Il 10 dicembre 2015 la Commissione per i rapporti religiosi
con l’ebraismo, in occasione del 50° anniversario della dichiarazione
conciliare Nostra ætate (28 ottobre
1965), ha pubblicato il documento “Perché i doni e la chiamata di Dio sono
irrevocabili”. Il documento si presenta come una serie di “riflessioni su
questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche”. Nella
prefazione sono indicati i temi trattati nel documento: «l’importanza della rivelazione, il rapporto
tra l’Antica e la Nuova Alleanza, la relazione tra l’universalità della
salvezza in Gesú Cristo e la convinzione che l’alleanza di Dio con Israele non
è mai stata revocata, ed il compito evangelizzatore della Chiesa in riferimento
all’ebraismo». La medesima prefazione precisa, opportunamente, che «il testo
non è un documento magisteriale o un insegnamento dottrinale della Chiesa
cattolica», ma vuole solo «essere un punto di partenza per un ulteriore
approfondimento teologico, teso ad arricchire e ad intensificare la dimensione teologica
del dialogo ebraico-cattolico». Tale
precisazione è molto importante, perché in genere i media (che per altro hanno
evidenziato del documento quasi esclusivamente l’asserzione, fatta al n. 40,
che «la Chiesa cattolica non
conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli
ebrei»)
non si sono preoccupati di evidenziarla, inducendo cosí l’opinione pubblica a
pensare che si tratti di una presa di posizione ufficiale della Chiesa
cattolica.
Si tratta di un documento fondamentalmente onesto: al n. 39, per
esempio, si riconosce che l’affermazione che «l’alleanza stretta
da Dio con il suo popolo Israele è sempre in vigore e non sarà mai invalidata …
non si trova esplicitamente espressa in Nostra
ætate», ma che è stata espressa per la prima volta da Giovanni Paolo II a
Magonza nel 1980, per essere poi ripresa dal Catechismo della Chiesa cattolica (n. 121). Dobbiamo aggiungere qui
che la medesima affermazione è stata successivamente fatta propria dall’attuale
Pontefice nell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium (n. 247). In tal modo risulta piú facile ricostruire l’evoluzione
di quella che sembrerebbe costituire la tesi centrale del documento.
Il documento riafferma apertamente, a piú
riprese, la fede cattolica nell’unicità della mediazione di Cristo e
nell’esclusione di due vie salvifiche parallele: «Non esistono due strade
diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto “Gli ebrei sono fedeli
alla Torah, i cristiani a Cristo”. La fede cristiana professa che l’opera
salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini» (n. 25); «La
teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica
senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesú
di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana.
Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesú
Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio
uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesú Cristo, si è
manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli, nella misura in cui in
Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli pregheranno il Dio di
Israele come l’unico Dio (cf Is 56:1-8). Nel documento pubblicato nel 1985 dalla
Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede “Circa una
corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella
catechesi della Chiesa cattolica” si afferma dunque che la Chiesa e l’ebraismo
non possono essere presentati come “due vie parallele di salvezza” e che la
Chiesa deve “testimoniare il Cristo Redentore a tutti” (n. I, 7). La fede
cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che
Gesú Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è “altro nome
dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere
salvati” (At 4:12)» (n. 35).
Da tale ineccepibile
riaffermazione della fede cattolica però non viene tratta la naturale
conseguenza, che cioè anche gli ebrei, per salvarsi, devono percorrere l’unica
via di salvezza, che è Cristo. Anzi, si sostiene — difficile afferrare con
quale logica — che «dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non
consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non
credono in Gesú Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio». E, per provare tale sorprendente dichiarazione,
ci si appella a San Paolo, «il quale, nella Lettera ai Romani, esprime
la sua convinzione non soltanto che non può esserci una rottura nella storia
della salvezza, ma anche che la salvezza viene dagli ebrei (cf anche Gv 4:22).
Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo
misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cf 1 Tm 2:4) senza
coinvolgere il suo “figlio primogenito” (Es 4:22). Vediamo dunque chiaramente
che Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata
alla domanda che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo
popolo. In maniera altrettanto decisa afferma: “perché i doni e la chiamata di
Dio sono irrevocabili!” (Rm 11:29)» (n. 36).
