martedì 26 gennaio 2010

Fedeltà al Concilio

Mi ha colpito molto la notizia, riportata da Sandro Magister, delle dimissioni del direttore della Cappella musicale (qui) e dell’intero coro (qui) della Cattedrale di Cremona. Non sono cose che accadono ogni giorno; si tratta di un fatto di una gravità eccezionale; ma spero che, perlomeno, serva a provocare una riflessione su quanto è avvenuto e sta avvenendo nella Chiesa dopo la riforma liturgica promossa dal Vaticano II.

Non sono un nostalgico della liturgia tridentina, e perciò non coglierò l’occasione per dare addosso alla riforma liturgica e per auspicare un ritorno, sic et simpliciter, alla liturgia preconciliare. Però non si può neppure far finta di niente, e liquidare quanto è successo come il mal di pancia di un gruppo di esteti nostalgici, che non si rassegnano ad adeguarsi ai tempi nuovi.

Semmai, l’incidente cremonese potrebbe essere l’occasione per fermarci un attimo a “ripensare” la riforma liturgica, non necessariamente per giungere alla conclusione che si renda necessaria una “riforma della riforma”, ma semplicemente per fare un bilancio e chiederci: Come è stata attuata? È stato realmente fatto ciò che il Concilio prescriveva? C’è stato qualcosa che non ha funzionato? Domande piú che legittime a quasi cinquant’anni dall’inizio della riforma.

Il punto di riferimento per tale valutazione rimane, ovviamente, la Costituzione Sacrosanctum Concilium, promulgata al termine della terza sessione del Concilio, il 4 dicembre 1963. Soffermiamoci, per il momento, sull’aspetto musicale, ma ricordandoci che il discorso potrebbe — e dovrebbe — essere allargato a tutti gli altri aspetti. Ebbene, che cosa diceva il Concilio a proposito della musica sacra? Andatevi a rileggere il capitolo VI della Sacrosanctum Concilium: penso che chiunque, anche il piú prevenuto verso il Vaticano II, sia costretto a riconoscere che si tratta di un piccolo capolavoro. C’è qualcuno che non è d’accordo con quanto il Concilio affermava? Eppure, che ne è stato di quelle sagge norme? Praticamente sono rimaste lettera morta; la riforma liturgica, quella che di fatto è stata attuata, ha semplicemente ignorato il Concilio; ha seguito un’altra strada, a cui il Concilio non aveva neppure accennato: si è ripartiti da zero, come se non esistesse alcuna tradizione musicale; nella liturgia sono state ammesse solo nuove composizioni, il piú delle volte di scarso o punto valore. Ciò che era importante era la novità; tutto il resto — gregoriano, polifonia, canto popolare — semplicemente da rigettare. Che cosa c’era dietro tale atteggiamento? È ovvio: la mentalità secondo cui il “Concilio” (ma quale Concilio?) segnava un “nuovo inizio”, una “svolta” nella storia della Chiesa (“ermeneutica della discontinuità e della rottura”).

Appare in maniera evidente che la “riforma liturgica”, cosí come è stata attuata, non risponde in buona parte alle indicazioni del Concilio. Qualcosa non ha funzionato. Diciamo che la situazione è sfuggita di mano. Di chi è la colpa: del Concilio, di Paolo VI, di Mons. Bugnini? Personalmente penso che non serva a niente ora star lí a recriminare e a distribuire pagelle ai protagonisti della riforma. Molto piú utile mi sembra prendere atto della situazione e cercare di correre ai ripari.

Già, correre ai ripari. C’è già chi dice: basta tornare alla liturgia, cosí com’era prima del Concilio. Non mi sembra una proposta che risolva il problema. Qualcun altro sostiene che sia necessario a questo punto procedere a una “riforma della riforma”. Sí, forse; la cosa non è da escludersi a priori. Ma se, prima di procedere a delicatissime e rischiosissime riforme di riforme, provassimo ad attuare la riforma liturgica come l’aveva pensata il Vaticano II, non sarebbe tutto piú facile?

Tornando alla questione iniziale, se provassimo a reintrodurre nella liturgia il canto gregoriano (nel frattempo, per fortuna, i monaci hanno lavorato sodo e ci hanno messo a disposizione tutta una serie di strumenti con cui possiamo cantare la nuova liturgia in gregoriano, senza bisogno di ricorrere piú al benemerito Liber usualis), un po’ di polifonia (riconosco che non sempre è possibile trasferire certe magnifiche messe nella nuova liturgia) e un po’ di sano canto popolare; se provassimo a reintrodurre il suono dell’organo; se provassimo a riappropriarci della nostra tradizione musicale, la liturgia — quella rinnovata intendo, non quella tridentina — non avrebbe tutto da guadagnarci? È ovvio che anche dietro tale proposta c’è una mentalità: l’ermeneutica della continuità.

Vedo già qualcuno pronto a gridare alla “restaurazione”. Personalmente, la riterrei piutttosto una operazione di fedeltà al Concilio e di rivalorizzazione del nostro patrimonio musicale. Dice giustamente la Sacrosanctum Concilium all’inizio del capitolo dedicato alla musica sacra: «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente perché, come canto sacro applicato alle parole, è parte essenziale o integrante della liturgia solenne» (n. 112).

Oltre tutto, si tratta di una operazione non impossibile, visto che ci sono già a disposizione forze professionalmente attrezzate per attuarla. Anziché lasciarle vagabondare per le sale-concerto, non sarebbe il caso di arruolarle in questa opera di recupero della liturgia?

giovedì 21 gennaio 2010

Ermeneutica della riforma

Nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, commemorando i quarant’anni del Vaticano II, Benedetto XVI sostenne che i problemi di recezione del Concilio dipendono dal fatto che esso è stato interpretato secondo due ermeneutiche contrapposte: «Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” ... Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».

Tale distinzione è stata contestata, con un certo fondamento, da Joseph A. Komonchak (“Benedetto XVI e l’interpretazione del Vaticano II”: Chi ha paura del Vaticano II, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Carocci, Roma, 2009): «Si resta subito colpiti dalla eccentricità dei nomi dati a questi due concorrenti orientamenti. In contrapposizione a quello che insiste sulla discontinuità ci si sarebbe infatti aspettati un’“ermeneutica della continuità o della fedeltà”. Similmente, in contrapposizione ad un’“ermeneutica della riforma”, ci si sarebbe aspettati che l’altra venisse presentata come “un’ermeneutica della rivoluzione”. Invece troviamo messe in tensione “discontinuità” e “riforma”, come se fossero necessariamente contrastanti» (pp. 71-72). In linea di principio, Komonchak ha ragione; ma è ovvio che, dietro le sue disquisizioni logiche, si nasconde un problema ideologico non indifferente, che infatti viene a galla immediatamente: «Che esse non siano necessariamente in contrasto è chiaro d’altra parte dalla semplice osservazione che una genuina riforma implica di per sé alla fine una discontinuità: qualcosa deve cambiare laddove c’è una riforma» (p. 72). Anche qui sembrerebbe che Komonchak affermi una ovvietà; eppure le cose non sono cosí semplici come il professore dell'Università Cattolica di Washington vorrebbe farci credere.

Solitamente, siamo portati a catalogare il termine “riforme” nel vocabolario della “sinistra moderata” (i cosiddetti “riformisti”, in contrapposizione ai “rivoluzionari” della sinistra estrema). A nessuno passerebbe mai per la mente che il concetto di “riforma” possa in qualche modo essere imparentato con la “destra” (dove possono esistere solo “conservatori”, “tradizionalisti” e “reazionari”, i quali per definizione sono per la conservazione dello statu quo e quindi contro qualsiasi riforma). Questo è ciò che gli schemi ideologici correnti ci obbligano a pensare. Allora — direte voi — liberiamoci di tali schemi e sforziamoci di guardare alle cose con oggettività. Sí, sarebbe auspicabile; ma siccome so già che qualcuno potrebbe contestare la possibilità stessa di oggettività e sostenere che è inevitabile essere condizionati da schemi soggettivi, sceglierò un altro schema (visto che tutto è soggettivo, dove sta scritto che quegli schemi sono gli unici possibili?): uno schema seguendo il quale si raggiungeranno conclusioni opposte. Lo schema ideologico che scelgo è quello che divide gli uomini fra “ottimisti” e “pessimisti”.

Gli “ottimisti” sono coloro che considerano la storia come un continuo, irrefrenabile progresso, il piú delle volte indipendente dalla volontà umana (determinismo). All’origine di questa mentalità c’è una filosofia della storia ispirata all’illuminismo, all’idealismo, al positivismo e all’evoluzionismo. I “pessimisti” sono quelli che considerano la storia come una continua decadenza rispetto a una mitica “età dell’oro”, identificata con le origini. Penso che ciascuno di noi possa facilmente identificarsi in uno di questi due gruppi. Sia ben chiaro che tale distinzione non è intercambiabile con quella — meramente politica — di “destra” e “sinistra”.

Ebbene, se adottiamo lo schema “ottimisti”/“pessimisti” o “progresso”/“decadenza”, ci accorgeremo che il concetto di riforma non appartiene agli “ottimisti”, ma ai “pessimisti”. Sempre, nella storia, i “riformatori” si sono presentati come quelli che criticavano il presente, considerato decaduto rispetto al passato, e auspicavano una qualche forma di “ritorno alle origini”. Anzi, approfondendo il discorso, ci accorgeremo che anche un’altra categoria che oggi va per la maggiore — quella di profezia — appartiene esattamente all’ideario dei “pessimisti”: nella storia di Israele, i profeti non sono mai stati dei rivoluzionari, ma semmai dei “nostalgici” dei bei tempi andati, e hanno sempre auspicato un ritorno al passato (si veda in proposito il saggio di Norbert Lohfink, I profeti ieri e oggi, Queriniana, Brescia, 1967).

