Un confratello, dopo aver letto il mio post di ieri, mi scrive:
«Quanto ad Alessandro VI, un riconoscimento indiretto della sua opera di mediazione politica, l'avevo già letto in Carl Schmitt, Il Nomos della Terra (Adelphi, 1991), quando lo studioso di diritto internazionale riserva ad Alessandro VI la prerogativa di aver stabilito la prima "linea" globale di divisione e ripartizione della terra, all'epoca dei grandi viaggi e scoperte geografiche, per comporre pacificamente le vertenze tra gli Stati conquistatori (Spagna e Portogallo). Si tratta della bolla Inter caetera (4 maggio 1493), con la quale si determinò il destino dell'America Latina e la diffusione della lingua e della cultura (spagnola/portoghese) che durano fino ad oggi... (cf op. cit., p. 85 ss).
D'altronde la capacità politica di questi Papi era a quell'epoca universalmente riconosciuta, al di là del giudizio severo sulla loro condotta personale.
Oggi, purtroppo, con i giudizi morali sulla Chiesa e sul clero, si incerotta la bocca della Chiesa e la sua valenza politica è incomparabilmente meno efficace».
Solitamente nei manuali scolastici si fa riferimento al "Trattato di Tordesillas" del 1494, che in qualche modo superò la bolla Inter caetera, che comunque rimane uno dei grandi successi diplomatici di Papa Borgia. Ma, a prescindere dal caso specifico, il mio confratello pone un problema piú generale, sul quale forse faremmo bene a riflettere, il problema della coerenza morale del cristiano — e, in generale, della Chiesa — con il credo che professa. Oggi siamo molto sensibili a tale aspetto. E giustamente. Ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che il confine fra la legittima (e doverosa) tensione verso la santità e il moralismo è alquanto tenue. E se la prima è una esigenza evangelica, il secondo non ha nulla di evangelico: il moralismo non è assolutamente un atteggiamento cattolico (non a caso lo troviamo molto diffuso nel protestantesimo). Il moralismo, come tutti gli "ismi", è la degenerazione della moralità (vi ricordate il paragone del Card. Biffi con i polmoni e la polmonite per spiegare la differenza fra ragione e razionalismo?). Che esista una dimensione morale del cristianesimo, non ci piove; che il cristiano non possa limitarsi a credere e a "celebrare" (come oggi si usa dire) la sua fede, ma debba anche sforzarsi di viverla, è pacifico; che esistano dei precetti a cui il cristiano deve conformare il proprio comportamento, non può in alcun modo essere messo in dubbio; ma tutto ciò non significa che, se non c'è tale coerenza tra fede e vita, la fede stessa perde il suo valore e la Chiesa perde la sua credibilità. L'incoerenza dei cristiani non inficia in alcun modo la verità del messaggio di cui la Chiesa è portatrice.
Vorrei qui, tanto per avere qualche punto di riferimento sicuro, citare un paio di numeri del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica:
«357. Come la vita morale cristiana è legata alla fede e ai Sacramenti?
Ciò che il Simbolo della fede professa, i Sacramenti lo comunicano. Infatti, con essi i fedeli ricevono la grazia di Cristo e i doni dello Spirito Santo, che li rendono capaci di vivere la nuova vita di figli di Dio nel Cristo accolto con la fede».
«433. Perché la vita morale dei cristiani è indispensabile per l'annunzio del Vangelo?
Perché con la loro vita conforme al Signore Gesù i cristiani attirano gli uomini alla fede nel vero Dio, edificano la Chiesa, informano il mondo con lo spirito del Vangelo e affrettano la venuta del Regno di Dio».
Su questo siamo tutti d'accordo. Il problema nasce quando si esagera: l'eccessiva insistenza sulla coerenza tra fede e vita, al di là dell'apparente pietà che sembrerebbe ispirarla, tradisce una mentalità opposta al Vangelo. Si tratta, praticamente della mentalità legalistica, propria degli scribi e dei farisei (e, successivamente, dei giudaizzanti), i quali pensavano di poter essere giustificati in base alle opere della legge: non è Dio che mi salva con la sua grazia, ma sono io che mi salvo per i miei meriti. È questa la mentalità contro cui si sono scagliati prima Gesú e poi Paolo. In tale mentalità legalistica il ruolo di Gesú Cristo è ridotto a quello di un maestro di principi morali e di un modello da imitare; non c'è alcun bisogno di lui come salvatore e redentore.