Sinceramente, si fa fatica a rintracciare nella
lettera ai Romani il fondamento di tali asserzioni. Si ha l’impressione che si
formuli una tesi a priori, e poi la si attribuisca a Paolo, senza esibirne le
prove. È significativo che nel passo appena riportato, dove si fa riferimento
alla lettera ai Romani, di tale lettera si citi soltanto 11:29. D’altra parte,
anche nel resto del documento i testi della lettera ai Romani che vengono
citati sono limitati: 9:4 («Essi
sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la
legislazione, il culto, le promesse»); 11:1-2 («Io domando dunque: Dio ha forse
ripudiato il suo popolo? Impossibile! … Dio non ha ripudiato il suo popolo, che
egli ha scelto fin da principio»); 11:16-21 (l’apologo dell’oleastro innestato
nell’olivo). Testi bellissimi, sia ben chiaro, ma che non autorizzano a trarre
le conclusioni a cui giunge il documento, a meno che non li si isoli dal
contesto, che viene infatti per lo piú sistematicamente ignorato. Se leggiamo i
capitoli 9-11 nella loro interezza e senza preconcetti ideologici, ci
accorgiamo che Paolo non è affatto tenero con i suoi correligionari; usa
espressioni oggi considerate “politicamente scorrette”: tanto per fare qualche
esempio, «un popolo disobbediente e ribelle!» (10:21; cf 11:31); «sono stati
resi ostinati» (11:7; cf 11:25); «siano accecati i loro occhi» (11:10); «quanto
al vangelo, essi sono nemici» (11:28). Il comportamento degli ebrei viene
definito da Paolo: “caduta” (11:11-12; cf 11:22); “fallimento” (11:12);
“rifiuto” (11:15; non è ben chiaro se il rifiuto vada inteso in senso attivo o
passivo). È evidente che con ciò Paolo non vuole che gli ebrei siano
considerati una massa damnata,
perduta per sempre, senza alcuna possibilità di salvezza.
Il pensiero di Paolo viene bene illustrato dalla metafora
dell’olivo (11:16-24), su cui si sofferma il documento al n. 34 (facendo però
delle riflessioni che non trovano riscontro nel testo paolino e ignorando ciò
che effettivamente dice l’Apostolo). Il ragionamento di Paolo è di una
chiarezza straordinaria: alcuni rami sono stati tagliati, perché altri,
provenienti da un olivo selvatico (“oleastro”) venissero innestati; anche i
rami tagliati potranno essere re-innestati, a patto che non perseverino
nell’incredulità. La condizione degli ebrei non è definitiva: essa è stata
permessa per favorire la conversione dei pagani, ma verrà il giorno (quando
saranno entrate tutte quante le genti) in cui «tutto Israele sarà salvato»
(11:26). Ma ciò non avverrà a prescindere da Cristo, bensí grazie a lui e
attraverso di lui.
La stessa citazione di 11:29 («i doni e la chiamata di Dio
sono irrevocabili!»), ripetuta piú volte dal documento come prova definitiva
del fatto che l’alleanza con Israele non è stata revocata e che quindi gli
ebrei parteciperebbero alla salvezza «senza una
confessione esplicita di Cristo» (n. 36), viene interpretata in maniera
superficiale e riduttiva: fra i doni — “irrevocabili” — concessi da Dio al suo
popolo va certamente annoverata l’alleanza; ma Paolo ai doni aggiunge molto
significativamente anche la “chiamata”. I doni di Dio comportano sempre una
chiamata, una chiamata a cui si deve rispondere; e la risposta alla chiamata di
Dio è la fede. Senza fede — senza la fede in Cristo! — non c’è salvezza. E
questo vale per tutti, pagani ed ebrei.
Se non si segue questa logica, che è la logica
della parola di Dio, si finisce in un groviglio, da cui poi non si sa come
uscire. Sostenere, come fa il documento, che gli ebrei possono salvarsi
indipendentemente da Cristo, è difficilmente conciliabile con la fede cattolica
riaffermata dallo stesso documento, per cui alla fine non resta che rifugiarsi nel mistero: «Il fatto che gli
ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma
come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane
un mistero divino insondabile» (n. 36).