A questo punto potremmo porci il problema: usando questo schema, da quale parte poniamo il Concilio Vaticano II? Certo, nella visione degli “ottimisti”, esso segna una tappa — non necessariamente in discontinuità col passato — dell’irrefrenabile cammino della Chiesa verso il suo “Punto Omega” (per usare un’espressione cara a Teilhard de Chardin). Può darsi che tale mentalità sia presente, almeno parzialmente, all’interno del Vaticano II, ed è senz’altro presente in molti dei suoi interpreti. Ma — potremmo chiederci — è stata questa l’autocomprensione che il Concilio ha avuto di sé stesso? Avrei qualche perplessità a rispondere affermativamente.

Non voglio escludere che nel Vaticano II sia presente, almeno in qualche passaggio, una mentalità “evoluzionistica”. Sono per altro note le accuse, rivolte al Concilio, di discontinuità e di rottura con la tradizione precedente; accuse che andranno prima o poi vagliate attentamente. Ma nell’insieme, almeno nelle intenzioni, a me pare che il Vaticano II si muova nel campo opposto, quello di chi guarda al presente della Chiesa (il “presente” di cinquanta anni fa) come in qualche modo distante (perché gradualmente allontanatosi) dall’“archetipo” (la Chiesa delle origini) e quindi bisognoso di “riforma”.

Prendiamo l’esempio della liturgia. Noi di solito parliamo, giustamente, di “riforma liturgica”, ma la Costituzione Sacrosanctum Concilium usa un termine ancora piú forte, che non lascia adito a dubbi: instauratio, che in italiano significa letteralmente “restaurazione”. La liturgia, secondo il Concilio, va restaurata, va cioè riportata alla sua bellezza originaria. È evidente il rischio sotteso a tale visione: quello dell’“archeologismo”, l’illusione cioè di tornare a un passato ideale, totalmente astratto, ignorando il cammino compiuto attraverso i secoli. È forse per questo motivo che la Sacrosanctum Concilium, per lo piú, accompagna il verbo instaurare con il verbo fovere, quasi a dire che non si tratta solo di tornare indietro, ma di andare avanti, incrementando, favorendo, migliorando ciò che già esiste. E forse è per questo motivo che il Santo Padre, nel suo discorso alla Curia Romana, usa il termine “riforma” come sinonimo di “rinnovamento nella continuità”.

Credo che l’atteggiamento del Concilio verso la liturgia possa essere considerato in qualche modo paradigmatico: l’attitudine “restauratrice” (so bene le reazioni che l’uso di tale espressione può provocare nell’animo di quanti si lasciano condizionare dagli schemi ideologici correnti, ma spero che si sappia andare oltre le risonanze emotive) è quella che ha ispirato il Concilio; si trattava di riportare la Chiesa al suo primitivo splendore.

È vero che il Vaticano II fa uso anche di altre espressioni. Per esempio, a proposito della vita religiosa parla di renovatio, giustamente tradotto con “rinnovamento”. Solo che renovare, in latino, molto spesso non è altro che un sinonimo di instaurare. Non mi pare un caso che il decreto Perfectae caritatis (n. 2) esorti i religiosi a un «continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito originario degli istituti» (a voler essere pignoli poi si potrebbe notare che le traduzioni italiane tralasciano sistematicamente l’aggettivo da cui la parola renovatio è sempre accompagnata: “accomodata renovatio vitae religiosae”).

Ha dunque sbagliato Benedetto XVI a parlare di “ermeneutica della riforma” a proposito del Vaticano II? Niente affatto; anzi mi pare che, usando tale espressione, egli abbia colto perfettamente il vero spirito del Concilio: il Vaticano II non ha voluto in alcun modo essere una rottura col passato né, tanto meno, un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa; esso, molto piú modestamente, si è prefisso solo di “riformare” la Chiesa, adattandola certo alle mutate condizioni dei tempi, ma sforzandosi soprattutto di riportarla alla sua originaria fisionomia.

martedì 19 gennaio 2010

Un problema fantasma?

Un lettore mi chiede un parere sul post del 7 gennaio 2010 apparso sul blog di Matias Augé dal titolo Una opinione sull’attuale dibattito liturgico. Si tratta di una lettera scritta al Padre Augé da un suo confratello, missionario da 35 anni (prima nelle Filippine, poi a Cuba, ora nella Repubblica Dominicana), nella quale si contesta, con accenti — diciamo — piuttosto vivaci, l’esistenza stessa di un problema liturgico nella Chiesa (“un problema fantasma”). Nella sua esperienza, Padre Carmelo — questo il nome del missionario clarettiano — sostiene di non aver mai incontrato “un solo cristiano” che chiedesse la Messa tridentina; di non aver mai ricevuto “neppure una sola istanza” in tal senso.

Ho già in qualche modo affrontato lo stesso problema alcuni mesi fa nel post Auditel liturgico e “riforma della riforma”, in cui si commentava il sondaggio informale condotto da Padre Augé sulla stessa tematica. Non posso quindi che rinviare alle considerazioni che facevo in quella sede. Anche nel caso del Padre Carmelo, non ho alcuna difficoltà a credere a quanto da lui affermato. Non posso contare sulla sua lunga esperienza missionaria, ma il mio, di gran lunga piú breve e limitato, soggiorno nelle Filippine e in India mi porta piú o meno alle medesime conclusioni: effettivamente non esiste in questi paesi (e, per analogia, suppongo, nel resto del “terzo mondo”) un problema della liturgia tridentina; la liturgia va bene cosí com’è. Concordo con Padre Carmelo che in questi paesi si celebra la Messa “degnamente”, senza gravi abusi; le liturgie sono in genere molto vivaci e partecipate; e anche chi, come me, è sensibile alla bellezza della liturgia latino-gregoriana, non può rimanere indifferente di fronte a certe celebrazioni forse non altrettanto ieratiche, ma certo intensamente partecipate dai fedeli. Del resto, lo stesso Santo Padre non ha confessato forse di essere rimasto ammirato dalle liturgie da lui presiedute nel suo ultimo viaggio in Africa?

Non concordo con Padre Carmelo su due punti. Il primo è la categoricità delle sue affermazioni: “ni un solo cristiano”, “ni una sola instancia”. Io sarei un tantino piú cauto: se è vero che il problema non è cosí sentito come sembrerebbe nei nostri paesi occidentali, non è vero che nel “terzo mondo” non ci sia nessuno che lo sente. Giustamente in uno dei commenti si puntualizza che «in Brasile la sensibilità e la richiesta sono molto forti»: sarà un caso che l’unica amministrazione apostolica di rito tridentino non è in Francia, non è in Europa, ma in Brasile? Anche nelle Filippine ci sono alcuni gruppi che celebrano secondo la forma straordinaria. È vero che si tratta di gruppi minoritari, ma esistono!

E qui vengo al secondo appunto che muovo al post del Padre Carmelo: il linguaggio che riserva appunto a tali gruppi. Per me, dire che si tratta di “gruppi minoritari” sarebbe piú che sufficiente; non vedo che bisogno ci sia di procedere a ulteriori apprezzamenti, che nulla aggiungono al dato oggettivo, ma servono solo per invelenire i rapporti tra fratelli di fede: “una minoranza assolutamente insignificante e ridicola”; “persone squilibrate che vivono fuori della realtà”; “menti malate (calenturientas = “febbricitanti”) e retrograde che vivono fuori della realtà”; “movimento di involuzione nervosa e isterica”. D’accordo che in certi casi si possa ricorrere anche a un linguaggio un po’ colorito; ma in questo caso mi sembra che si venga meno alla carità cristiana: mi chiedo a che cosa si riduca il Vangelo, quando lo trasgrediamo in maniera cosí palese. A che serve parlare di apertura, di comprensione, di dialogo, di ecumenismo con i “lontani”, quando poi non abbiamo nessun rispetto per quelli che sono di casa? In certi momenti si ha davvero l’impressione che il cristianesimo sia stato ridotto a pura ideologia...

Potrei fermarmi qui; ma vorrei aggiungere qualcosa, entrando nel merito della questione sollevata. I lettori dovrebbero conoscere la mia posizione in materia liturgica; chi volesse farsene un’idea può andare a leggersi il post If only... Praticamente, io sono convinto che, se la riforma liturgica fosse stata realizzata come il Concilio l’aveva concepita e se poi essa fosse stata attuata seguendo fedelmente le norme previste nei libri liturgici, probabilmente ora non ci sarebbe nessun nostalgico della vecchia liturgia.

Questa convinzione non è stata affatto intaccata dalla mia sia pur breve esperienza missionaria. È vero che nei paesi del “terzo mondo” nessuno va in cerca della Messa tridentina (per quanto almeno un paio di volte mi sia stata richiesta); ma devo anche dire che tutte le volte che ho celebrato la Messa in latino (quella di Paolo VI) non ho mai incontrato alcun rifiuto. Anzi... È ovvio che nessuno chieda la celebrazione secondo l’uso antico: la maggior parte della gente non sa neppure che esista; ma quando partecipano a una bella Messa cantata in latino, ne rimangono anche loro affascinati.

Qualche volta mi ponevo il problema se celebrare in latino per popoli cosí lontani da Roma non fosse una sorta di “violenza”; me lo chiedevo soprattutto al momento della comunione, quando presentavo loro l’ostia consacrata dicendo “Corpus Christi” anziché “Ang Katawan ni Kristo”. Ma poi mi dicevo: Perché dovrebbe essere una violenza dire “Corpus Christi”, quando nessuno ha nulla da eccepire se dico in inglese (che non è la loro lingua) “The Body of Christ”? E sono giunto alla conclusione che, non solo non era una violenza, ma, al contrario, era loro diritto sentirsi dire “Corpus Christi”.

