Una bella enciclica, in linea con le tante che l'hanno preceduta, a partire dalla Rerum novarum. Non ho né il titolo né la possibilità di farne un'analisi completa e approfondita, anche perché in questi giorni siamo subissati dai commenti di analisti ben piú autorevoli e capaci del sottoscritto. Vorrei solo rendervi partecipi di qualche impressione "a caldo", suggerita dalla lettura della Caritas in veritate.
Innanzi tutto, devo dire che mi ero scordato che tale enciclica avrebbe dovuto celebrare il 40° anniversario della Populorum progressio di Paolo VI (1967). Sarebbe dovuta uscire perciò due anni fa, ma, per i motivi che sappiamo, non ha potuto vedere la luce se non quest'anno. Questo provoca, lí per lí, un certo disorientamento, perché non si capisce il motivo di commemorare un'enciclica nel 42° anniversario della sua pubblicazione; ma poi il disorientamento viene ben presto rimpiazzato dall'interesse per i contenuti.
La prima impressione riguarda proprio la Populorum progressio, la quale, riletta dopo quarant'anni, appare piú che mai attuale: non è il solito luogo comune definirla una "voce profetica". Ormai conoscete la mia ammirazione per Paolo VI: ebbene, leggendo la Caritas in veritate, ho provato una intima commozione. Se ricordate, nel mio precedente post facevo un veloce riferimento alla Populorum progressio. Che cosa ne ricordavo? La possibilità, ammessa da quell'enciclica, del ricorso, in certi casi, alla rivoluzione; del resto avevo praticamente dimenticato tutto. Ora, a rileggere quel testo in compagnia di Benedetto XVI, potete immaginare che cosa ho provato: la figura di quel Papa, incompreso da molti, diventa ai miei occhi piú grande che mai.
La seconda impressione riguarda la situazione attuale. Leggendo la Caritas in veritate, ci si accorge di quanto sia cambiato il mondo in questi anni. Tale mutamento è stato graduale e, insieme con il mondo, siamo cambiati anche noi; finora forse non ci eravamo mai fermati un attimo a fare un bilancio. Questa enciclica, che fa un'analisi abbastanza accurata della realtà, ci aiuta a capire che il mondo d'oggi è profondamente diverso da quello di solo quarant'anni fa.
Ci accorgiamo anche di quanto l'attuale situzione sia fluida: il mondo non solo è cambiato, ma continua a cambiare. Il Papa fa esplicito riferimento alla crisi che stiamo attraversando. Per cui viene spontaneo chiedersi se fosse il caso di scrivere un'enciclica in un momento di passaggio come questo. Fra qualche anno tutto potrebbe essere diverso da oggi. Certamente Benedetto XVI e i suoi collaboratori hanno preso in considerazione tale obiezione, tanto è vero che la pubblicazione è ritardata due anni; ma poi probabilmente hanno accettato di correre il rischio di vedersi presto superati dagli eventi, pur di dire una parola chiarificatrice proprio su questa fase di passaggio. In fondo, se consideriamo le precedenti encicliche sociali, ci accorgeremo che anch'esse furono scritte in momenti critici; eppure, esse rimangono per noi delle pietre miliari, che, oltre a essere una testimonianza sull'epoca in cui videro la luce, costituiscono un punto di riferimento anche per i nostri giorni.
Un altro aspetto che colpisce è la complessità del momento storico che stiamo vivendo. In fondo, Leone XIII aveva a che fare con la "questione operaia", un problema certo notevole, ma abbastanza circoscritto. Guardate invece quanti aspetti, apparentemente cosí diversi tra loro, sono trattati nella Caritas in veritate: oltre allo sviluppo (che funge da filo conduttore dell'intera enciclica), la globalizzazione; la fame; il rispetto per la vita; la libertà religiosa; l'accesso al lavoro; l'economia e la finanza; il mercato, lo Stato e la società civile; la speculazione e la delocalizzazione; diritti e doveri; la crescita demografica e la denatalità; la cooperazione internazionale; il rispetto per l'ambiente e le problematiche energetiche; i principi di sussidiarietà e di solidarietà; l'educazione; il turismo e le migrazioni; la disoccupazione e le organizzazioni sindacali; le associazioni dei consumatori; le organizzazioni internazionali e un'autorità politica mondiale; la tecnologia e i mezzi di comunicazione sociale; la bioetica. Come si può vedere, ce n'è per tutti i gusti. E, per ogni punto, una parola chiarificatrice, che ci aiuta a esprimere un giudizio morale (semmai, si potrebbe notare che manca all'enciclica una certa organicità: si vede immediatamente che essa è frutto di piú mani; ma probabilmente non si poteva fare altrimenti).