Il documento non si accorge che, ammettendo per
gli ebrei una “corsia preferenziale” verso la salvezza, va contro uno dei
capisaldi della dottrina paolina: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco» (Rm
10:12; cf 1 Cor 12:13; Gal 3: 28; Col 3:11). Di fronte a Dio siamo tutti
uguali, peccatori bisognosi di salvezza: «Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e
sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua
grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesú» (Rm 3:22-24); «Dio ha rinchiusi tutti nella disobbedienza, per essere
misericordioso verso tutti» (Rm 11:32); «La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa
sotto il peccato, perché la promessa venisse data ai credenti mediante la fede
in Gesú Cristo» (Gal 3:22).
Una delle tesi principali del documento è la asserita
“delegittimazione” della cosiddetta “teologia della sostituzione” (altrimenti
detta, con orribile espressione diffusa nel mondo anglosassone,
“supersessionismo”). Dopo aver velocemente descritto, da un punto di vista
storico, l’origine di tale teologia (ne viene onestamente riconosciuta la
derivazione patristica) e il suo successivo sviluppo nel medioevo, il documento
prosegue: «Con la Dichiarazione Nostra
ætate (n. 4), la Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un
nuovo quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo. Mentre mantiene
salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in
Cristo, essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele,
suo popolo eletto. Viene cosí delegittimata la teologia della sostituzione che
vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga
respinta e sostituita da tale Chiesa. Da un rapporto originariamente stretto
tra ebraismo e cristianesimo si era sviluppata una lunga relazione di tensioni
che, dopo il Concilio Vaticano Secondo, è stata gradualmente trasformata in
dialogo costruttivo» (n. 17).
Il documento dimentica di dire che non sono solo
i Santi Padri e i teologi medievali a usare espressioni quali “nuovo Israele” e
“nuovo popolo di Dio” (si spera che non siano anch’esse espressioni da
considerare “delegittimate”!), dal momento che le ritroviamo, tali e quali, in
quello che è il documento piú autorevole del Concilio Vaticano II, la
costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
gentium (n. 10). Anzi, la stessa dichiarazione Nostra ætate — ma questo viene onestamente riportato (n. 23) —
rivendica alla Chiesa il titolo di “nuovo popolo di Dio” (n. 4).
Il successivo n. 18
va citato per intero, per evidenziare il metodo — non del tutto corretto — che
viene usato dal documento per accostarsi alla parola di Dio: «Si è tentato spesso
di individuare il fondamento della teoria della sostituzione nella Lettera agli
Ebrei. Tuttavia, questa epistola non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di
origine ebraica, che iniziavano a sentirsi stanchi ed insicuri. Il suo intento
è di rafforzare la loro fede e di incoraggiarli nella loro perseveranza,
indicando Gesú Cristo come il vero e definitivo sommo sacerdote, il mediatore
della Nuova Alleanza. È questo il contesto che occorre tenere a mente per
comprendere il contrasto, nella Lettera, tra una prima Alleanza, puramente
terrena, ed una seconda Alleanza, nuova (cf Eb 9:15; 12:24) e migliore (cf
8:7). La prima Alleanza è definita antiquata, già invecchiata e prossima a
sparire (cf 8:13), mentre la nuova Alleanza è detta eterna (cf 13:20). Per
giustificare questo contrasto, l’epistola si riferisce alla promessa di una
nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia 31:31-34 (cf Eb 8:8-12). Ciò
mostra che la Lettera agli Ebrei non intende provare la falsità delle promesse
dell’Antica Alleanza, ma, al contrario, la loro fondatezza. Il riferimento alle
promesse veterotestamentarie vuole essere d’aiuto ai cristiani, rendendoli
sicuri della salvezza in Cristo. Il punto cruciale della Lettera agli Ebrei non
è dunque la contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza cosí come la
intendiamo oggi, e neanche il contrasto tra Chiesa ed ebraismo. Piuttosto, la
contrapposizione è tra il sacerdozio eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio
provvisorio terreno. Il tema centrale nella Lettera agli Ebrei, davanti alla
nuova situazione creatasi, è l’interpretazione cristologica della Nuova
Alleanza. E questo è precisamente il motivo per cui Nostra ætate (n. 4) non ha fatto riferimento alla Lettera agli
Ebrei, ma alle riflessioni di San Paolo nella Lettera ai Romani 9-11».