Sono convinto che la riforma liturgica, cosí come è stata attuata (anche con le deroghe — sanzionate da Paolo VI — alla lettera della Sacrosanctum Concilium, p. es. riguardo alla lingua liturgica), sia stata provvidenziale. Come affermavo nel post citato all’inizio, la Chiesa percepiva che il suo futuro si sarebbe giocato non piú in Europa, ma in altre parti del mondo; e per questo ha sentito il bisogno di mettere la liturgia alla portata di tutti. Ma con ciò non ha voluto in alcun modo cancellare la liturgia solenne in latino e in canto gregoriano, anzi ha voluto restaurarla e renderla ancora piú bella di quanto già non fosse (ermeneutica della continuità...). Per cui dobbiamo ammettere che non esiste piú (o forse non è mai esistita) una sola liturgia, uniforme e monolitica, ma molte varietà liturgiche con diversi gradi di solennità. A questo proposito, l’Institutio generalis de Liturgia Horarum parla assai opportunamente, al n. 273, di un “principio di solennizzazione progressiva” che, secondo me, può applicarsi a tutta la liturgia. È ovvio che, secondo tale principio, le forme meno solenni sono un momento propedeutico a quelle piú solenni; ed è un diritto dei fedeli poter partecipare, almeno in alcune occasioni, a una celebrazione solenne della liturgia romana. Ed è nostro dovere, come pastori, educare i fedeli perché possano esercitare tale diritto. La mia concezione di educazione non è mai stata quella del docente che si abbassa al livello del discente (anche se questo va in ogni modo fatto), ma piuttosto quella del docente che, dopo essersi abbassato, innalza il discente al proprio livello.

Che poi si debba fare i conti con la realtà, è un’altra questione. Ha ragione Padre Carmelo a dire che nel terzo mondo i preti non conoscono piú il latino. Non solo nel terzo mondo — aggiungo io — e non solo i preti... Ma anche qui si tratta del risultato di precise scelte (spesso ideologiche) che sono state fatte in passato. Ma, per quanto questa sia la realtà, non possiamo arrenderci: sono situazioni che possono cambiare; basta la “volontà politica”: non è impossibile insegnare il latino ai seminaristi, dovunque essi si trovino; basta volerlo. Non è questa un’affermazione astratta, ma il frutto di un’esperienza vissuta.

sabato 9 gennaio 2010

Informati?

Il rientro in Italia, dopo anni trascorsi nel cosiddetto “terzo mondo”, si sta rivelando non cosí facile come ci si sarebbe aspettati. È vero che viviamo in un mondo ormai globalizzato, per cui le tradizionali categorie di “primo” e “terzo” lasciano il tempo che trovano: soprattutto internet ha bruciato ormai le distanze, per cui, dovunque ti trovi, puoi accedere all’informazione — a qualsiasi tipo di informazione — “in tempo reale”. Però devo dire che riprendere a vedere quotidianamente il telegiornale e a leggere i giornali (quelli reali stampati sulla carta, non quelli virtuali online) fa un certo effetto.

Normalmente seguo il TG2 delle 20.30, e sinceramente non posso lamentarmi: mi sembra un telegiornale fatto con una certa professionalità (la stessa informazione religiosa non vi è trascurata). Oltre all’Avvenire, ho ripreso a leggere anche il Corriere della sera. Anche qui, nulla da ridire: si potrà discutere sulle idee espresse in questo o quell’articolo; ma, tutto sommato, si tratta di quotidiani seri, che perlomeno si sforzano di essere equilibrati. Quindi non ce l’ho né col TG2 né col Corriere; ma è il mondo dell’informazione in quanto tale (e, piú in generale, il mondo in cui viviamo, di cui giornali, radio e TV sono soltanto lo specchio) che mi lascia alquanto perplesso. Vi faccio qualche esempio, che ha attirato la mia attenzione in questi due mesi, da quando sono tornato.

Primo esempio: la febbre suina. Nei giorni del mio rientro non si faceva altro che parlare di influenza A: sembrava che da un giorno all’altro dovessimo tutti ammalarci; ogni giorno la televisione ripeteva che non c’era motivo di preoccuparsi; ma, a forza di ripeterlo, non faceva altro che diffondere il panico. Continuavano a insistere che bisognava vaccinarsi, e infatti lo Stato ha provveduto a rifornirsi di abbondanti scorte di vaccino. Che cosa è successo? Gli italiani, piú saggi di politici e giornalisti, se ne sono infischiati dell’ingiustificato allarmismo, non si sono fatti vaccinare, e le dosi di vaccino sono rimaste nei depositi, tanto che qualche politico ha lanciato il sospetto che sia stata tutta una montatura delle case farmaceutiche per vendere il vaccino. E della suina nessuno piú parla.

A inizio dicembre si è svolta a Copenaghen la 15ª Conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico. È da anni che continuano a lavarci il cervello col “riscaldamento globale”: non è bastato che nell’imminenza della Conferenza qualcuno fosse riuscito a intercettare messaggi email che dimostravano la manipolazione dei dati diffusi; ma proprio nei giorni della Conferenza l’Europa veniva attanagliata dal freddo, un freddo che non si vedeva da anni e che non accenna a diminuire. Ma non importa: la parola d'ordine rimane “riscaldamento globale”

C’è poi l’isteria scatenata dal fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit, che avrà come risultato un ulteriore restringimento delle misure di sicurezza negli aeroporti (come se non fossero già abbastanza severe e spesso irritanti). Come mai — mi chiedo — le sofisticatissime macchine, che riuscivano a scoprire una innocua bomboletta di schiuma da barba nel bagaglio, non sono state in grado di rilevare esplosivo... nelle mutande? No, adesso ci vuole il body scanner! E tutti a dire: sí, è giusto; per la sicurezza siamo disposti anche a spogliarci completamente. Senza voler dare credito alle teorie complottiste, secondo cui gli Stati Uniti starebbero cercando pretesti per intervenire nello Yemen (mi sa tanto che sia stata un’ottima idea dare il premio Nobel per la pace preventivo a Obama, cosí prima di scatenare un’altra guerra ci penserà due volte), viene il sospetto che siano state le ditte costruttrici del body scanner a organizzare il fallito attentato natalizio...

Direte che sono un superficiale, un qualunquista incapace di considerare la complessità della realtà. Sarà anche vero; ma che posso farci se gli “operatori della comunicazione” non riescono a convincermi con i loro allarmi? Anche perché in altri casi mi convincono e come! Come per esempio quando, sotto Natale, mi parlavano dei lavoratori che stanno perdendo il posto di lavoro; o come ieri sera, quando mi parlavano degli scontri di Rosarno. Queste sí che son tragedie!

Ma il colmo della ridicolaggine è stato ieri sera il programma Mistero su Italia 1, che si è occupato delle profezie maya sul 2012. Non voglio qui entrare nel merito della questione, di cui si è già occupato in maniera esauriente Massimo Introvigne (vedi qui); quel che mi interessa è il modo in cui se ne è parlato: sono stati chiamati a disquisire sul tema una “esperta di profezie maya”, un “giornalista” e... Alessandro Cecchi Paone (senza ulteriori qualifiche), i quali naturalmente parlavano non solo della fine del mondo per il 21 dicembre 2012, ma anche della pretesa profezia maya come di cosa certa, senza portare mai uno straccio di prova. E questa sarebbe informazione corretta? E questo sarebbe il mondo uscito dalla rivoluzione scientifica? E poi accusano la Chiesa di oscurantismo medievale? Ma gli studiosi medievali, in confronto a certi “esperti” postmoderni erano campioni di rigore scientifico!

Beh, diciamo che mi trovo un po’ disorientato: si tratterà forse dello stordimento che segue al cambiamento di ambiente; ci sarà bisogno di un po’ di adattamento. Speriamo bene. Ma certo la prima impressione non è proprio delle migliori...

sabato 2 gennaio 2010

Rieccomi!

Le feste sono state l’occasione per scambiarci gli auguri (a proposito, Buon Anno a tutti i lettori!) e anche per... raccogliere “il grido di dolore che da tante parti si leva verso di noi”. Scherzo! Il mondo è andato avanti senza grossi problemi fino al 30 gennaio 2009 (data di nascita di Senza peli sulla lingua); certamente può continuare ad andare avanti senza questo blog. A qualcuno però è dispiaciuto che il “Querciolino errante”, una volta cessato di vagabondare per il mondo, abbia anche perso la favella (è ovvio che, accanto ai dispiaciuti, ci sarà stato anche qualcuno a cui il silenzio di Querculanus non è dispiaciuto affatto, e molti altri — probabilmente la stragrande maggioranza — rimasti semplicemente indifferenti).

Effettivamente c’è da dire che in tutte le cose si può trovare un compromesso: passare da una frequenza pressoché quotidiana di post al silenzio totale forse non è giusto; ci può essere una via di mezzo. Si può aggiornare il blog saltuariamente, senza alcuna regolarità, oppure con una frequenza piú diradata (p. es., settimanalmente). Ecco, vorrei riprendere a scrivere qualcosa, per il momento non so con quale tempistica (staremo a vedere).

In questo mese di silenzio (il mio ultimo post risale alla fine di novembre) di cose ne sono successe. Non voglio certo passare in rassegna tutti gli eventi dell’ultimo scorcio del 2009. Ma non posso fare a meno di dire due parole su quanto è avvenuto in seguito alla dichiarazione dell’eroicità delle virtú di Pio XII (20 dicembre 2009). Dico subito che ho accolto con immenso piacere la contemporanea proclamazione di Pio XII e Giovanni Paolo II come “venerabili”: mi è sembrata una mossa geniale (e inattesa) da parte di Benedetto XVI. Ciò che mi ha dato noia non sono state tanto le reazioni del mondo ebraico — scontate! — quanto la nota del Padre Lombardi, che con le sue contorsioni logiche è riuscita a svigorire in un solo colpo una decisione limpida e coraggiosa.

Non che quanto affermato dal portavoce vaticano sia una novità assoluta: lo stesso ragionamento fu utilizzato in riferimento a Pio X, per il suo atteggiamento giudicato troppo rigido nei confronti di veri o presunti modernisti; e, come ricorda lo stesso Padre Lombardi, fu ripreso da Giovanni Paolo II in riferimento a Pio IX. Il ragionamento ha un certo fondamento (non c’è dubbio che i santi possono aver commesso degli errori durante la loro vita, senza che ciò infici in alcun modo la loro santità), anche se bisogna stare attenti a non portare alle estreme conseguenze la contrapposizione tra la “testimonianza di vita cristiana data dalla persona” e la “portata storica delle sue scelte operative”; perché altrimenti non si capisce in che cosa consisterebbe una testimonianza di vita cristiana che non si esprima in concrete scelte operative.