Chiaramente, non tutti i punti sono sviluppati allo stesso modo: si va da alcuni passaggi a dir poco sublimi (per esempio, la riflessione su diritti e doveri o quella sulla questione demografica; interessantissima l'applicazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà alla globalizzazione!) ad altri che mi paiono un po' piú deboli (per esempio, la trattazione sulla libertà religiosa e, soprattutto, l'analisi di fenomeni come la globalizzazione, la delocalizzazione e le migrazioni).
L'enciclica non si fa scrupolo di denunciare abusi diffusi nel mondo d'oggi, soprattutto con riferimento al rispetto della vita (per esempio, le politiche di governi e organizzazioni internazionali a favore di contraccezione e aborto); ma poi non sempre se la sente di andare fino in fondo in tale denuncia (per esempio, quando si parla dell'accaparramento delle risorse energetiche, si parla, sí, di "sfruttamento e frequenti conflitti fra le Nazioni e al loro interno", ma forse non avrebbe fatto male a essere un tantino piú esplicita per quanti, vittime della disinformazione, non immaginano neppure che dietro certe guerre per la democrazia si nascondano interessi di tutt'altro genere).
E qui mi pare che si ponga un grosso problema: non sarebbe stato opportuno che il Papa prendesse una posizione netta non solo sui fenomeni, che sono sotto gli occhi di tutti, ma anche sulle cause, spesso occulte, che li provocano? Capisco che la Chiesa non possa iscriversi alla confraternita dei complottisti; ma è la stessa enciclica ad affermare: "Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana" (n. 42). Dunque, certi fenomeni hanno delle cause umane ben precise. È vero che si tratta di forze spesso "anonime" (e che tali vorrebbero rimanere), ma proprio per questo sarebbe necessario che qualcuno facesse nome e cognome. Perché non parlare esplicitamente dei "poteri forti", che hanno in mano le sorti dell'umanità: la massoneria, le grandi banche, i petrolieri, l'industria bellica, la lobby ebraica, ecc.? Perché fingere che queste realtà non esistano, quando tutti sappiamo che sono esattamente questi gruppi a decidere ogni cosa? Nell'enciclica si parla spesso di autorità politica e di Stato, come se vivessimo al tempo di Leone XIII. Ma non ci si rende conto che ormai tali realtà si sono svuotate di gran parte del loro significato? Accolgo volentieri l'invito dell'enciclica: "Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze" (n. 41). Però intanto dobbiamo prendere atto che i poteri effettivi degli Stati si sono notevolmente ridotti. In passato i Papi non temevano di denunciare le ideologie e i poteri che minacciavano l'umanità del loro tempo; perché oggi siamo diventati cosí timidi?
È forse giunto il tempo, per la Chiesa, di assumere un ruolo piú attivo in campo sociale, economico e politico. Non mi sembra piú sufficiente limitarsi a proporre alcuni valori morali; tanto, sappiamo quanto gliene importi a lorsignori dei nostri valori morali. Al n. 67 l'enciclica riprende l'auspicio di Giovanni XXIII a proposito di un'Autorità politica mondiale. Non ci si accorge che tale autorità già esiste? Non si tratta di un'autorità politica, ma di un'autorità di fatto molto piú potente di qualsiasi autorità politica. Ora tale potere sta cercando di trasformarsi anche in autorità politica sovrannazionale per l'Europa (vedi, prima, la Costituzione europea e, ora, il Trattato di Lisbona) o per il mondo intero (attraverso i vari Bildergerb e G8). Bisognerebbe che qualcuno denunciasse e ostacolasse tali tentativi di controllo dell'umanità. Chi dovrebbe farlo: i movimenti no-global?
La Chiesa, nel corso della storia, è stato un soggetto politico di primaria importanza, non tanto perché esercitasse un potere temporale in prima persona (questo le serviva solo per poter godere di una certa autonomia), ma perché delegava ad altri l'esercizio del potere politico (si pensi alla teoria delle due spade di Bonifacio VIII). Forse è giunto il momento per la Chiesa di rimboccarsi le maniche e, se necessario, di sporcarsi le mani, perché, ora come ora, non c'è nessun altro a cui stiano veramente a cuore le sorti dell'umanità.