Ancora una volta, si fa fatica a seguire il
ragionamento del documento: si citano i testi che hanno favorito la nascita
della teologia della sostituzione (in particolare, Eb 8:13), ma poi, senza
darne una spiegazione alternativa, si giunge a conclusioni opposte, di cui
risulta difficile cogliere il fondamento. Si fanno tante asserzioni giuste (p.
es., che la lettera non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine
ebraica), ma che non sempre appaiono del tutto pertinenti.
Un’affermazione importante è che al centro della
lettera agli Ebrei c’è “la contrapposizione … tra il sacerdozio eterno celeste
di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno”. Non ci si accorge però dello
stretto rapporto che intercorre nella lettera fra sacerdozio e alleanza: il
sacerdozio di Cristo è, appunto, sacerdozio della Nuova Alleanza: «Egli ha
avuto un ministero tanto piú eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è
mediatore» (8:6).
Ma c’è un altro aspetto che mi sembra centrale
nella lettera agli Ebrei e che solitamente (non solo nel documento, ma anche
nella maggior parte delle edizioni moderne della Bibbia) viene totalmente
ignorato. Si tratta del concetto di translatio
sacerdotii, che potrebbe addirittura costituire la chiave di lettura della
lettera e rappresentare una pista da seguire per una eventuale revisione della
teologia della sostituzione e del rapporto della Chiesa con il popolo
d’Israele. In 7:12 tutte le moderne traduzioni leggono: «Mutato il sacerdozio,
avviene necessariamente anche un mutamento della Legge». Sembrerebbe di capire
che, con Cristo, sia avvenuta soltanto una “trasformazione” del sacerdozio: per
usare le espressioni del nostro documento, da un sacerdozio provvisorio/terreno
si sarebbe passati al sacerdozio eterno/celeste di Cristo. Se però andiamo a
leggere il testo latino (che traduce letteralmente l’originale greco), ci
accorgeremo che il significato è un altro: «Translato
sacerdotio, necesse est, ut et legis translatio fiat». Non si sta parlando
di “mutazione”, ma di “trasferimento”. Il termine greco, a tutti comprensibile,
è μετάθεσις, “metàtesi”, che anche in italiano significa
“trasposizione”. Il sacerdozio, secondo la lettera agli Ebrei, è stato
trasferito. La stessa lettera accenna a un trasferimento di tribú: dalla tribú
di Levi alla tribú di Giuda (7:13-14); ma è facile intuire che il trasferimento
è avvenuto tra Aronne e Cristo, tra Israele e la Chiesa.
Il testo della lettera agli Ebrei sostiene che,
avvenuto il trasferimento del sacerdozio, è necessario un trasferimento della
legge. E infatti, poco piú avanti, si afferma: «Si ha cosí l’abrogazione di un
ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità — la Legge
infatti non ha portato nulla alla perfezione — e si ha invece l’introduzione di
una speranza migliore, grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio» (7:18-19).
Lo stesso discorso può farsi a proposito del
culto, strettamente legato al sacerdozio. Nel capitolo 10, descrivendo
l’ingresso di Cristo nel mondo, dopo aver citato il Salmo 40, la lettera
afferma: «Dopo aver
detto: Tu non hai voluto e non hai
gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato,
cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Cosí egli abolisce il primo
[sacrificio] per costituire quello nuovo» (10:8-9). Il verbo usato (ἀναιρεῖ) è molto forte: in questo caso
si tratta di vera e propria “rimozione”.
Inevitabile l’estensione dello stesso concetto all’alleanza.