Noi sappiamo invece che siamo dei poveri peccatori; che il peccato ci contrassegna fin dal seno materno; che da soli non possiamo fare nulla; che abbiamo bisogno della grazia per poter essere salvati; che, anche dopo essere stati giustificati dalla grazia battesimale, continuiamo a peccare e dobbiamo perciò sempre ricorrere alla misericordia di Dio. E sappiamo pure che tutto ciò, nonché sminuire la potenza di Dio, la esalta: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12:9).
Noi oggi ci scandalizziamo tanto della Chiesa del passato (a parte il fatto che non mi pare proprio che abbiamo le carte pienamente in regola per farlo...): Papi che avevano figli; Cardinali la cui unica preoccupazione era la vita di mondo; Vescovi che erano piú signori temporali che pastori; preti ignoranti e corrotti... Tutto vero. Eppure la Chiesa ha svolto ugualmente la sua missione. Qualcuno dirà: "Nonostante i suoi ministri". Certo, ma forse dovremmo aggiungere anche: "Attraverso quei ministri imperfetti".
Il mio confratello termina con un riferimento alla Chiesa attuale: nonostante la sua purificazione (a dire il vero, piuttosto parziale, visto come stanno andando le cose...), essa ha perso buona parte del suo peso nel mondo d'oggi. Si dirà: meglio cosí; non è questo il compito della Chiesa; la Chiesa non deve avere una "valenza politica"; la sua missione è puramente spirituale: essa deve limitarsi ad annunciare il Vangelo e farsi anticipazione profetica del Regno di Dio. Mah, avrei qualche dubbio. Come al solito, a forza di spiritualizzare, abbiamo finito per togliere alla Chiesa qualsiasi consistenza; l'abbiamo ridotta a una delle tante sette spiritualistiche che pullulano nel mondo d'oggi e che fanno tanto comodo al potere che ha in mano i destini dell'umanità. Forse non sarebbe male che la Chiesa, pienamente consapevole della propria povertà morale, ma infischiandosene delle prediche moralistiche, perché portatrice di un potere superiore, ricominciasse a svolgere il ruolo che, per vocazione, le compete.
«Quanto ad Alessandro VI, un riconoscimento indiretto della sua opera di mediazione politica, l'avevo già letto in Carl Schmitt, Il Nomos della Terra (Adelphi, 1991), quando lo studioso di diritto internazionale riserva ad Alessandro VI la prerogativa di aver stabilito la prima "linea" globale di divisione e ripartizione della terra, all'epoca dei grandi viaggi e scoperte geografiche, per comporre pacificamente le vertenze tra gli Stati conquistatori (Spagna e Portogallo). Si tratta della bolla Inter caetera (4 maggio 1493), con la quale si determinò il destino dell'America Latina e la diffusione della lingua e della cultura (spagnola/portoghese) che durano fino ad oggi... (cf op. cit., p. 85 ss).
D'altronde la capacità politica di questi Papi era a quell'epoca universalmente riconosciuta, al di là del giudizio severo sulla loro condotta personale.
Oggi, purtroppo, con i giudizi morali sulla Chiesa e sul clero, si incerotta la bocca della Chiesa e la sua valenza politica è incomparabilmente meno efficace».
Solitamente nei manuali scolastici si fa riferimento al "Trattato di Tordesillas" del 1494, che in qualche modo superò la bolla Inter caetera, che comunque rimane uno dei grandi successi diplomatici di Papa Borgia. Ma, a prescindere dal caso specifico, il mio confratello pone un problema piú generale, sul quale forse faremmo bene a riflettere, il problema della coerenza morale del cristiano — e, in generale, della Chiesa — con il credo che professa. Oggi siamo molto sensibili a tale aspetto. E giustamente. Ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che il confine fra la legittima (e doverosa) tensione verso la santità e il moralismo è alquanto tenue. E se la prima è una esigenza evangelica, il secondo non ha nulla di evangelico: il moralismo non è assolutamente un atteggiamento cattolico (non a caso lo troviamo molto diffuso nel protestantesimo). Il moralismo, come tutti gli "ismi", è la degenerazione della moralità (vi ricordate il paragone del Card. Biffi con i polmoni e la polmonite per spiegare la differenza fra ragione e razionalismo?). Che esista una dimensione morale del cristianesimo, non ci piove; che il cristiano non possa limitarsi a credere e a "celebrare" (come oggi si usa dire) la sua fede, ma debba anche sforzarsi di viverla, è pacifico; che esistano dei precetti a cui il cristiano deve conformare il proprio comportamento, non può in alcun modo essere messo in dubbio; ma tutto ciò non significa che, se non c'è tale coerenza tra fede e vita, la fede stessa perde il suo valore e la Chiesa perde la sua credibilità. L'incoerenza dei cristiani non inficia in alcun modo la verità del messaggio di cui la Chiesa è portatrice.