Ma il punto è un altro. Quel che non torna è perché tale distinzione la si applichi solo in alcuni casi: guarda caso, solo con i Papi di nome Pio (IX, X e XII). Come giustamente qualcuno ha fatto notare, le parole pronunciate da Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Pio IX («La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio, la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtú a lode della grazia divina che in esse risplende») non potrebbero applicarsi anche a chi le ha pronunciate? O, nel caso di Papa Wojtyla, ci troviamo di fronte a una santità “senza se e senza ma”, nei confronti della quale non c’è bisogno di alcuna ricerca storica (tanto è vero che si è derogato anche alle norme procedurali da lui stesso emanate)? Significa che d’ora in poi avremo due categorie di santità: una da accettare in blocco (“prendere o lasciare”), senza possibilità alcuna di critica; e l’altra, dove invece sarà possibile procedere a una serie di distinguo (prendiamo le virtú cristiane e rifiutiamo le scelte operative)? Voi capite che, una volta intrapresa questa strada, non si sa dove si va a finire (sarà un caso che la nota di Padre Lombardi non compare nel Bollettino della Sala Stampa?).

Quanto poi alla ricerca storica, mi sembra ovvio che essa debba godere sempre della massima libertà. Non credo che la Chiesa abbia nulla da temere al riguardo. I processi di canonizzazione sono sempre stati un esempio di estremo rigore storico (ed è per questo che dovremmo andarci piano a derogare alle procedure previste, men che meno per assecondare la piazza, facilmente manipolabile). Ma c’è proprio un settore, oggi, dove le leggi di non pochi stati limitano tale libertà di ricerca. Sapete a che cosa mi riferisco. Non mi sembra molto coerente usare, riguardo al medesimo periodo storico, due pesi e due misure.

sabato 28 novembre 2009

Ai lettori

Cari Amici, avrete notato che sono diversi giorni che il blog non viene aggiornato. Avete diritto a una parola di spiegazione. Come sapete, da qualche settimana sono tornato in Italia e ho ripreso il mio consueto lavoro nella comunità, nella scuola e nella parrocchia. Ebbene, devo confessare che, almeno per il momento, non riesco a stare dietro al blog. Non è la prima volta che mi capita: anche quando mi ero trasferito dalle Filippine in India era successo qualcosa di simile. Il cambiamento di ambiente e di attività comporta inevitabilmente una fase di adattamento. In quel caso, dopo qualche tempo, riuscii a organizzarmi.

Ora, direi, stiamo a vedere che cosa succede: se, anche questa volta, dopo una prima fase di rodaggio, riesco a trovare il modo di conciliare l’attività di blogger con i vari impegni a cui devo attendere quotidianamente, oppure no. Se non sarà possibile, significa che sarò costretto a sospendere tale attività. Mi dispiacerebbe, perché ho notato che Senza peli sulla lingua, in questi dieci mesi, ha riscosso un lusinghiero successo in termini di interesse e numero di lettori (proprio in questi giorni in un blog peruviano esso è stato definito “prestigioso”!). Ma, dovendo operare una scelta fra le incombenze richieste dall’obbedienza e un’attività di libera iniziativa, non c’è dubbio da che parte penderà la bilancia: è ovvio che per un religioso al primo posto viene sempre l’obbedienza. “In la sua voluntate è nostra pace”.

martedì 24 novembre 2009

Porgere l'altra guancia?

Ricevo da David:

«Tempo fa, durante uno dei soliti pogrom periodicamente scatenati dai musulmani locali contro la comunità cristiana, un vescovo anglicano della Nigeria mandò a dire ai leader islamici attraverso la stampa che non erano loro i soli a saper usare i fucili. La risposta, almeno nel medio periodo, sortí l’effetto desiderato: agli islamisti forse venne in mente che nel Vecchio Testamento (che è parte integrante delle scritture) David afferma con coraggio: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato”, prima di uccidere Golia. Ora, lasciamo da parte le armi vere e parliamo solo di quelle mediatiche e legali.

Ho letto il caso di Miss Brown e Myriam su Il Sussidiario e mi sono reso conto di una cosa: in fondo, la signora — che nemmeno è cattolica, credo — è stata lasciata sola e in braghe di tela dai suoi correligionari. Già, perché per quello che ho capito non ci sono state fiaccolate per le strade della città in difesa delle due donne, né la diocesi — che immagino sia anglicana o evangelica — ha alzato un dito per difenderla, magari solo costituendosi parte civile — se possibile nel diritto di common law — o meglio ancora pagandole un ottimo avvocato. Mi sono detto: il Signore aveva profetizzato che i figli della luce sarebbero stati meno scaltri di quelli delle tenebre... non castrati! Già, castrati.. nel senso di privi di vigore nel difendersi e nel difendere i deboli. Qualcuno deve avere in testa una bizzarra interpretazione di “porgere l’altra guancia”: se di fronte al male e all’oppressione dei piccoli restiamo inerti, ci rendiamo complici di un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio (per dirla con San Pio X) e attiriamo su di noi quella stessa ira.

Siamo forse ciechi? Non ci accorgiamo che in America l’ABC è un atteggiamento diffuso? Mi riferisco a quel furore antipapista (“All But Catholicism”) che provoca discriminazioni, abusi e non poche violenze contro le comunità cattoliche, indipendentemente dalla loro etnia. Il pregiudizio è talmente diffuso che un solo presidente cattolico è stato eletto in duecento anni in un Paese per oltre un terzo abitato da... papisti. Se questo succede negli Stati Uniti, figurarsi in altri Paesi! Se in Francia la Catholica da un secolo vive sotto il pregiudizio continuo della “laicità di stato”, in Spagna da un lustro il Governo è animato da un furore ideologico spaventoso e privo di rispetto per quanti sono stati massacrati nella Guerra Civile Spagnola (agli “smemorati” che accusano la Chiesa di simpatie franchiste, ricordo che cinquemila religiosi e decine di migliaia di fedeli finirono trucidati dalle sinistre anarchico-socialiste: io ho ottima memoria!). In Russia e in Turchia siamo tollerati a patto di non fiatare. In Cina, in Viet Nam, nel mondo arabo e in Birmania essere cattolico è ragione sufficiente per finire incarcerati senza difesa e senza processo. In India e in Africa si è assistito a “cacce al cattolico” degne di Diocleziano. Le istituzioni europee hanno reso legale il pregiudizio anticattolico: l’ostensione di simboli e la pratica religiosa sono ragioni sufficienti per perdere incarichi pubblici ecc.

Ora, mi domando che senso abbia stare a guardare questo scempio. Certamente, ognuno di noi ha il diritto — di radice evangelica — di porgere la propria guancia all’infinito per ricevere schiaffi: ma nessuno, in buona fede e facendosi scudo delle Scritture, può lasciare che questo succeda agli altri. Quante volte abbiamo voltato la testa dall’altra parte, pensando che in fondo per i cristiani è “normale” essere perseguitati? Ipocrisia: è un modo come un altro per lasciare che le guance degli altri vengano percosse! Perché le conferenze episcopali non si costituiscono parte civile in tutti i processi in cui ci sia “fumus persecutionis” contro cattolici? Mi si dirà che la Chiesa non può rischiare di mettersi dalla parte dei colpevoli: beh, questa è una bella corbelleria! Vige il principio della presunzione di innocenza, non il contrario! Poi, in tanti casi il “fumus” è evidente e merita approfondimenti... Tra l’altro, sarebbe opportuno una buona volta imitare i musulmani e gli ebrei che hanno costituito agenzie apposite, come la Anti-Defamation League, al solo scopo di tutelare il buon nome e la libertà dei loro correligionari e della loro fede. Basterebbe davvero poco: in fondo, non credo che alla Santa Sede o alle Conferenze Episcopali manchino i fondi né le relazioni con principi del foro e giornalisti capaci per scatenare campagne giudiziarie e nei media in difesa dei cattolici oppressi.

Fino a quando continueremo a porgere l’altra guancia... dei fratelli?».

Sono d’accordo. Sempre pronti a batterci il petto, anche per colpe che non abbiamo commesso, ma mai pronti a batterci in difesa della Chiesa.

domenica 22 novembre 2009

Cristo Re

«Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità».

Facciamo qualche difficoltà a cogliere il nesso logico fra la prima affermazione di Gesú («Io sono re») e la seconda («Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità»). Solitamente, per noi, non esiste alcun rapporto fra regalità e testimonianza della verità. La regalità, la colleghiamo spontaneamente con il potere e la forza. La testimonianza della verità, invece, la associamo ad altre figure, come il profeta, il maestro, il martire... certo, non al re. Semmai, il compito dell’autorità, piuttosto che nella testimonianza della verità, lo individuiamo nell’edificazione dell’unità.

Eppure, Gesú ci dice che lui è re, perché è venuto a dare testimonianza alla verità. È vero, nel testo evangelico quel “perché” non c’è; ma, secondo le usuali regole di interpretazione, esso è chiaramente presupposto. Che cosa intende dire Gesú?

Gesú aveva appena affermato: «Il mio regno non è di questo mondo ... il mio regno non è di quaggiú». C’è una profonda differenza fra la regalità umana e quella di Gesú. È vero che la regalità terrena si identifica col potere; ma non è questo che la distingue dalla regalità di Gesú: anche a lui «furono dati potere, gloria e regno ... il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai». La differenza sta nel fondamento di tale potere: nel mondo, il piú delle volte, il potere si fonda sulla menzogna; è una mera manifestazione di forza. Comanda chi è piú forte: il potere, viene per lo piú preso e imposto con la forza. Per nascondere tale realtà, la si avvolge nella menzogna; e questa diventa cosí il fondamento del potere. È per questo che i tiranni temono la verità piú che la violenza: perché sanno che, se si dice la verità, il loro potere si sbriciola (alla violenza, invece, possono sempre opporre altra violenza). Ce lo insegna la storia, anche recente: regimi, che sembravano incrollabili, spazzati via, da un giorno all’altro, dalla forza inerme della verità...