Nel capitolo 8, dopo aver citato il lungo testo del profeta Geremia sulla nuova
alleanza, la lettera agli Ebrei conclude: «Dicendo nuova [alleanza], Dio ha
dichiarata antica la prima: ma ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a
scomparire» (8:13). Anche qui si usa un termine molto forte: ἀφανισμός, che significa “distruzione”,
“sparizione”.
Checché ne dica il documento, la lettera agli
Ebrei è molto chiara a proposito del rapporto tra antico e nuovo sacerdozio,
antica e nuova legge, antico e nuovo culto, antica e nuova alleanza, realtà fra
loro strettamente legate. Semmai, andranno precisati i termini; ma non si può
ignorare il loro evidente significato globale: il vecchio ordinamento è stato
rimpiazzato dal nuovo.
Per concludere e per cercare di chiarire e
fissare alcuni punti, potremmo porci alcune domande:
1. Dio
ha ripudiato il suo popolo? È la domanda che si pone Paolo in Rm 11:1 e alla quale risponde
senza esitazione: «Impossibile … Dio non ha ripudiato il suo popolo (cf 1 Sam
12:22; Sal 93/94:14), che egli ha scelto fin da principio» (Rm 11:1-2).
2.
L’alleanza con Israele è stata revocata? Come correttamente fa notare il documento, Nostra ætate non risponde a tale
domanda; però il successivo magistero della Chiesa è giunto ormai a una
conclusione, sulla quale sembra difficile che si possa tornare: «L’Antica
Alleanza non è mai stata revocata» (Catechismo
della Chiesa cattolica, n. 121). Il fondamento di tale affermazione può
essere individuato nel testo paolino che dà il titolo al documento: «I doni e
la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11:29, anche se si potrebbe
discutere sulla correttezza della traduzione di ἀμεταμέλητα con “irrevocabili”: forse sarebbe piú corretto tradurre con
“senza ripensamento”).
3.
Quale è il rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza? Il documento
risponde: «La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a
compimento» (n. 27); «La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né
l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica
Alleanza» (n. 32). Su tali affermazioni si può sostanzialmente convenire. Penso
che il testo che meglio descrive i rapporti tra Antica e Nuova Alleanza sia la
costituzione dogmatica Dei Verbum del
Concilio Vaticano II (ciò che si dice dei due “Testamenti” può essere
tranquillamente riferito alle rispettive “Alleanze”): «Dio, il quale ha ispirato i libri dell’uno e dell’altro Testamento e ne
è l’autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e
il Vecchio fosse svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova
Alleanza nel sangue suo, tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente
assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno
significato nel Nuovo Testamento, che essi a loro volta illuminano e spiegano»
(n. 16).
4. Esistono due vie parallele di salvezza? Come
abbiamo visto, aveva già risposto a questa domanda il documento pubblicato
dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo nel 1985: «La Chiesa e
l’ebraismo non possono essere presentati come due vie parallele di salvezza»
(n. I, 7). Tale risposta viene ora ripresa dal recente documento: «Non esistono due strade diverse che
conducono alla salvezza, secondo il motto “Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i
cristiani a Cristo”. La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo
è universale e si rivolge a tutti gli uomini» (n. 25); «La teoria che afferma
l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via
attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesú di Nazareth,
metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana» (n. 35). Se
questo è vero, non ci si può non porre un’altra domanda:
5.
Quale via devono percorrere gli ebrei per giungere alla salvezza? La risposta del
documento a tale questione non è chiara, ma sembrerebbe ammettere che ci sia la
possibilità per gli ebrei di partecipare alla salvezza senza una confessione
esplicita di Cristo (n. 36). Gesú ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre
se non per mezzo di me» (Gv 14:6). Paolo aggiunge: «Uno solo è Dio e uno solo
anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesú» (1 Tm 2:5). Se
esiste una sola via per giungere a Dio e questa via è Cristo, non si possono
poi prevedere scorciatoie per alcuni, sostenendo che essi avevano un’alleanza
precedente con Dio: «Se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe
stato il caso di stabilirne un’altra» (Eb 8:7). Se l’Antica Alleanza fosse
stata sufficiente a conseguire la salvezza, che bisogno c’era di Cristo? «Se la
giustificazione viene dalla Legge (= Antica Alleanza), Cristo è morto invano»
(Gal 2:21).
