Due pubblicazioni mi hanno scosso non poco in questi giorni: innanzi tutto il Rapporto della Child Abuse Commission, costituita in Irlanda per indagare sugli abusi su minori compiuti negli istituti gestiti da religiosi (ne ha riferito ZENIT il 21 maggio scorso); quindi il libro di Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A. (a cui ha fatto riferimento ieri Sandro Magister sul sito www.chiesa). Non si tratta di novità: sono cose che già sapevamo; ma ciò che colpisce dalla pubblicazione di tali rapporti è l'endemicità di certi fenomeni.
Non sono nato ieri, per cui non mi scandalizzo piú di tanto della fragilità umana; conoscendo me stesso, e sapendo che ogni giorno ho bisogno della misericordia di Dio, non mi straccio le vesti per le debolezze degli uomini di Chiesa. Non sono neppure un manicheo, che divide l'umanità fra buoni e cattivi, come se ci fossero uomini intrinsecamente perversi che vanno esemplarmente puniti e noi, i giusti, che abbiamo il diritto di giudicarli. Per questo non mi sono mai piaciute le campagne mediatiche contro i preti pedofili; è ovvio che essi vadano messi nella condizione di non nuocere, ma senza mai dimenticare che si tratta, anche nel loro caso, di esseri umani che hanno sbagliato e vanno, per quanto è possibile, recuperati.
Ma in questo caso si rimane male perché non si tratta tanto di "debolezze", di "cadute" isolate (situazioni nella quali tutti, prima o poi, possiamo trovarci); si tratta di "sistemi": sembra quasi che fosse normale avere certi comportamenti riprovevoli. Personalmente, ho sempre distinto fra moralità e correttezza. Sul piano morale, tutti possiamo sbagliare: è una questione personale che va affrontata e risolta fra noi e Dio (semmai con la mediazione del confessore). Ma, nello svolgimento delle nostre funzioni, dobbiamo cercare di essere sempre estremamente corretti: se sono un educatore, a prescindere dalle mie personali tendenze, non posso abusare delle persone che sono state affidate alle mie cure ("Maxima debetur puero reverentia"!); se sono un amministratore, devo amministare il denaro che mi è stato affidato con estremo rigore. Non si può pretendere da tutti la santità; ma si ha il diritto di aspettarsi da tutti la correttezza.
Ma la conoscenza di certe situazioni mi porta a fare anche un'altra riflessione. Direte che sono un fissato; vado sempre a finire allo stesso punto, ma non so come evitarlo. Lo svelamento di tali a dir poco incresciosi comportamenti smentisce la tesi, cara alla Scuola bolognese, del Concilio Vaticano II come "rottura", come "nuovo inizio" nella storia della Chiesa. Questi fatti dimostrano, purtroppo, che nella Chiesa c'è una avvilente continuità: gli abusi sessuali e gli scandali finanziari c'erano prima del Concilio (e ciò dimostra che la Chiesa aveva effettivo bisogno di riforma), e continuano a esserci dopo il Concilio (e ciò dimostra che il Concilio ha fallito nei suoi piani di riforma). Qui abbiamo tutti torto: hanno torto i tradizionalisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa, prima del Vaticano II, tutto andasse bene; hanno torto i progressisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa post-conciliare certe cose non possano piú avvenire. È stata una grande illusione pensare che potesse bastare convocare un concilio per rinnovare la Chiesa. Ci sono state, è vero, tante riforme esteriori, ma il nostro cuore, segnato dal peccato, è rimasto lo stesso.
Che fare? I tradizionalisti ci diranno: "Aboliamo il Concilio! Torniamo alla tradizione!", come se questa, da sé sola, fosse la panacea per tutti i mali della Chiesa, come se tra gli amanti della tradizione non esistesse il peccato originale. I progressiti ci diranno: "Queste cose ancora succedono perché il Concilio non è stato ancora pienamente applicato; specialmente a Roma, esso ha incontrato e continua a incontrare forti resistenze. Se si seguisse veramente lo spirito del Concilio, queste cose non accadrebbero". Illusi gli uni e gli altri. Non si rendono conto che la situazione potrà cambiare solo quando la smetteremo di preoccuparci dell'esteriorità, delle riforme strutturali, e incominceremo a preoccuparci del rinnovamento interiore. Nel Cinquecento ciò che rinnovò la Chiesa non fu tanto il Concilio di Trento (pur necessario), ma la fioritura di santità che ci fu prima e dopo quel Concilio.
Pertanto, ben venga un "Anno sacerdotale" a ricordare a noi sacerdoti quali sono i nostri doveri, primo fra tutti la santità. Negli anni dopo il Concilio si è fatto di tutto per distruggere l'immagine del prete; si guardava con sufficienza a tutti i tradizionali strumenti per la sua santificazione (preghiera e studio severo, mortificazione e sacrificio, prudenza e distacco dal mondo, ecc.); si è voluto fare del prete, a seconda dei casi, uno psicologo, un sociologo, un agitatore sociale, un sindacalista, un politico; ed ecco che cosa ci ritroviamo: non possiamo fare altro che raccogliere i cocci di quello che era una volta il prete. Ora ci viene riproposto l'esempio del Santo Curato d'Ars, che spese la sua vita in ginocchio davanti al Santissimo e seduto in confessionale. Saremo capaci di accogliere questo messaggio? Una cosa è certa: se vogliamo che la Chiesa si rinnovi, dobbiamo ripartire di lí.