Gesú è venuto nel mondo totalmente disarmato, nella piú assoluta debolezza: la sua sola forza stava nella verità: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità». Eppure, o meglio proprio per questo, «a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28:18). Il suo potere si fonda non sulla forza, ma sulla verità. Il potere, lui non lo prende con la violenza, ma gli viene concesso dall’alto. Il regno di Cristo non è di questo mondo, perché non è un regno che si fonda sulla forza delle armi, sull’oppressione, sulla menzogna, sull’ingiustizia; non è un regno che genera odio, sofferenza e morte, ma un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace».

sabato 21 novembre 2009

Ancora sull'immigrazione

David fa, come al solito, considerazioni molto interessanti sul fenomeno dell’immigrazione:

«Per dire due parole sulle migrazioni, voglio partire da un... tubero! Nel 1846 la Vergine a La Salette fece una profezia: “Le patate marciranno sotto terra”. Nel 1847 la peronospora, un parassita venuto dall’America, distrusse il raccolto del prezioso alimento in tutta l’Europa. Per chi aveva cereali, legumi e vino di cui cibarsi, la perdita fu grave ma non devastante. Per gli Irlandesi, che si nutrivano da generazioni con 5/6 chili di patate (miste a latte) al giorno, significò la piú grave carestia della loro storia. Per cinque anni l’isola verde fu spazzata dalla fame (la “Grande Carestia”, appunto), dalle epidemie e... dall’indifferenza dei padroni, gli Inglesi, che colsero l’occasione per applicare in modo integrale la dottrina malthusiana: non hanno cibo perché sono troppi, sono troppi perché fanno troppi figli, ergo lasciamo che la natura faccia il suo corso... A dire il vero, Londra non rimase del tutto indifferente, cosí come le organizzazioni internazionali e le grandi corporation non sono del tutto sorde alle miseria di certe aree del Terzo Mondo: il Parlamento approvò la cosí detta “Poor Law”, che obbligava i contadini irlandesi a cedere le loro terre per ottenere aiuti utili alla mera sussistenza. Chissà se non fischiano le orecchie a certi fautori di campagne di aiuti umanitari o investitori nell’Africa sub-sahariana... Il risultato fu che l’isola, che aveva una popolazione di 8,2 milioni di persone nel 1841, perse il 25% degli abitanti nel giro di dieci anni e altri quattro milioni nei due decenni successivi. Carestia, sfruttamento, insensata lotta al sovrappopolamento: sono realtà che da due generazioni molti Paesi africani e asiatici conoscono bene. La conseguenza è la stessa che per gli Irlandesi nell’Ottocento: milioni di persone allora si spostarono soprattutto verso gli Stati Uniti, producendo un colossale “shock” per un Paese allora a stragrande maggioranza WASP: White, AngloSaxon and Protestant. Gli Irlandesi, seguiti poi da Italiani e Polacchi, determinarono un radicale cambiamento negli States: apparvero le prime chiese cattoliche, i primi monasteri e infine i primi santuari mariani sulla costa orientale. Oggi, si ha spesso l’impressione che l’immigrazione debba comportare per forza di cose una islamizzazione dei Paesi ospiti. E poi un aumento del tasso di criminalità. Sull’islamizzazione, credo che cozzi contro le cifre vere del fenomeno: la grande maggioranza degli immigrati provengono da Paesi di religione ortodossa (Romania, Russia, Ucraina) o cattolica (Filippine, Polonia, Croazia e Sud America), mentre gli arabi islamici sono soprattutto concentrati in alcune aree (Nord-Ovest dell’Italia, Paesi Bassi, Sud del Regno Unito, Parigi) dove la stupidità di certi politici ha concesso loro privilegi non dovuti e spesso nemmeno richiesti. Altro è il discorso circa la criminalità. A costo di attirarmi le ire dei lettori del Sud, voglio dire che il Centro-Nord dell’Italia aveva già perduto la sua tranquillità con le grandi migrazioni dal Mezzogiorno, che avevano riversato — in mezzo a milioni di campani, calabresi, siciliani e pugliesi onesti — gran parte della feccia della criminalità meridionale nei capoluoghi industriali del Nord. È inutile nascondersi dietro un dito: le organizzazioni mafiose cinesi, russe, nigeriane e marocchine hanno tratto gli stessi vantaggi che a suo tempo conseguirono la Camorra, Cosa Nostra e la Ndrangheta. Ora, parlare di accoglienza in uno scenario come questo, non è facile e a prima vista appare anche una scelta coraggiosa. Ma non sempre è una scelta in favore dei Paesi di origine delle migrazioni: è mia opinione che la Chiesa cattolica tratti spesso questi fenomeni solo dal punto di vista del “grande uomo bianco”. Sí, perché per l’Irlanda la perdita di tre quarti della propria popolazione significò la condanna a uno stato di perenne depressione e di sottosviluppo, che si è allentato per una ventina di anni, fino alla crisi del 2008. Piccola, povera e davvero isolata, l’Irlanda ha cattolicizzato il mondo, ma a un prezzo altissimo. Lo stesso discorso vale per i giorni nostri: l’ingegnere egiziano che fa il pizzaiolo a Napoli o che arrostisce salsicciotti a Central Park magari riesce a inviare delle rimesse a casa, ma rappresenta pur sempre una sconfitta per il suo Paese, che lo ha cresciuto e educato per ben altri compiti. Il rientro in patria degli emigranti italiani, una volta giunti all’età della pensione, ovvero il ritorno in India di ingegneri e tecnici informatici di fronte al boom della Sylicon Valley indiana sono, a dire il vero, il segno che l’emigrazione, lungi da essere un segno di speranza, rappresenta solo una soluzione transitoria fuori dalla disperazione. Forse dovremmo leggere di piú le Scritture sull’esilio degli Ebrei a Babilonia e pensare quanto in fondo “sa di sale lo pane altrui”».

È sempre bene considerare le cose da diversi punti di vista, perché in tal modo se ne scoprono aspetti, che altrimenti rimarrebbero nascosti. Penso comunque che qui non si tratta tanto di esprimere un giudizio di valore sulle migrazioni: se esse siano opportune o no. Esse sono una realtà, di cui dobbiamo prendere atto. Come dicevo ieri, in tutte le cose possiamo scoprire aspetti positivi e negativi (nell’esperienza irlandese, l’aspetto positivo è stato la “cattolicizzazione” degli Stati Uniti; l’aspetto negativo, la depressione di quel paese fino ai nostri giorni). La preoccupazione della Chiesa non è tanto quella di esprimere giudizi di valore sui fenomeni storici, quanto quella di “umanizzare” certe situazioni, che non dipendono da essa: ecco il discorso dell’accoglienza. Certo, sarebbe bello che tutti potessero restare a casa loro, e cosí contribuire allo sviluppo del proprio paese. Forse, come abbiamo detto altre volte, la Chiesa non dovrebbe limitarsi a esortare all’accoglienza; dovrebbe farsi anche promotrice di progresso in loco (e in parte già lo fa). Ma intanto deve fare i conti con una realtà esistente, di fronte alla quale non può rimanere indifferente; e lo fa non solo invitando all’accoglienza, ma anche cercando di trasformare, come dicevamo ieri, quello che potrebbe sembrare solo un problema in un’opportunità.

Pienamente d’accordo sulla stupidità di certi politici: andatevi a leggere questa storia incredibile sul Sussidiario di oggi.

venerdì 20 novembre 2009

Chiesa e immigrazione

Beatrice, dalla Francia mi chiede un parere su una questione molto attuale, delicata e dibattuta: l’immigrazione. Nel suo messaggio fa riferimento al discorso pronunciato dal Santo Padre, una decina di giorni fa, nel corso dell’udienza ai partecipanti al VI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati. E aggiunge:

«Come dice Caterina per un altro soggetto, si tratta di un argomento che, “non avendo nulla a che fare con l’infallibilità”, può essere pacificamente discusso. Debbo confessare che faccio un po’ fatica a capire che cosa si aspetta il Santo Padre da noi (pur essendo sicura che egli dice la sola cosa possibile nel suo ruolo) leggendo questo: “La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie, sapendo che essi non sono solo un ‘problema’, ma costituiscono una ‘risorsa’ da saper valorizzare opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo”. Personalmente, credo di fare il mio possibile, ma l’inverso non è affatto evidente, qui dove vivo...».

Sono d’accordo con Beatrice che, trattandosi di una questione pastorale, non entra in gioco l’infallibilità, che riguarda esclusivamente le questioni dottrinali di fede e di morale. I problemi pastorali possono avere soluzioni diverse (e di fatto la Chiesa li affronta in maniera diversa, a seconda dei tempi e dei luoghi) e se ne può perciò liberamente discutere. Ciò non significa però che la Chiesa non abbia il diritto — e il dovere — di dare ai fedeli degli orientamenti da seguire, ispirandosi ai principi morali (quelli, sí, immutabili) e tenendo conto delle situazioni concrete in cui viviamo. Si tratta di uno dei compiti principali della Chiesa in ogni tempo: essa non deve solo interpretare e proclamare la retta dottrina, ma deve anche applicare tale dottrina alle diverse epoche storiche e ai diversi ambienti geografici in cui si trova a vivere.

Benedetto XVI, giustamente, rileva nel suo discorso: «Se il fenomeno migratorio è antico quanto la storia dell’umanità, esso non aveva mai assunto un rilievo cosí grande per consistenza e per complessità di problematiche, come al giorno d’oggi. Interessa ormai quasi tutti i Paesi del mondo e si inserisce nel vasto processo della globalizzazione». Se questa osservazione è vera — come è vera (e penso che nessuno possa eccepire sulla sua validità) — potrebbe la Chiesa ignorare tale fenomeno e far finta che non esista? Se lo facesse, allora sí che la si potrebbe accusare di vivere fuori del mondo. Non è solo suo diritto, ma è suo dovere prendere posizione in materia, non per “fare politica” (è ovvio che non è compito della Chiesa proporre soluzioni tecniche al problema), ma per ricordare i principi morali che devono guidarci nella ricerca di tali soluzioni tecniche e, soprattutto, per indicarci quale deve essere l’atteggiamento di fondo, le disposizioni interiori con cui dobbiamo affrontare il problema.

