Fece un certo scalpore, nel
novembre scorso, la dichiarazione rilasciata dal Presidente della Commissione
per la famiglia della Conferenza episcopale polacca, Mons. Jan Wątroba, a
proposito dei dubia dei quattro Cardinali circa l’esortazione apostolica
Amoris laetitia. In quell’occasione il Vescovo di Rzeszów ebbe a dire: «Io
personalmente — forse per abitudine, ma anche con profonda convinzione —
preferisco un’interpretazione come era solito fare Giovanni Paolo II, dove non
c’era bisogno di commenti o interpretazioni del magistero di Pietro» (qui).
Quello che disse Mons. Wątroba è
senz’altro vero: al tempo di Papa Wojtyla non c’era bisogno di tante
interpretazioni; i suoi interventi erano generalmente chiari. Anche se non deve
meravigliare che talvolta possa rendersi necessaria qualche precisazione. Per
esempio, dopo la pubblicazione della lettera apostolica Ordinatio
sacerdotalis (22 maggio 1994), per quanto il suo contenuto fosse piú che
chiaro, ci fu tuttavia bisogno di un ulteriore intervento della Congregazione
per la dottrina della fede (CDF) che definisse il carattere infallibile
dell’insegnamento in essa contenuto (Risposta a un dubium del 28 ottobre
1995). La CDF esiste anche per questo: per chiarire, quando ce ne fosse bisogno,
eventuali dubbi in campo dottrinale e morale.
La dottrina della Chiesa a
proposito del matrimonio è sempre stata piuttosto chiara ed era stata ribadita,
appunto durante il pontificato di Giovanni Paolo II, nel Sinodo del 1980 e
nella successiva esortazione apostolica Familiaris consortio del 22
novembre 1981. Per questo motivo non ho mai capito quale bisogno ci fosse di
tornare sulla questione dopo solo pochi anni, attraverso una inusuale e macchinosa
procedura (un concistoro, due sinodi e un’esortazione apostolica), oltretutto costellata
di non poche anomalie durante il suo lungo percorso. Con quale risultato? Che quanto
era prima chiaro ora è diventato confuso.
OK, non drammatizziamo. Sono cose
che possono succedere. C’è sempre la possibilità di rimediare: basta cercare di
individuare i punti controversi e chiarirli attraverso una interpretazione
autentica. Non dimentichiamo che si tratta di un procedimento indispensabile,
se si vuole che Amoris laetitia abbia carattere vincolante: da che mondo
è mondo, lex dubia non obligat.
Ebbene, poco dopo la
pubblicazione di Amoris laetitia, Papa Francesco propose a piú riprese
come migliore interprete di essa il Card. Christoph Schönborn, Arcivescovo di
Vienna, il quale era stato chiamato a presentare l’esortazione apostolica in
Vaticano l’8 aprile 2016 (qui).
A settembre i Vescovi della
Regione pastorale di Buenos Aires (si badi bene, non si tratta della Conferenza
episcopale argentina, ma di una conferenza episcopale regionale) emanarono
alcuni “Criteri di base per l’applicazione del capitolo 8 di Amoris laetitia”,
e il Papa scrisse loro che «il testo è molto buono e spiega esaurientemente il
senso del capitolo VIII di Amoris laetitia. Non ci sono altre
interpretazioni» (qui).
Nei giorni scorsi il Card.
Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio per i testi
legislativi (PCTL), ha pubblicato il libretto Il Capitolo ottavo della esortazione apostolica post sinodale “Amoris laetitia”,
che viene presentato da alcuni come la risposta ai dubbi sollevati
dal documento (qui).
Allora siamo a posto? Tutto
chiaro, finalmente? No, perché si tratta di interventi, ancorché autorevoli (due
influenti Cardinali e il Papa stesso!), del tutto irrilevanti, per vizio di
competenza o di forma. Il Card. Schönborn, per quanto possa godere della stima
del Pontefice e sia stato chiamato a presentare l’esortazione apostolica, non
ha alcun titolo per esserne l’interprete autentico. Il Card. Coccopalmerio non
è intervenuto nella veste di Presidente del PCTL e, anche se lo avesse fatto,
non sarebbe stato suo compito interpretare autorevolmente un testo che ha carattere dottrinale/pastorale
e non giuridico (il PCTL si è già pronunciato in maniera ufficiale sul problema
della comunione ai divorziati risposati con la dichiarazione del 24 giugno 2000,
e in quell’occasione lo ha fatto in maniera autentica, trattandosi dell’interpretazione
del can. 915).
Almeno il Papa — si dirà — avrà titolo a interpretare i testi scritti da lui
stesso! Non c’è dubbio, purché lo faccia nel modo dovuto. Non è sufficiente far
trapelare indirettamente il proprio pensiero. Se è vero che uno dei criteri di
interpretazione della legge è la mens del legislatore, è altrettanto
vero che questa non si identifica con le sue personali vedute. Il Papa — in
quanto tale e non come “dottore privato” — deve esprimere in modo chiaro la sua
reale intenzione; e ha tutti gli strumenti giuridici per farlo.
Viviamo in un’epoca in cui si è
portati a dare scarso valore alla “forma”: basta pronunciare questa parola per
essere immediatamente tacciati di formalismo. Ma ci si dimentica che spesso la
forma è sostanza: il mancato rispetto di essa può rendere invalido un atto.
Basti pensare alla Corte di cassazione che annulla le sentenze senza entrare
nel merito, ma semplicemente rilevando vizi procedurali. Anche in ambito
sacramentale il rispetto della forma è ad validitatem: si pensi alle
ordinazioni anglicane, dichiarate nulle per defectus formae, oppure al
matrimonio, valido solo se contratto secondo la forma canonica (can. 1108). La
stessa infallibilità pontificia sussiste solo a determinate condizioni formali.
Ebbene, tutti gli interventi su
riportati sono viziati o per incompetenza o per difetto di forma. L’unico
organo competente in materia (oltre il Papa, naturalmente) è la CDF, la quale però finora non si è pronunciata (le interviste recentemente rilasciate dal Card.
Müller esprimono solo un punto di vista personale, e pertanto sono anch’esse irrilevanti).
Le interviste, le conferenze stampa, gli articoli, i libri, le lettere private
non sono atti di magistero; hanno lo stesso valore che può avere il post che
state leggendo. Sarebbe ora che l’esercizio dell’autorità nella Chiesa tornasse
a essere rispettoso anche della “forma”, se si vuole che essa — l’autorità — sia presa sul serio e si crei intorno ad
essa quel clima di consenso e di collaborazione da tutti auspicato. A nulla
vale lamentarsi che «anche gli stessi marinai chiamati a remare nella barca di
Pietro possono remare in senso contrario» (Alla Comunità de La Civiltà Cattolica, 9 febbraio 2017),
se poi non si rispettano le regole. Non è una questione di vano formalismo; si
tratta di semplice rispetto verso coloro dai quali ci si attende, giustamente, collaborazione
e obbedienza.
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