Innanzi tutto, devo dire che mi ero scordato che tale enciclica avrebbe dovuto celebrare il 40° anniversario della Populorum progressio di Paolo VI (1967). Sarebbe dovuta uscire perciò due anni fa, ma, per i motivi che sappiamo, non ha potuto vedere la luce se non quest'anno. Questo provoca, lí per lí, un certo disorientamento, perché non si capisce il motivo di commemorare un'enciclica nel 42° anniversario della sua pubblicazione; ma poi il disorientamento viene ben presto rimpiazzato dall'interesse per i contenuti.
La prima impressione riguarda proprio la Populorum progressio, la quale, riletta dopo quarant'anni, appare piú che mai attuale: non è il solito luogo comune definirla una "voce profetica". Ormai conoscete la mia ammirazione per Paolo VI: ebbene, leggendo la Caritas in veritate, ho provato una intima commozione. Se ricordate, nel mio precedente post facevo un veloce riferimento alla Populorum progressio. Che cosa ne ricordavo? La possibilità, ammessa da quell'enciclica, del ricorso, in certi casi, alla rivoluzione; del resto avevo praticamente dimenticato tutto. Ora, a rileggere quel testo in compagnia di Benedetto XVI, potete immaginare che cosa ho provato: la figura di quel Papa, incompreso da molti, diventa ai miei occhi piú grande che mai.
La seconda impressione riguarda la situazione attuale. Leggendo la Caritas in veritate, ci si accorge di quanto sia cambiato il mondo in questi anni. Tale mutamento è stato graduale e, insieme con il mondo, siamo cambiati anche noi; finora forse non ci eravamo mai fermati un attimo a fare un bilancio. Questa enciclica, che fa un'analisi abbastanza accurata della realtà, ci aiuta a capire che il mondo d'oggi è profondamente diverso da quello di solo quarant'anni fa.
Ci accorgiamo anche di quanto l'attuale situzione sia fluida: il mondo non solo è cambiato, ma continua a cambiare. Il Papa fa esplicito riferimento alla crisi che stiamo attraversando. Per cui viene spontaneo chiedersi se fosse il caso di scrivere un'enciclica in un momento di passaggio come questo. Fra qualche anno tutto potrebbe essere diverso da oggi. Certamente Benedetto XVI e i suoi collaboratori hanno preso in considerazione tale obiezione, tanto è vero che la pubblicazione è ritardata due anni; ma poi probabilmente hanno accettato di correre il rischio di vedersi presto superati dagli eventi, pur di dire una parola chiarificatrice proprio su questa fase di passaggio. In fondo, se consideriamo le precedenti encicliche sociali, ci accorgeremo che anch'esse furono scritte in momenti critici; eppure, esse rimangono per noi delle pietre miliari, che, oltre a essere una testimonianza sull'epoca in cui videro la luce, costituiscono un punto di riferimento anche per i nostri giorni.
Un altro aspetto che colpisce è la complessità del momento storico che stiamo vivendo. In fondo, Leone XIII aveva a che fare con la "questione operaia", un problema certo notevole, ma abbastanza circoscritto. Guardate invece quanti aspetti, apparentemente cosí diversi tra loro, sono trattati nella Caritas in veritate: oltre allo sviluppo (che funge da filo conduttore dell'intera enciclica), la globalizzazione; la fame; il rispetto per la vita; la libertà religiosa; l'accesso al lavoro; l'economia e la finanza; il mercato, lo Stato e la società civile; la speculazione e la delocalizzazione; diritti e doveri; la crescita demografica e la denatalità; la cooperazione internazionale; il rispetto per l'ambiente e le problematiche energetiche; i principi di sussidiarietà e di solidarietà; l'educazione; il turismo e le migrazioni; la disoccupazione e le organizzazioni sindacali; le associazioni dei consumatori; le organizzazioni internazionali e un'autorità politica mondiale; la tecnologia e i mezzi di comunicazione sociale; la bioetica. Come si può vedere, ce n'è per tutti i gusti. E, per ogni punto, una parola chiarificatrice, che ci aiuta a esprimere un giudizio morale (semmai, si potrebbe notare che manca all'enciclica una certa organicità: si vede immediatamente che essa è frutto di piú mani; ma probabilmente non si poteva fare altrimenti).
Chiaramente, non tutti i punti sono sviluppati allo stesso modo: si va da alcuni passaggi a dir poco sublimi (per esempio, la riflessione su diritti e doveri o quella sulla questione demografica; interessantissima l'applicazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà alla globalizzazione!) ad altri che mi paiono un po' piú deboli (per esempio, la trattazione sulla libertà religiosa e, soprattutto, l'analisi di fenomeni come la globalizzazione, la delocalizzazione e le migrazioni).
L'enciclica non si fa scrupolo di denunciare abusi diffusi nel mondo d'oggi, soprattutto con riferimento al rispetto della vita (per esempio, le politiche di governi e organizzazioni internazionali a favore di contraccezione e aborto); ma poi non sempre se la sente di andare fino in fondo in tale denuncia (per esempio, quando si parla dell'accaparramento delle risorse energetiche, si parla, sí, di "sfruttamento e frequenti conflitti fra le Nazioni e al loro interno", ma forse non avrebbe fatto male a essere un tantino piú esplicita per quanti, vittime della disinformazione, non immaginano neppure che dietro certe guerre per la democrazia si nascondano interessi di tutt'altro genere).
E qui mi pare che si ponga un grosso problema: non sarebbe stato opportuno che il Papa prendesse una posizione netta non solo sui fenomeni, che sono sotto gli occhi di tutti, ma anche sulle cause, spesso occulte, che li provocano? Capisco che la Chiesa non possa iscriversi alla confraternita dei complottisti; ma è la stessa enciclica ad affermare: "Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana" (n. 42). Dunque, certi fenomeni hanno delle cause umane ben precise. È vero che si tratta di forze spesso "anonime" (e che tali vorrebbero rimanere), ma proprio per questo sarebbe necessario che qualcuno facesse nome e cognome. Perché non parlare esplicitamente dei "poteri forti", che hanno in mano le sorti dell'umanità: la massoneria, le grandi banche, i petrolieri, l'industria bellica, la lobby ebraica, ecc.? Perché fingere che queste realtà non esistano, quando tutti sappiamo che sono esattamente questi gruppi a decidere ogni cosa? Nell'enciclica si parla spesso di autorità politica e di Stato, come se vivessimo al tempo di Leone XIII. Ma non ci si rende conto che ormai tali realtà si sono svuotate di gran parte del loro significato? Accolgo volentieri l'invito dell'enciclica: "Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze" (n. 41). Però intanto dobbiamo prendere atto che i poteri effettivi degli Stati si sono notevolmente ridotti. In passato i Papi non temevano di denunciare le ideologie e i poteri che minacciavano l'umanità del loro tempo; perché oggi siamo diventati cosí timidi?
È forse giunto il tempo, per la Chiesa, di assumere un ruolo piú attivo in campo sociale, economico e politico. Non mi sembra piú sufficiente limitarsi a proporre alcuni valori morali; tanto, sappiamo quanto gliene importi a lorsignori dei nostri valori morali. Al n. 67 l'enciclica riprende l'auspicio di Giovanni XXIII a proposito di un'Autorità politica mondiale. Non ci si accorge che tale autorità già esiste? Non si tratta di un'autorità politica, ma di un'autorità di fatto molto piú potente di qualsiasi autorità politica. Ora tale potere sta cercando di trasformarsi anche in autorità politica sovrannazionale per l'Europa (vedi, prima, la Costituzione europea e, ora, il Trattato di Lisbona) o per il mondo intero (attraverso i vari Bildergerb e G8). Bisognerebbe che qualcuno denunciasse e ostacolasse tali tentativi di controllo dell'umanità. Chi dovrebbe farlo: i movimenti no-global?
La Chiesa, nel corso della storia, è stato un soggetto politico di primaria importanza, non tanto perché esercitasse un potere temporale in prima persona (questo le serviva solo per poter godere di una certa autonomia), ma perché delegava ad altri l'esercizio del potere politico (si pensi alla teoria delle due spade di Bonifacio VIII). Forse è giunto il momento per la Chiesa di rimboccarsi le maniche e, se necessario, di sporcarsi le mani, perché, ora come ora, non c'è nessun altro a cui stiano veramente a cuore le sorti dell'umanità.