Il tema del convegno (e del discorso del Papa) era: “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”. Esso ci ricorda che la novità non sta nel fenomeno migratorio in sé (sempre esistito), ma nell’era della globalizzazione, in cui esso si inserisce. Per quanto si possa discutere sulla globalizzazione, essa è un dato di fatto, è la realtà in cui viviamo: ne godiamo dei benefici e ne subiamo gli inconvenienti. Dove inseriamo le migrazioni: fra i benefici o fra gli inconvenienti della globalizzazione? Probabilmente sia fra gli uni che fra gli altri, perché tale fenomeno comporta tanto benefici quanto inconvenienti; come, del resto, qualsiasi altra realtà umana: non c’è rosa senza spine.

La tentazione, che assale anche molti cristiani, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione e dall’immigrazione è quella di chiuderci in noi stessi e dire (come abbiamo sentito ripetere anche in questi giorni): “Tornino a casa loro! Non c’è lavoro per noi; figuriamoci per loro!”. Può essere una reazione comprensibile; ma del tutto irrazionale. In certi casi, non possiamo lasciarci guidare dalle emozioni; dobbiamo usare la testa. Soprattutto chi ha la responsabilità della cosa pubblica e deve trovare le soluzioni tecniche di cui si diceva, deve farlo usando la ragione e non assecondando le spinte emotive.

Il pensare di potersi chiudere in sé stessi e in tal modo risolvere i nostri problemi è semplicemente ingenuo e illusorio. Che lo si voglia o no, viviamo in un mondo globalizzato; siamo cioè interconnessi col resto del mondo e dell’umanità. E non possiamo farne a meno: tanto vale cogliere questa occasione per trarne il maggior beneficio per noi stessi e per gli altri. Viene gente da ogni parte del mondo a cercare lavoro qui da noi? Che male c’è? Lo abbiamo fatto anche noi nel passato; e se oggi godiamo di un certo benessere, lo dobbiamo anche ai sacrifici dei nostri padri e dei nostri nonni, che hanno lasciato l’Italia in cerca di fortuna all’estero. Inoltre, noi abbiamo bisogno di questi lavoratori: non è vero che rubano il lavoro ai nostri figli; semplicemente riempiono dei posti che, senza di loro, rimarrebbero vuoti. Non solo non possiamo rifiutarli, ma dovremmo essere loro riconoscenti, perché vengono a svolgere dei servizi, di cui abbiamo bisogno e che altrimenti nessuno farebbe.

Questo, credo, significhi trasformare un “problema” in una “risorsa”. È vero che talvolta tale frase può trasformarsi in uno slogan; ma si tratta di un principio generale profondamente vero: saggio è colui che è capace di trasformare i problemi in “opportunità”. Anziché continuare a lamentarsi, imprecare e piangersi addosso, è molto meglio cercare di trarre qualche vantaggio da certe situazioni che siamo costretti a subire. Difficile? Non c’è dubbio; ma dove sta scritto che la vita sia facile? Oltre tutto, quando non ci sono soluzioni alternative, l’unica via da seguire è appunto questa: sfruttare la situazione per trarne la maggior convenienza. Come vedete, non faccio un discorso moralistico, ma un discorso di interesse (ovviamente, non un tornaconto egoistico, ma, se vogliamo, “globale”).

Beatrice chiede: Che cosa si aspetta il Santo Padre da noi? Non sono il Santo Padre per poter rispondere alla domanda; ma il buon senso mi suggerisce che certamente non si aspetta che noi risolviamo problemi piú grandi di noi: non ci riescono i politici; dovremmo riuscirci noi? Credo che l’unica cosa che il Papa si attende dai cristiani sia, appunto, un atteggiamento di “apertura” nei confronti degli immigrati: «La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie». “Aprire il cuore” non significa, necessariamente, aprire la propria casa o aprire il portafoglio: ci potranno essere dei momenti o delle situazioni in cui ci viene chiesto anche questo; ma è ovvio che, in generale, i semplici fedeli (e cittadini) non possono farsi carico dei problemi dell’umanità intera. “Aprire il cuore” significa non essere prevenuti verso gli immigrati, non considerarli dei “nemici” o dei criminali, ma dei poveri disgraziati, che hanno bisogno della nostra compassione e del nostro aiuto. Aiuto non significa fare loro l’elemosina (oltretutto non rispettosa della dignità delle persone), ma dare loro la possibilità di trovare un lavoro e una sistemazione: se, per esempio, abbiamo bisogno di qualcuno che lavori per noi, non dovremmo escludere la possibilità di affidare (pur con tutte le cautele e nel pieno rispetto della legalità) tale lavoro a un immigrato. Ma ciò che è piú importante è vedere negli immigrati non delle bestie, ma degli esseri umani o, se volete, dei “fratelli” (anche quando non condividono la nostra stessa fede, ma sono pur sempre “figli di Dio”). Non potremo forse risolvere tutti i loro problemi; ma, per lo meno, li avremo fatti sentire accolti e non degli stranieri.

martedì 17 novembre 2009

Di ritorno dall'Asia

Vi avevo detto che ho terminato la mia esperienza missionaria in Asia e sono tornato in Italia. Vorrei riferirvi brevemente di questa esperienza, perché potrebbe essere interessante. Forse, chiamarla “missionaria” è un po’ eccessivo: il motivo per cui sono andato in Asia era principalmente la formazione dei nostri candidati alla vita religiosa. Soprattutto per motivi di comunicazione (e anche per altri motivi che vi dirò), non è che si potesse fare molto di piú.

Come sapete, ho trascorso cinque anni nelle Filippine, in due riprese: dal 2003 al 2005 e poi dal 2006 al 2009. Le Filippine, a rigor di termini, non sono “terra di missione”, essendo un paese (l’unico in Asia!) a stragrande maggioranza cattolico; ma i sacerdoti stranieri vengono comunemente (e anche legalmente) considerati “missionari”. Sono andato nelle Filippine, quando ero assistente generale dell’Ordine, per aprire lí il nostro seminario teologico. Come molti altri istituti religiosi, anche la nostra Congregazione si è recata nelle Filippine (quest’anno ricorreva il ventesimo anniversario di fondazione) per far fronte alla penuria di vocazioni. Il Signore ci ha benedetto con una grande abbondanza di seminaristi. Per diversi anni, questi, dopo il noviziato svolto in patria, venivano in Italia per lo studio della teologia; ma, a un certo punto, ci siamo resi conto che era meglio che svolgessero tutta la formazione nel loro paese (lo stesso si fece per i latinoamericani e gli africani). Per questo, nel 2003, decidemmo la costituzione di un nuovo studentato teologico, il “Saint Paul Scholasticate”, a Tagaytay, una città in un’incantevole posizione, a una cinquantina di chilometri a sud di Manila. In mancanza di personale disponibile, mi trasferii in loco per la realizzazione del progetto: avvio del seminario in una casa presa in affitto dai Verbiti; acquisto di un terreno; costruzione del nuovo studentato. Quando la nuova struttura fu conclusa, pochi giorni dopo la sua inaugurazione, il Padre Generale mi richiamò a Roma per la preparazione del Capitolo generale (2006). Dopo il Capitolo, ridiventato “privato cittadino”, mi fu chiesto di tornare nelle Filippine e riprendere la conduzione dello studentato, dove sono rimasto fino all’aprile di quest’anno. Attualmente esso è diretto da padri filippini e conta oltre venti studenti professi teologi (a essi vanno aggiunti una dozzina di novizi e una quarantina di aspiranti).

L’esperienza filippina è stata molto bella; non ho fatto alcuna fatica ad adattarmi. Le Filippine sono un ambiente assai accogliente, dove ci si sente a proprio agio. I filippini, li conoscete: sono persone riservate, rispettose, gentili e amabili. E poi sono cattolici, con uno spiccato senso religioso (che forse talvolta rischia di sconfinare nella superstizione). Hanno un grande rispetto per la Chiesa e, in particolare, per i sacerdoti. Tale rispetto si traduce pure in leggi particolarmente favorevoli alla Chiesa. Le Filippine sono un paese laico, ma di una laicità positiva, del tutto aliena dalle tendenze anticlericali presenti in Europa. L’unico problema per noi missionari stranieri è quello della lingua: l’inglese, pur essendo una delle lingue ufficiali, è parlato solo da un’élite; per comunicare con la gente bisognerebbe studiare le lingue locali (che per fortuna non sono affatto difficili), ma io non ho avuto abbastanza tempo per farlo (anche se celebravo la Messa in tagalog).

Quest’anno Padre Generale mi ha chiesto di trasferirmi in India, dove nel frattempo (due anni fa) la Congregazione aveva aperto una nuova fondazione. Il mio predecessore era stato costretto a lasciare il paese, accusato di proselitismo. Finora non avevo rivelato la mia residenza, per evitare che si ripetesse la stessa avventura; che invece si è ripetuta anche per me; per cui, allo scadere del mio visto (turistico) semestrale, ho dovuto lasciare il paese. Ora c’è lí un sacerdote indiano con una dozzina di seminaristi (oltre quattro indiani che tanno facendo il noviziato nelle Filippine). La nostra fondazione è a Bangalore, capitale dello stato del Karnataka, nel sud del paese. Bangalore è una grande città, centro mondiale dell’informatica. È considerata una specie di “Vaticano” dell’India, perché vi sono presenti un po’ tutti gli istituti religiosi; ma nello stato i cristiani sono una infima minoranza e spesso perseguitati: ogni tanto viene ucciso qualche prete; spesso le chiese sono profanate; gli stranieri sono tenuti sotto controllo. C’è al potere il partito fondamentalista indú BJP (mentre a livello nazionale governa il Partito del Congresso di Sonia Gandhi).