Non sono nato ieri, per cui non mi scandalizzo piú di tanto della fragilità umana; conoscendo me stesso, e sapendo che ogni giorno ho bisogno della misericordia di Dio, non mi straccio le vesti per le debolezze degli uomini di Chiesa. Non sono neppure un manicheo, che divide l'umanità fra buoni e cattivi, come se ci fossero uomini intrinsecamente perversi che vanno esemplarmente puniti e noi, i giusti, che abbiamo il diritto di giudicarli. Per questo non mi sono mai piaciute le campagne mediatiche contro i preti pedofili; è ovvio che essi vadano messi nella condizione di non nuocere, ma senza mai dimenticare che si tratta, anche nel loro caso, di esseri umani che hanno sbagliato e vanno, per quanto è possibile, recuperati.
Ma in questo caso si rimane male perché non si tratta tanto di "debolezze", di "cadute" isolate (situazioni nella quali tutti, prima o poi, possiamo trovarci); si tratta di "sistemi": sembra quasi che fosse normale avere certi comportamenti riprovevoli. Personalmente, ho sempre distinto fra moralità e correttezza. Sul piano morale, tutti possiamo sbagliare: è una questione personale che va affrontata e risolta fra noi e Dio (semmai con la mediazione del confessore). Ma, nello svolgimento delle nostre funzioni, dobbiamo cercare di essere sempre estremamente corretti: se sono un educatore, a prescindere dalle mie personali tendenze, non posso abusare delle persone che sono state affidate alle mie cure ("Maxima debetur puero reverentia"!); se sono un amministratore, devo amministare il denaro che mi è stato affidato con estremo rigore. Non si può pretendere da tutti la santità; ma si ha il diritto di aspettarsi da tutti la correttezza.
Ma la conoscenza di certe situazioni mi porta a fare anche un'altra riflessione. Direte che sono un fissato; vado sempre a finire allo stesso punto, ma non so come evitarlo. Lo svelamento di tali a dir poco incresciosi comportamenti smentisce la tesi, cara alla Scuola bolognese, del Concilio Vaticano II come "rottura", come "nuovo inizio" nella storia della Chiesa. Questi fatti dimostrano, purtroppo, che nella Chiesa c'è una avvilente continuità: gli abusi sessuali e gli scandali finanziari c'erano prima del Concilio (e ciò dimostra che la Chiesa aveva effettivo bisogno di riforma), e continuano a esserci dopo il Concilio (e ciò dimostra che il Concilio ha fallito nei suoi piani di riforma). Qui abbiamo tutti torto: hanno torto i tradizionalisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa, prima del Vaticano II, tutto andasse bene; hanno torto i progressisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa post-conciliare certe cose non possano piú avvenire. È stata una grande illusione pensare che potesse bastare convocare un concilio per rinnovare la Chiesa. Ci sono state, è vero, tante riforme esteriori, ma il nostro cuore, segnato dal peccato, è rimasto lo stesso.
Che fare? I tradizionalisti ci diranno: "Aboliamo il Concilio! Torniamo alla tradizione!", come se questa, da sé sola, fosse la panacea per tutti i mali della Chiesa, come se tra gli amanti della tradizione non esistesse il peccato originale. I progressiti ci diranno: "Queste cose ancora succedono perché il Concilio non è stato ancora pienamente applicato; specialmente a Roma, esso ha incontrato e continua a incontrare forti resistenze. Se si seguisse veramente lo spirito del Concilio, queste cose non accadrebbero". Illusi gli uni e gli altri. Non si rendono conto che la situazione potrà cambiare solo quando la smetteremo di preoccuparci dell'esteriorità, delle riforme strutturali, e incominceremo a preoccuparci del rinnovamento interiore. Nel Cinquecento ciò che rinnovò la Chiesa non fu tanto il Concilio di Trento (pur necessario), ma la fioritura di santità che ci fu prima e dopo quel Concilio.
Pertanto, ben venga un "Anno sacerdotale" a ricordare a noi sacerdoti quali sono i nostri doveri, primo fra tutti la santità. Negli anni dopo il Concilio si è fatto di tutto per distruggere l'immagine del prete; si guardava con sufficienza a tutti i tradizionali strumenti per la sua santificazione (preghiera e studio severo, mortificazione e sacrificio, prudenza e distacco dal mondo, ecc.); si è voluto fare del prete, a seconda dei casi, uno psicologo, un sociologo, un agitatore sociale, un sindacalista, un politico; ed ecco che cosa ci ritroviamo: non possiamo fare altro che raccogliere i cocci di quello che era una volta il prete. Ora ci viene riproposto l'esempio del Santo Curato d'Ars, che spese la sua vita in ginocchio davanti al Santissimo e seduto in confessionale. Saremo capaci di accogliere questo messaggio? Una cosa è certa: se vogliamo che la Chiesa si rinnovi, dobbiamo ripartire di lí.