Venerdí scorso
Papa Francesco si è recato all’Università Roma Tre, dove si è incontrato con
gli studenti. A proposito della visita, il bollettino della Sala stampa della Santa Sede riportava la seguente informazione:
«Nel corso dell’incontro sul Piazzale antistante l’Università, introdotto dall’indirizzo di omaggio del Magnifico Rettore, Papa Francesco ha risposto a braccio alle domande poste da quattro studenti, dando per letto il testo preparato in precedenza e consegnato ai presenti».
Le domande degli
studenti, ovviamente, erano state preparate in anticipo e il discorso che il
Santo Padre avrebbe dovuto pronunciare conteneva appunto le risposte a quelle
domande. Ciò nonostante, Papa Bergoglio ha preferito rispondere a braccio. Non
è la prima volta che questo accade, né nell’attuale né in precedenti
pontificati. Giovanni Paolo II, per esempio, specialmente negli ultimi anni,
quando non era piú in grado di parlare fluentemente, era solito consegnare in
una busta il discorso che era stato preparato. L’attuale Pontefice poi pare che
avesse già adottato questo sistema nelle visite ad limina. Ha suscitato un
certo clamore il discorso — non letto, ma solo consegnato — rivolto ai Vescovi
tedeschi, del quale Papa Francesco si sarebbe successivamente scusato dicendo:
«Non l’ho scritto io, non l’avevo letto, non tenetene conto» (vedi qui).
Sembrerebbe di
trovarsi, anche in questo caso, di fronte a una nuova prassi pastorale: al Papa
non piace pronunciare discorsi “prefabbricati”, siano essi scritti da lui o preparati
da altri; preferisce parlare a braccio, lasciandosi guidare dall’ispirazione
del momento; preferisce il colloquio diretto con le persone. Il discorso
scritto dà l’impressione di ostacolare il rapporto immediato con la gente; parlare
a braccio rende tutto piú naturale e spontaneo.
Personalmente,
avrei qualche perplessità in proposito. Non è vero che il parlare
a braccio è sempre sinonimo di autenticità e spontaneità. Venerdí scorso, per
esempio, le domande degli studenti erano state precedentemente preparate (e la
cosa mi pare piú che comprensibile) e il Papa si era preparato a rispondere. Il
discorso scritto non era altro che una risposta a quelle domande. Non so chi lo
avesse preparato, ma certamente, se non era stato il Papa, lui stesso aveva per
lo meno dato alcune indicazioni per la stesura e, in ogni caso, gli eventuali ghost
writers avevano tenuto conto del suo pensiero e del suo stile (basti richiamare
qui una sola frase: «Parlando cosí non vi propongo illusioni o teorie
filosofiche o ideologiche, neppure voglio fare proselitismo»). Per cui leggere
quel discorso non sarebbe stato in alcun modo un “falso”; come, al contrario,
anche il parlare a braccio talvolta potrebbe dare l’impressione di una “messinscena”.
Personalmente, sono convinto che anche leggendo un discorso scritto si possono
raggiungere i cuori degli ascoltatori, a condizione che quel discorso, affidato
allo scritto, sgorghi a sua volta ex abundantia cordis dell’autore.
Benedetto XVI in genere leggeva le sue omelie e i suoi discorsi (per lo piú
scritti personalmente); non si può certo dire che il messaggio non arrivasse a
destinazione. Io ancora ricordo, dopo quaranta anni, alcune catechesi di Paolo
VI, che mi sono rimaste impresse per sempre nel cuore.
Soprattutto nel
caso di un Pontefice, non credo che sia consigliabile abbandonarsi ordinariamente
all’improvvisazione, per quanto preceduta dalla dovuta preparazione. A parte il
fatto che, scrivendo, si controlla meglio anche la durata dell’intervento, un
testo scritto dà una maggiore garanzia di completezza e di correttezza, formale
e di contenuto. Aldo Maria Valli ha fatto notare che nel discorso scritto era prevista una bella testimonianza
di fede, scomparsa nell’intervento a braccio. Annota Valli:
«Sarebbe folle pensare che il Papa si sia autocensurato. Sicuramente, scegliendo di mettere da parte il discorso preparato a tavolino, ha semplicemente voluto farsi piú vicino ai giovani e dimostrare meglio, con maggiore intensità emotiva, la sua partecipazione ai loro problemi, alle loro preoccupazioni. D’altra parte sono convinto che docenti e studenti di Roma Tre lo avrebbero applaudito anche nel caso in cui Francesco avesse fatto riferimento all’esperienza religiosa».
Sta di fatto che
è venuto fuori un discorso senza alcun riferimento religioso. Prosegue Valli:
«Francesco in effetti, piú che da papa, piú che da vescovo, piú che da religioso, ha scelto di parlare da sociologo e da economista. Ha affrontato le questioni legate alla disoccupazione giovanile, alle migrazioni, alla globalizzazione. Ha chiesto, anche con accenti accorati, di cercare l’unità salvaguardando le differenze e non l’uniformità. Questioni importanti, sia chiaro. Ma colpisce il fatto che mai una volta ha nominato Dio o la fede».