L’esperienza in questo tipo di ambiente non è stata facile: come “turista” non potevo fare nulla; avrebbero voluto che neppure facessi lezione ai seminaristi (in casa) o addirittura che non predicassi durante la Messa. Eppure è stata un’esperienza importantissima per me, perché era la prima volta che mi trovavo a vivere in un paese non-cristiano. E lí ho potuto rendermi conto della vitalità della Chiesa e della forza del Cristianesimo. E mi par di capire che è proprio questo che provoca la reazione anticristiana: hanno paura che il Cristianesimo abbia il sopravvento. E hanno ragione ad aver paura, perché sono convinto che, prima o poi, l’India diventerà un paese cristiano: ci sono molti indú e musulmani che, pur non convertendosi per motivi di convenienza, sono intimamente convinti della verità del Cristianesimo (tanto per farvi un’idea, date un’occhiata a questa notizia dell’altro giorno su AsiaNews). A Bangalore c’è il piú importante santuario mariano, la Saint Mary’s Basilica, che sorge nel bel mezzo del quartiere musulmano, ed è frequentato da tutti: cristiani, induisti e musulmani. Tutti hanno un grande rispetto e devozione verso la Madonna. Nel nord del paese ci sono degli stati che stanno diventando completamente cristiani. Voi capite che tutto ciò crea inquietudine fra i fondamentalisti, che vorrebbero che l’India fosse un paese indú (non lo è mai stato, essendo sempre stato un paese multietnico e multireligioso, e cosí lo voleva Gandhi; ma la divisione con il Pakistan ha creato l’idea che questo dovesse essere uno stato islamico e l’India un paese indú).

Naturalmente, anche la Chiesa indiana ha i suoi problemi: soprattutto, le divisioni tra diversi riti (latino, malabarese e malankarese), diverse lingue (a Bangalore, la diocesi vuole che si usi la lingua locale, il kannada; ma la maggior parte dei cattolici sono tamil con consistenti minoranze di malayalee del Kerala; e lo stesso Arcivescovo è di lingua konkani, la lingua di Goa: potete immaginare che caos!) e diverse caste (ancora ufficialmente esistenti in alcuni stati). Eppure, nonostante le difficoltà, la Chiesa appare forte e in piena espansione: lí si ha la chiara riprova che la vitalità della Chiesa non dipende dai nostri sforzi umani, ma dalla grazia di Dio.

Ora torno alle mie consuete attività, ma con una coscienza piú viva dell’universalità della Chiesa, che mi aiuta a ridimensionare i nostri piccoli problemi di ogni giorno e ad affrontarli in una luce totalmente nuova.

lunedì 16 novembre 2009

Chiesa e Internet

Si è svolto nei giorni scorsi in Vaticano un simposio su Internet, promosso dalla Commissione per i mezzi di comunicazione del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE). Ne potete leggere la notizia su ZENIT.

Caterina mi ha inviato un suo commento all’intervento di Monsignor Jean-Michel di Falco Léandri, Vescovo di Gap e Embrun (Francia) e Presidente della Commissione episcopale europea per i media, il quale ha riferito di «un’inchiesta condotta nel mondo francese di Internet che mostra come i siti evangelici siano piú visitati di quelli cattolici, anche se la popolazione cattolica del Paese è molto piú consistente di quella evangelica». Ecco le riflessioni di Caterina:


«Nota mia sui siti evangelici che conosco da 10 anni, almeno quelli in Italia. Non è affatto vero che essi escono da se stessi per mettersi come prima cosa al posto degli altri, rispondono ai bisogni. È vero invece che essi usano Internet per evangelizzare soprattutto i cattolici. Mi fa davvero specie che il presule nell’inchiesta non abbia annotato la cattiveria e l’astio della maggior parte dei siti evangelici contro la Chiesa cattolica, contro il Papa, contro il culto a Maria e ai santi. E come si fa a proporre come esempio dei siti come quelli evangelici che fanno riferimento alla Bibbia con una interpretazione diversa da quella della Chiesa?

E mi fa specie che il presule non abbia annotato che il maggior successo dei siti web evangelici sta nei soldi: molti degli iscritti pagano di tasca propria il mantenimento delle spese; in altri c’è la decima; altri ancora prestano gratuitamente la loro bravura al sito. Indubbiamente la vera differenza fra i siti cattolici e quelli evangelici sta proprio nella necessità del concetto di comunità-comunione, che fra di noi purtroppo non si avverte.

Mi sono imbattuta nel tempo in forum gestiti da preti e suore progressiste che non disdegnavano il bannare facile se ti azzardavi, prima dell’avvento di Benedetto XVI, a difendere la liturgia nella sua tradizione. Il presule avrebbe potuto motivare meglio tali differenze con gli evangelici dal momento che in Internet c’è una vera differenza fra i siti, blog e forum di matrice progressista da quelli tradizionali cattolici; problemi che gli evangelici non hanno, dal momento che sono preoccupati di evangelizzare principalmente i cattolici.

Il dramma dei cattolici nella rete, riguardo a molti forum, sta nell’invidia fra gruppi. La preoccupazione di taluni forum sta nell’audience, nelle classifiche, nel farsi notare dagli altri, nel sottolineare di essere gli unici. Sono pronti ad umiliare gli iscritti soprattutto di matrice tradizionale; molti di questi gruppi si scontrano con delle enormi contraddizioni:
— alcuni hanno una obbedienza al Papa idolatrica; di conseguenza diventa impossibile poter approfondire argomenti inerenti a delle scelte del Papa che, non avendo nulla a che fare con l’infallibilità, possono essere pacificamente discusse, ma a causa dell’incapacità di taluni gestori dal ban facile, si è costretti a tacere;
— altri pur sapendo di non sapere, non accettano che si porti il Magistero della Chiesa integralmente. Le proprie opinioni sono diventate le nuove verità da difendere a discapito della vera fede;
— ci sono altri ancora che nuotano nel sincretismo piú puro; hanno come regolamento il “volemose bene” al di là di che cosa sia la Verità.

Il presule ha dimenticato inoltre di annotare che il problema di coordinamento tra forum cattolici nasce anche qui da una difesa sbagliata del Concilio; un problema che appunto i siti evangelici non hanno. La prassi liturgica, la dottrina nel suo rituale, le norme che stabiliscono come si deve prendere la comunione ecc. sono problemi attuali che indubbiamente dividono i cattolici non solo nella rete ma anche fuori nella vita reale.

Se il presule non se ne fosse accorto (ma, vantandomi in Cristo, è necessario che dica che sono anni che lo vado scrivendo in Internet), i cattolici sono divisi: i movimenti navigano per conto loro sia nei loro territori sia nella rete; idem i francescani, i domenicani ecc. Ognuno cura il suo orticello; di conseguenza ciò che è la realtà quotidiana si riscontra nella rete.

Gli evangelici, assai piú furbamente, non sono divisi; sono indipendenti — è diverso — e si tengono uniti per una comune battaglia quella contro la Chiesa cattolica. Al contrario per noi cattolici seppur scoordinati — mi sia concesso dirlo — la battaglia comune è quella della propria identità; e non facciamo altro che rispecchiare la confusione che viviamo nella Chiesa, dove l’identità cattolica è davvero diventata motivo di discussione a causa, purtroppo, di 40 anni di apostasia e soprattutto di anarchia.

Ergo, i forum cattolici non fanno altro che rispecchiare in rete questi problemi; ma, per favore, evitiamo la diplomatica scelta di portarci come esempio gli evangelici. Per loro, il presule che ha detto queste cose, è un idolatra, ed eretico».


Prima di rispondere a Caterina, vorrei dire qualcosa in generale sul simposio. Mi fa piacere che la Chiesa si muova in questo campo; che si renda conto che il mondo sta cambiando, e cerchi di stare al passo coi tempi. Anche questo è un segno di vitalità della Chiesa: è la smentita — se mai ce ne fosse bisogno — che la Chiesa non vive nel passato, come taluni anticlericali d’altri tempi (loro, sí, rimasti ancorati a una visione ideologica totalmente superata) vorrebbero farci credere.

La mia preoccupazione è per le conseguenze di tali convegni. Mi spiego. Molti dei partecipanti a tali incontri fanno una certa fatica ad accostarsi a certi fenomeni, non per pregiudizio, non per rifiuto aprioristico, ma, il piú delle volte, per mere ragioni anagrafiche. Manca loro l’approccio “naturale” verso questi mezzi, proprio delle nuove generazioni, che sono nate e cresciute alla loro ombra. Per molti occorre fare uno sforzo reale di adattamento a certe novità. Niente di male; non è una colpa; è un fenomeno naturale. Io stesso, che pure non sono vecchissimo, faccio talvolta fatica a cogliere l’utilità e il funzionamento di certi nuovi strumenti (p. es., il “social network”).

Il rischio è che, proprio perché si deve fare uno sforzo per adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, qualche volta li si sottovaluti (non riuscendo a coglierne le potenzialità) e qualche altra li si sopravvaluti (considerandoli una specie di strumenti magici). E si faccia fatica a prenderli per quello che essi in realtà sono: strumenti utili, ma che non possono essere in alcun modo assolutizzati.

Un altro pericolo è che, non sentendosi competenti in questo campo, spesso ci si affidi a sedicenti “esperti”, i quali il piú delle volte, approfittando della nostra buona fede, fiutano l’affare. Un avviso per tutti: quando qualche “tecnico” vi accosta, chiamandovi “Reverendo Padre” o “Eccellenza Reverendissima” e proponendovi progetti faraonici, diffidate; state pur certi che vuole far soldi alle vostre spalle.

