprato il messsalino di cui sopra). Cosí, ho proposto di celebrare la Messa in latino secondo il Messale di Paolo VI, in canto gregoriano e con le letture in inglese. Sono rimasti cosí soddisfatti, che ho pensato: se tutti i sacerdoti avessero sempre celebrato il novus ordo nel modo dovuto, forse a questo punto nessuno avrebbe nostalgia del vecchio uso e non ci sarebbe stato bisogno di nessun motu proprio...
A questo punto però il sottoscritto corre un grosso rischio: se l'articolo viene condiviso dai lefebvriani, significa che chi lo ha scritto è un loro simpatizzante. Si tratta di una delle tante semplificazioni a cui siamo abituati. Per fortuna, vedo che non tutti si lasciano trascinare in simili riduttivismi. Per esempio su Le Forum Catholique il mio articolo è stato cosí presentato: "Il provient d'un prêtre non traditionaliste". Confermo: non mi considero "tradizionalista", come non mi considero "progressista"; mi sembrano etichette banali, prive di significato. Mi sento, questo sí, radicato nella tradizione, ma una tradizione vivente, che si evolve, che progredisce. Il grande Biffi era solito dire, a proposito del razionalismo, che tra questo e la ragione intercorre la stessa differenza che passa fra i polmoni e la polmonite. La stessa cosa vale per la tradizione e il progresso: "tradizionalismo" e "progressismo" non ne sono che le rispettive degenerazioni.
Credo che possa essere utile riportare, per chiarire la mia posizione soprattutto in materia liturgica, la traduzione italiana di un articolo che pubblicai, in inglese, oltre un anno fa (Natale 2007) su iPaul, la newsletter del Saint Paul Scholasticate, a commento del motu proprio "Summorum Pontificum". Era intitolato If only...
Il 7 luglio 2007 (07/07/07! qualche significato recondito?) Papa Benedetto XVI ha pubblicato il motu proprio "Summorum Pontificum" sull'uso della liturgia romana precedente alla riforma del 1970. Già nel 1984 Papa Giovanni Paolo II, con uno speciale indulto, aveva permesso l'uso del Messale Romano pubblicato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 (l'ultima edizione prima della riforma liturgica); ma l'indulto doveva essere concesso dai Vescovi diocesani, i quali però, per i piú svariati motivi, spesso si rifiutavano. Pertanto nel 1988 lo stesso Pontefice, col motu proprio "Ecclesia Dei", aveva esortato i Vescovi a fare generoso uso di questa facoltà in favore di tutti i fedeli che lo desideravano. Ma anche dopo questo secondo intervento la situazione era cambiata poco. Non pochi fedeli erano costretti ad andare nelle chiese e nelle cappelle dei lefebvriani, se volevano partecipare alla Messa secondo il vecchio rito. Con questo nuovo motu proprio Papa Benedetto XVI liberalizza l'uso della liturgia tridentina per tutti quei sacerdoti e fedeli che amano questo rito. Non ci sarà piú bisogno di chiedere il permesso al Vescovo del luogo. D'ora in poi deputati ad accordare l'autorizzazione saranno i parroci, i rettori delle chiese e i superiori maggiori per le comunità religiose. Nel motu proprio, il Papa dichiara che il vecchio Messale non è stato mai abrogato, e perciò può essere liberamente usato come "forma straordinaria" della liturgia romana, rimanendo la "forma ordinaria" il Messale promulgato da Paolo VI nel 1970.
Nella lettera ai Vescovi che accompagna il motu proprio Benedetto XVI spiega il motivo che lo ha indotto a liberalizzare la celebrazione della Messa tridentina: "Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente." Con tali parole il Santo Padre rivela il vero motivo che lo ha spinto a emanare il motu proprio. Potremmo chiamarlo un "motivo ecumenico", che è come dire l'unità della Chiesa. Il riferimento del Papa è evidente. Egli vuole recuperare alla piena comunione ecclesiale quei fedeli che al presente vivono ai margini della Chiesa per motivi liturgici (sebbene non solo liturgici), e cioè i sacerdoti e laici affiliati alla Società San Pio X, conosciuti come "lefebvriani" dal nome del loro iniziatore, l'Arcivescovo Marcel Lefebvre, CSSp (1905-1991).
Probabilmente nessun documento pontificio era mai stato avversato cosí duramente. Ciò che sorprende è che la piú forte resistenza ad applicare la decisione papale viene dai Vescovi stessi, ovviamente il piú delle volte non in maniera aperta, ma subdola, appigliandosi a ogni sorta di cavilli. Perché? Il motivo generalmente portato è che permettere di celebrare liberamente secondo il vecchio rito potrebbe provocare divisioni all'interno delle comunità parrocchiali. È curioso che quanti si sono sempre considerati fautori di libertà e pluralismo nella Chiesa, quanti dicevano che unità non significa uniformità, quanti hanno sempre tollerato spericolati esperimenti, creatività illimitata e scandalosi abusi, ora esigano assoluta uniformità, dimenticando che nella Chiesa sono sempre esistiti riti diversi, senza che ciò mettesse a rischio l'unità della Chiesa. È singolare che i sostenitori dell'ecumenismo con tutti e a ogni costo, gli stessi sempre pronti a criticare la Chiesa del passato per essere stata incapace di evitare divisioni, ora non solo non si curano della sorte dei loro fratelli tradizionalisti, ma neppure sono capaci di comprendere la sollecitudine del Santo Padre per i suoi figli erranti ai margini della Chiesa. È chiaro che la premura per l'unità delle comunità parrocchiali è solo un pretesto.