6. La Chiesa deve
annunciare Cristo agli ebrei?
Il documento risponde: «La Chiesa cattolica non
conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli
ebrei. Fermo restando questo rifiuto — per principio — di una missione
istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere
testimonianza della loro fede in Gesú Cristo anche davanti agli ebrei; devono
farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori
della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah» (n. 40).
Ciò non sembra molto coerente con quanto lo stesso documento afferma al n. 35,
riprendendo le parole del documento del 1985 (che a sua volta citava le Guidelines and Suggestions for Implementing
the Conciliar Declaration “Nostra Ætate” (n. 4) del 1974): «La Chiesa deve testimoniare
il Cristo Redentore a tutti». Non è inoltre molto chiaro che cosa si intenda
con “missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei”. Ciò che conta
è, ancora una volta, non prevedere, per gli ebrei, una situazione privilegiata,
quasi che essi non abbiano bisogno del vangelo per salvarsi. Dice San Paolo:
«Non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di
chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rm 1:16). Prima del Giudeo,
poi del Greco: spesso ci dimentichiamo che, alle origini, la salvezza è stata
annunciata innanzi tutto ai giudei, solo successivamente ai pagani.
7. È
ancora possibile una “teologia della sostituzione”? Come abbiamo visto,
la risposta del documento a tale domanda è categorica: «Viene delegittimata la
teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una
Chiesa dei gentili ed una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa» (n.
17); «La Chiesa non sostituisce Israele» (n. 23); «La Nuova Alleanza non può
mai sostituire l’Antica» (n. 27); «La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né
l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica
Alleanza» (n. 32); «Israele [è] il
popolo eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata
sostituita o revocata» (n. 34). Sembrerebbe dunque che non rimanga piú nessuno
spazio per una qualsiasi “teologia della sostituzione”. Premesso che non si
tratta di una dottrina della Chiesa,
ma per l’appunto di una teologia, non
si vede perché essa non possa essere considerata “legittima”: essa è un
tentativo di interpretazione del dato rivelato, ha il suo fondamento nella
Scrittura e una lunga tradizione alle spalle. Può essere discussa; può essere
rivista (noi stessi abbiamo indicato una possibile pista da seguire); si può
proporre, purché sia altrettanto fondata, una teologia alternativa, ma non la
si può considerare “delegittimata” a priori. Solo un intervento magisteriale,
che finora non c’è stato, potrebbe farlo. Rimane, per finire, ancora una domanda:
8.
Come può essere descritto il rapporto fra la Chiesa e Israele? Solitamente lo si
intende in termini di rottura: a un certo punto, la Chiesa si sarebbe staccata
da Israele e avrebbe preso la sua strada, lasciando che Israele proseguisse per
la propria, dando con ciò per scontata la continuità fra l’antico Israele e il
giudaismo post-biblico. In realtà, se c’è qualcuno che ha rotto e si è
staccato, questo è proprio il giudaismo post-biblico. Il vero erede dell’antico
Israele non è il giudaismo post-biblico, ma la Chiesa. Il cristianesimo non può
essere considerato un’“eresia” dell’ebraismo, ma la sua legittima
continuazione. Non esiste alcuna rottura fra la Chiesa e l’antico Israele, ma
perfetta continuità: la Chiesa è la naturale evoluzione dell’antico Israele.
Questa è la visione di Paolo nell’apologo dell’olivo (Rm 11:16-21): l’olivo è
sempre lo stesso; alcuni rami sono stati tagliati (il giudaismo post-biblico);
altri, provenienti dall’olivo selvatico, sono stati innestati (i pagani). La
Chiesa non sono solo i rami innestati, ma l’olivo stesso. Chiesa e Israele si
identificano: prima di Cristo l’olivo si chiamava “Israele”; dopo Cristo,
“Chiesa” o “nuovo Israele”; ma la realtà è la stessa; si tratta del medesimo e
unico popolo di Dio, esteso con Cristo a tutte le genti.
«O
profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto
insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Poiché da lui, per
mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen»
(Rm 11:33.36).