Infine, c’è un altro rischio in cui è facile incorrere nella Chiesa: quello della pianificazione, della regolamentazione e dell’accentramento. Che ci sia bisogno di un coordinamento, non c’è dubbio; ma pensare che tutto debba essere controllato dalla diocesi o dal Vaticano, mi sembra totalmente fuori luogo. Anche nella Chiesa ci deve essere spazio per la “libera iniziativa”. I pastori, nella Chiesa, non sono gli unici da cui devono partire le iniziative; sono piuttosto quelli che “esaminano ogni cosa” (1 Ts 5:21), ne discernono l’autenticità e coordinano le iniziative dei fedeli. Nel simposio vaticano Mons. Celli ha pronunciato una frase rivelatrice: «I mezzi di comunicazione sociale sono lasciati all’iniziativa di individui o piccoli gruppi, ed entrano nella programmazione pastorale solo a livello secondario». Ecco la grande preoccupazione: la “programmazione pastorale”, che è diventata nella Chiesa qualcosa di molto simile alla “pianificazione economica” di sovietica memoria. Se qualcosa non rientra nella “programmazione pastorale”, non ha diritto di cittadinanza nella Chiesa.

Ed ecco che vengo al problema posto da Caterina. Concordo con lei sul quanto meno discutibile paragone con gli evangelici. È ovvio che l’erba del vicino è sempre piú verde. Personalmente, devo riconoscere di non frequentare siti evangelici, eccetto quelli biblici, che offrono una notevole ricchezza di testi e traduzioni. Sinceramente, non ho mai avuto occasione di imbattermi in siti protestanti anticattolici.

Ricordo solo che, quando ero giovane (a quel tempo Internet non esisteva ancora), ascoltavo frequentemente stazioni radio protestanti, e quel che mi colpiva positivamente era l’uso che facevano della radio per l’annuncio puro del Vangelo, senza la preoccupazione della cultura, dell’intrattenimento, ecc. Nulla a che vedere con la Radio Vaticana (l’unica stazione cattolica allora esistente; Radio Maria era di là da venire).

Ora — ci assicura il Presidente della Commissione episcopale europea per i media — «gli evangelici ascoltano e i cattolici parlano»; «gli evangelici escono da se stessi per mettersi come prima cosa al posto degli altri. Rispondono ai bisogni»; «la Chiesa cattolica parla forse partendo da se stessa senza prendere sufficientemente in considerazione ciò che vive la gente»; «i siti cattolici sono centrati su se stessi [e sono] considerati come strumenti e non come un mondo da evangelizzare; [sono] delle estensioni o dei duplicati dei nostri foglietti parrocchiali, dei nostri bollettini diocesani. Sono ad uso interno. Parlano una lingua per iniziati ad uso esclusivo degli iniziati. I siti evangelici, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando Internet come strumento e vettore di evangelizzazione».

Sinceramente, mi sembrano belle frasi, a effetto; ma, dopo tutto, non cosí sensate. In qualche caso, di difficile comprensione. Che significa dire che i siti cattolici sono «considerati come strumenti e non come un mondo da evangelizzare», e poi affermate che, invece, gli evangelici usano Internet «come strumento e vettore di evangelizzazione»? Faccio difficoltà a cogliere la logica di tale ragionamento.

In ogni caso — e questo lo dico non solo ai partecipanti al simposio, ma anche a Caterina — non mi sembra proprio il caso di disperare. Non mi pare che noi cattolici siamo messi cosí male in questo campo: c’è un pullulare di siti, blog, forum, da fare invidia a chiunque (personalmente, non mi preoccuperei piú di tanto per la varietà delle presenze: il pluralismo è un segno della ricchezza e della vitalità della Chiesa). A sentire certi discorsi, sembra quasi che la Chiesa cattolica sia assente dalla rete. Beh, se per Chiesa cattolica si intende solo la Chiesa istituzionale, forse (ma non è vero neppure in tal caso, giacché la Santa Sede, tutte le diocesi e tutti gli istituti religiosi hanno il loro sito). Ma la Chiesa non è solo questa; ci sono anche i fedeli che, individualmente o in gruppo, affollano la rete, in maniera spesso artigianale; ma si tratta pur sempre di una presenza.

Ora, la mia preoccupazione è appunto quella che, oltre a possibili interventi dello Stato o dell’Unione Europea tesi a regolamentare (leggi: imbavagliare) la rete, adesso ci si metta anche la Chiesa, per inserire siti, blog e forum nella “programmazione pastorale”. Il che significherebbe la fine di tutto. Magari per avere su Internet il corrispondente di “Sat2000” televisivo, che costa una barca di soldi e nessuno segue. Beh, direi che è meglio tenerci i nostri poveri blog, lasciando che sia la “fantasia pastorale” e lo Spirito Santo a suggerirci come utilizzare al meglio questi nuovi strumenti per l’annuncio del Vangelo.

domenica 15 novembre 2009

XXXIII domenica "per annum"

«Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Gesú ci annuncia che cosa avverrà alla fine dei tempi: egli tornerà «sulle nubi con grande potenza e gloria». È uno degli articoli del Credo che professiamo: «E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti». È già venuto una prima volta, nell’umiltà e nella debolezza; tornerà una seconda volta «con grande potenza e gloria».

Quando avverrà ciò? «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre». Se nessuno lo sa (neppure il Figlio!), significa che non è importante per noi conoscere il momento; è sufficiente sapere che «egli è vicino, è alle porte».

«Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo».

Il Signore, quando tornerà, che cosa verrà a fare? A radunare «i suoi eletti dai quattro venti». Nel Credo diciamo che verrà a giudicare i vivi e i morti: forse tale espressione può incuterci un po’ di timore; certo un timore salutare, perché fa bene temere il giudizio che ci attende. Ma Gesú qui ci presenta la stessa realtà in modo piú positivo: verrà a radunare i suoi eletti. Se noi siamo fra questi (e lo siamo!), che cosa temere? Dovremmo piuttosto essere animati da grande serenità e fiducia.

«In verità io vi dico: il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

La nostra serenità e fiducia si fondano sulle parole del Signore, piú stabili di qualsiasi altra realtà. Solitamente siamo portati a pensare che non ci sia nulla di piú stabile del cielo e della terra: tutto cambia, tutto passa; ma il cielo e la terra sono sempre lí, immutabili. Eppure Gesú ci assicura che anche il cielo e la terra passeranno. Solo le sue parole non passeranno. E questo perché lui rimane stabile per sempre: «Gesú Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13:8). Di che preoccuparci? Mentre tutto cambia, tutto passa, c’è qualcosa che rimane fermo, sempre identico a sé stesso: Gesú Cristo e le sue parole. Uniti a lui, siamo già partecipi dell’eternità: in mezzo agli sconvolgimenti del mondo, rimaniamo tranquilli, perché fondati su una roccia che non viene scossa neppure dalla fine di tutte le cose. «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

sabato 14 novembre 2009

Ancora sulla cremazione

Un lettore spagnolo, Martín, mi ha scritto a proposito del post di ieri sulla cremazione:


«Carissimo Padre, grazie per il Suo articolo, sono d’accordo al cento per cento. Qualche commento:

1) Mi sembra che questo atteggiamento è contrario allo spirito del Codice di diritto canonico, che dispone: “Enixe commendat Ecclesia, ut pia consuetudo defunctorum corpora sepeliendi servetur (= la Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti)” (can. 1176 §3). Cioè, non si tratta di una cosa neutra; noi abbiamo una consuetudine che esprime la nostra fede.

2) Che fede è la nostra se non è operosa, se non si manifesta, se si accontenta di seguire quello che tutti fanno o, peggio ancora, quello che il business consiglia, di che fede si tratta? Mi sa che Lei ha ragione, questo è un passo nel processo di neopaganizzazione.

3) Racconto brevemente, quello che so della realtà del mondo ispanico. A Santiago del Cile, la stessa arcidiocesi si è associata con un gruppo di imprenditori per iniziare l’affare delle cremazioni. Dopo la cremazione “cattolica” le ceneri sono messe in una apposita struttura costruita nel cortile delle parrocchie. Ci sono decine di rappresentanti che percorrono le parrocchie e le case offrendo questo “servizio”. Secondo la informazione che ho, lo scopo di questa operazione è... guadagnare soldi, tutto qui. Mi domando: e quello che dice il Codice di diritto canonico che la Chiesa “raccomanda vivamente”, dov’è? Come può la Chiesa “raccomandare vivamente” la sepoltura dei corpi se la stessa diocesi promuove la cremazione porta a porta? Secondo me questo è una vergogna. Mi viene da piangere quando penso alla fede nella risurrezione dei primi cristiani che hanno fatto chilometri e chilometri di gallerie per custodire i corpi dei morti. Sarebbe stato molto piú facile fare la cremazione come i pagani».


Martín tocca un altro punto, che avevo tralasciato nel mio post, ma di cui ero già a conoscenza. Come dicevo ieri, nelle Filippine la pratica della cremazione è diventata comune fra i cattolici. E anche lí si è già trasformata in un business. Non so se siano coinvolte le diocesi, ma certamente lo sono molti parroci (che costruiscono colombari nelle loro chiese per poi venderne i loculi) e soprattutto laici, i quali magari costruiscono santuari, che in realtà sono vere e proprie “necropoli”.

Penso che, se non altro, i nostri Vescovi, fra i vari “paletti” fissati per rendere ammissibile fra i cristiani il fenomeno delle cremazione, avrebbero dovuto considerare anche l’aspetto commerciale: evitare che il tutto si trasformi in un grosso business, magari con la partecipazione diretta della Chiesa. È vero che ogni cosa ha un risvolto commerciale (basta pensare alle nostre agenzie di pompe funebri); ma, come giustamente fa notare Martín, non sembra molto coerente per la Chiesa fare soldi con una pratica quanto meno contraria alla tradizione cristiana.

venerdì 13 novembre 2009

A proposito di cremazione

I Vescovi italiani, nell’Assemblea generale conclusasi ieri ad Assisi, hanno approvato la bozza del nuovo Rito delle esequie (se ne veda la notizia riportata da ZENIT). In tale nuovo Rito è prevista anche la possibilità di esequie anche a coloro che scelgono la cremazione.

Non si tratta di una novità: la Chiesa aveva già da tempo ammesso la cremazione, a condizione che non fosse dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana. Il fatto è che, finora, tale concessione sembrava solo una possibilità ipotetica, riservata a qualche tipo un po’ eccentrico. