Finalmente è giunta, dalla 62ª Assemblea generale della CEI che si è svolta nei giorni scorsi ad Assisi, la risposta alla domanda che ci eravamo posta piú volte: a che punto siamo con la traduzione italiana della terza edizione del Missale Romanum? I Vescovi, nel corso della loro riunione, hanno approvato una parte del materiale (il resto verrà esaminato nella prossima assemblea del maggio 2011). Mercoledí scorso Mons. Alceste Catella, presidente della Commissione episcopale per la liturgia, ha tenuto sulla questione una conferenza stampa, di cui ha riferito Avvenire (si veda, nell’archivio storico, il numero di giovedí 11 novembre 2010, a p. 23).
Naturalmente, la notizia non può che farmi piacere: finalmente, dopo otto anni, qualcosa comincia a muoversi. Mi dispiace però che la cosa, come al solito, venga banalizzata. Leggetevi il resoconto di Avvenire. Che cosa si dice? Praticamente si dice: state tranquilli, non cambierà nulla (casomai ci fosse qualcuno che tema una qualche forma di restaurazione); al massimo “potrebbero” cambiare il Gloria (dove si potrebbe dire in futuro: «e pace in terra agli uomini che egli ama») e il Padre nostro (dove c’è la possibilità che si dica: «non abbandonarci alla tentazione»), per uniformarsi alla nuova traduzione della Bibbia.
Spero che Mons. Catella non si sia limitato a dire simili banalità (anche se capisco che bisogna in qualche modo adeguarsi agli standard sempre riduttivi dell’informazione). Spero che abbia illustrato l’importanza di questa nuova edizione del Messale in ordine a una celebrazione qualitativamente migliore della liturgia. In ogni caso, pur rimanendo nell’ambito degli esempi portati, avrei qualche dubbio che la Santa Sede possa acconsentire a certe modifiche (sebbene si debba riconoscere che la CEI ha sempre goduto, presso i dicasteri vaticani, di una “corsia preferenziale”, che le ha permesso di far approvare anche cose alquanto discutibili). Perché nutro dei dubbi? Perché, considerando la nuova edizione inglese del Messale, vedo che non si è affatto andati nella direzione auspicata da Mons. Catella (e, ritengo, dalla maggioranza dell’Episcopato italiano).
Nel Gloria la vecchia versione inglese diceva: «Glory to God in the highest, and peace to his people on earth» (dove gli “uomini di buona volontà” erano semplicemente diventati il “suo popolo”). Ci si sarebbe potuti aspettare che nella nuova traduzione adottassero l’espressione usata della New American Bible (ufficiale per l’uso liturgico negli Stati Uniti): «… and on earth peace to those on whom his favor rests»; oppure quella usata nella Jerusalem Bible (adottata in Gran Bretagna): «… and peace to men who enjoy his favor»; o quella della Revised Standard Version (utilizzata in altri paesi di lingua inglese): «… and on earth peace among men with whom he is pleased». E invece, come ti vanno a tradurre la frase iniziale del Gloria? «Glory to God in the highest, and on earth peace to people of good will». Ovviamente non hanno usato la parola “men” (diventata ormai impronunciabile nel mondo anglosassone, a causa del cosiddetto linguaggio inclusivo), ma “bonae voluntatis” l’hanno tradotto, letteralmente, “of good will”. Oibò, stai a vedere che i traduttori dell’ICEL (International Commettee on English in the Liturgy) non sono abbastanza aggiornati sulle ultime scoperte della scienza esegetica. O non sarà piuttosto che i nostri liturgisti non si siano resi conto che il Gloria non è una pagina del Vangelo, ma un inno liturgico, che, pur ispirandosi al Vangelo, vive ormai da qualche secolo di vita propria? I nostri liturgisti sembrerebbero non essersi avveduti che il Gloria è stato sempre diverso anche dalla Volgata («Gloria in altissimis Deo…»), e che, nella riforma liturgica, nessuno ha pensato di adeguarlo alla Neovolgata («Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis»).
Quanto al Padre nostro, nella nuova traduzione inglese del Messale avrebbero potuto adottare la versione cosiddetta “ecumenica”, che pure viene attualmente utilizzata in alcuni paesi. In tale versione (nella quale ci si rivolge a Dio col moderno “you”, anziché con l’arcaico “thou”) «et ne nos inducas in tentationem» viene reso, piú modernamente, con «do not bring us to the test». E invece, anche in questo caso, si è preferito conservare la formula tradizionale «and lead us not into temptation» (anzi, a quanto ne so, d’ora in poi ci si dovrà conformare ovunque a tale formula).
L’articolo di Avvenire si apre con l’affermazione che «non sono previsti cambiamenti per le risposte dei fedeli durante la Messa». Siamo proprio cosí sicuri? Anche in questo caso, un paragone col nuovo Messale inglese potrebbe farci pensare il contrario. Un esempio: la risposta dei fedeli alla comunione era: «Lord, I am not worthy to receive you, but only say the word and I shall be healed». Adesso sarà: «Lord, I am not worthy that you should enter under my roof, but only say the word and my soul shall be healed». Perché dunque l’attuale «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato» non potrebbe trasformarsi in un piú letterale (in tal caso, sí, adottando la traduzione di Mt 8:8): «O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà guarita»? Viene forse usata qualche espressione incomprensibile? Forse che non sia possibile cogliere la metafora del “tetto”? O forse non va piú di moda parlare di “anima”? Tra l’altro, traducendo con “anima”, si eviterebbe alle donne l’imbarazzo di dire “sarò salvato”.
Per fortuna, ci si rende conto che l’ultima parola spetterà alla Santa Sede. Sperando che, nel frattempo, siano state abolite le corsie preferenziali…