Mi chiedo: ma è
questo che ci si attende da un Papa?
Mi sia permesso
di aggiungere un paio di osservazioni. Qualcuno potrebbe obiettare: il discorso
scritto non è stato cestinato, non è scomparso nel nulla; è stato “consegnato
ai presenti”. Io direi piú correttamente: è stato “messo agli atti”, a
disposizione di un eventuale studente che un giorno voglia fare una tesi sul
rapporto fra Papa Bergoglio e i giovani. Non è la stessa cosa “consegnare” un
discorso e pronunciarlo. Un discorso consegnato rimane una serie di parole; un
discorso pronunciato diventa un “evento”, con conseguenze che il discorso messo
agli atti non può avere. Faccio un esempio, per farmi comprendere: in questi
giorni tutti hanno rievocato l’amara vicenda della mancata visita di Benedetto
XVI all’Università “La Sapienza” nel 2008; anche in quell’occasione Papa Ratzinger aveva
preparato un discorso, che, dopo l’annullamento della visita, fu consegnato e
fu addirittura letto durante la cerimonia dell’inaugurazione dell’anno
accademico. Ebbene, di quel discorso che cosa è rimasto? Praticamente nulla.
Ciò che è rimasto è solo l’amarezza per una vicenda da molti giustamente considerata
vergognosa. Molto spesso ciò che rimane, piú che le parole, sono i fatti o, se
vogliamo, la percezione dei fatti. Che cosa rimarrà della visita di Papa
Francesco all’Università Roma Tre? Spero di sbagliarmi, ma non credo di allontanarmi troppo dal vero dicendo che in futuro si ricorderà che il Papa nel 2017, a Roma Tre, ha
incontrato gli studenti per parlar loro di disoccupazione e immigrazione.
Un’altra
obiezione che si potrebbe fare è la seguente: non facciamola lunga; il mancato
riferimento a Cristo lo si può spiegare tranquillamente come una dimenticanza,
assolutamente possibile quando si parla a braccio. Verissimo. Ma questa
osservazione di buon senso non è sufficiente a fugare una sensazione che frulla
nella mia mente e forse anche in quella di altri. Si ha l’impressione che il
dare per letto quel discorso non sia altro che un episodio del piú generale
atteggiamento di svalutazione di tutto ciò che è dottrinale, a favore della
prassi pastorale. La dottrina, si ripete continuamente, non viene modificata; ma
non vi si insiste piú di tanto; viene data per scontata ed è perciò messa da
parte, oltre tutto perché fonte di possibili contrasti (“la dottrina è
divisiva”), preferendo insistere su ciò che unisce e cercare forme di
collaborazione che vadano al di là delle differenze che ci separano. Anche il Catechismo
della Chiesa cattolica ormai non viene piú citato; è “dato per letto”; non
c’è bisogno di tornarci su. Ben altri sono i problemi da affrontare.
Nell’intervista
rilasciata alla Civiltà Cattolica poco dopo la sua elezione (n. 3918 del
19 settembre 2013), Papa Francesco ebbe a dire:
«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne continuamente» (pp. 463-464).
Viene qui
enunciato un principio — «Il parere della Chiesa lo si conosce; non è necessario
parlarne continuamente» — in sé discutibile (perché ci sono alcuni valori, oggi generalmente rifiutati, di cui non si parlerà mai abbastanza), ma che si potrebbe anche
accettare, a patto che fosse sempre coerentemente applicato. E invece sembra
che ci siano alcuni valori (come i “principi non-negoziabili”), che sono dati
per scontati e quindi non bisognosi di alcuna insistenza; mentre ci sono altri
valori (come, p. es., l’accoglienza dei migranti) sui quali si torna in
continuazione. Perché in quest’ultimo caso non si applica lo stesso criterio?
Nella medesima
intervista, Papa Bergoglio continuava:
«Gli insegnamenti tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale» (p. 464).
Anche in questo
caso, a parte forse il linguaggio, ci si può trovare d’accordo sul fatto che esista
una gerarchia delle verità della fede e delle norme morali e che ci sia
bisogno, soprattutto oggi, di concentrarsi sull’essenziale. Si presume che
l’essenziale, nel cristianesimo, sia la persona di Gesú Cristo. Ma se poi, per
cercare di andare d’accordo con tutti, si finisce, piú o meno consapevolmente
(non sta a noi giudicare), per mettere anche lui fra parentesi — magari “dando
per letto” perfino il vangelo! — che cosa rimane? Quale sarebbe l’essenziale su
cui concentrarsi?
Se c’è qualcuno
che è “divisivo”, questi è proprio Gesú Cristo:
«Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (Lc 12:51-53).
Sinceramente, io
non mi preoccuperei tanto delle divisioni provocate da Cristo, il quale fin dal
momento dell’incarnazione è stato — e sempre sarà — «segno di contraddizione …
affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2:34-35). Personalmente,
sarei piú preoccupato per le divisioni che si possono creare nella comunità
ecclesiale quando la sapienza del mondo prende il posto della stoltezza della
predicazione. Ce lo ricordava proprio ieri San Paolo:
«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi» (1Cor 3:16-17).
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