Forse il vero motivo di tali dure reazioni al motu proprio è un altro. Siccome la riforma liturgica è stato il "fiore all'occhiello" del Concilio Vaticano II, temono che permettere un ritorno alla liturgia preconciliare potrebbe condurre a mettere in discussione il Concilio nel suo insieme. Il Papa ha già chiarito che la riforma liturgica non è in questione, tanto meno il Concilio. Ma c'è qualcosa di vero nella preoccupazione degli "ammutinati". La decisione papale per lo meno mette in discussione un certo modo di interpretare il Concilio. Questo non è il luogo per discutere sul Concilio; ma è certo che, a piú di quaranta anni dalla conclusione del Vaticano II, una spassionata verifica del Concilio e delle successive interpretazioni diventa necessaria. Tanto piú che Benedetto XVI stesso ha già iniziato questo "ripensamento" del Concilio col suo autorevole discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 (e solo lui, che era stato uno dei protagonisti del Concilio, poteva farlo). In ogni modo, è curioso che coloro che si sono sempre appellati allo spirito del Concilio, ora si aggrappino alla sua lettera per contestare il Papa.
Ciò detto, vorrei aggiungere alcune considerazioni personali sul motu proprio. Io sono uno che ha fatto in tempo a conoscere la vecchia liturgia: quando divenni chierichetto, la Messa era ancora in latino. Ma proprio in quegli anni cominciò la riforma liturgica e io ne fui un convinto assertore. Io amo la nuova liturgia; la trovo bella, quando celebrata nel modo dovuto, ricca e teologicamente profonda. Da sacerdote non ho mai celebrato secondo il vecchio Messale, e dopo il Concilio ho partecipato alla Messa tridentina appena un paio di volte. Se devo essere sincero, non la trovo per nulla affascinante. Amo il latino e mi piace celebrare la Messa in latino, specialmente se cantata in canto gregoriano. Ma, nell'usus antiquior, a parte Dominus vobiscum e Oremus, non si sente nulla; tutto è detto sottovoce. Il mese scorso [novembre 2007] ho comprato un messalino, che riproduce il Messale del 1962, ma l'ho trovato estremamente povero in confronto al Messale di Paolo VI. Ciò che colpisce maggiormente è l'assenza dell'abbondanza della Parola di Dio che troviamo nella nuova liturgia. Perciò non ho alcuna nostalgia della vecchia Messa (per quanto la consideri un gioiello della tradizione) e non penso che mi avvarrò della possibilità concessa dal motu proprio, a meno che qualche gruppo di fedeli non mi chieda di celebrare la Messa tridentina (fa parte dello spirito paolino essere disponibili verso tutti).
Penso che il motu proprio, cosí come esso è stato pubblicato, non possa essere l'ultima parola in materia. Secondo me, a parte alcuni punti da chiarire (p. es. che cosa significa il "gruppo stabile di fedeli" autorizzato a richiedere al parroco la celebrazione secondo il vecchio rito), ci sono alcuni problemi che devono, prima o poi, essere affrontati. Vedo tre grossi problemi: l'uniformità del calendario (non ha senso avere due diversi calendari); l'adozione del nuovo lezionario (che considero uno dei frutti migliori della riforma liturgica); la partecipazione attiva dei fedeli. Ma mi sembra che il Santo Padre stesso lasci la porta aperta a possibili futuri sviluppi, quando nella lettera accompagnatoria ai Vescovi dice: "Le due forme dell'uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda".
Vorrei concludere con un'esperienza avuta lo scorso ottobre [2007]. Una coppia di Filippini che vivono negli Stati Uniti e che di solito vanno a Messa in una chiesa della Fraternità San Pietro (da non confondersi con la Società San Pio X) a Phoenix in Arizona, mi ha chiesto se potevo celebrare una Messa tridentina in occasione del loro anniversario di matrimonio. Ho risposto che non potevo, innanzi tutto perché non sapevo come celebrare, in secondo luogo perché non avevo il Messale (non avevo ancora comprato il messsalino di cui sopra). Cosí, ho proposto di celebrare la Messa in latino secondo il Messale di Paolo VI, in canto gregoriano e con le letture in inglese. Sono rimasti cosí soddisfatti, che ho pensato: se tutti i sacerdoti avessero sempre celebrato il novus ordo nel modo dovuto, forse a questo punto nessuno avrebbe nostalgia del vecchio uso e non ci sarebbe stato bisogno di nessun motu proprio...