Vorrei qui, tanto per avere qualche punto di riferimento sicuro, citare un paio di numeri del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica:
«357. Come la vita morale cristiana è legata alla fede e ai Sacramenti?
Ciò che il Simbolo della fede professa, i Sacramenti lo comunicano. Infatti, con essi i fedeli ricevono la grazia di Cristo e i doni dello Spirito Santo, che li rendono capaci di vivere la nuova vita di figli di Dio nel Cristo accolto con la fede».
«433. Perché la vita morale dei cristiani è indispensabile per l'annunzio del Vangelo?
Perché con la loro vita conforme al Signore Gesù i cristiani attirano gli uomini alla fede nel vero Dio, edificano la Chiesa, informano il mondo con lo spirito del Vangelo e affrettano la venuta del Regno di Dio».
Su questo siamo tutti d'accordo. Il problema nasce quando si esagera: l'eccessiva insistenza sulla coerenza tra fede e vita, al di là dell'apparente pietà che sembrerebbe ispirarla, tradisce una mentalità opposta al Vangelo. Si tratta, praticamente della mentalità legalistica, propria degli scribi e dei farisei (e, successivamente, dei giudaizzanti), i quali pensavano di poter essere giustificati in base alle opere della legge: non è Dio che mi salva con la sua grazia, ma sono io che mi salvo per i miei meriti. È questa la mentalità contro cui si sono scagliati prima Gesú e poi Paolo. In tale mentalità legalistica il ruolo di Gesú Cristo è ridotto a quello di un maestro di principi morali e di un modello da imitare; non c'è alcun bisogno di lui come salvatore e redentore.
Noi sappiamo invece che siamo dei poveri peccatori; che il peccato ci contrassegna fin dal seno materno; che da soli non possiamo fare nulla; che abbiamo bisogno della grazia per poter essere salvati; che, anche dopo essere stati giustificati dalla grazia battesimale, continuiamo a peccare e dobbiamo perciò sempre ricorrere alla misericordia di Dio. E sappiamo pure che tutto ciò, nonché sminuire la potenza di Dio, la esalta: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12:9).
Noi oggi ci scandalizziamo tanto della Chiesa del passato (a parte il fatto che non mi pare proprio che abbiamo le carte pienamente in regola per farlo...): Papi che avevano figli; Cardinali la cui unica preoccupazione era la vita di mondo; Vescovi che erano piú signori temporali che pastori; preti ignoranti e corrotti... Tutto vero. Eppure la Chiesa ha svolto ugualmente la sua missione. Qualcuno dirà: "Nonostante i suoi ministri". Certo, ma forse dovremmo aggiungere anche: "Attraverso quei ministri imperfetti".
Il mio confratello termina con un riferimento alla Chiesa attuale: nonostante la sua purificazione (a dire il vero, piuttosto parziale, visto come stanno andando le cose...), essa ha perso buona parte del suo peso nel mondo d'oggi. Si dirà: meglio cosí; non è questo il compito della Chiesa; la Chiesa non deve avere una "valenza politica"; la sua missione è puramente spirituale: essa deve limitarsi ad annunciare il Vangelo e farsi anticipazione profetica del Regno di Dio. Mah, avrei qualche dubbio. Come al solito, a forza di spiritualizzare, abbiamo finito per togliere alla Chiesa qualsiasi consistenza; l'abbiamo ridotta a una delle tante sette spiritualistiche che pullulano nel mondo d'oggi e che fanno tanto comodo al potere che ha in mano i destini dell'umanità. Forse non sarebbe male che la Chiesa, pienamente consapevole della propria povertà morale, ma infischiandosene delle prediche moralistiche, perché portatrice di un potere superiore, ricominciasse a svolgere il ruolo che, per vocazione, le compete.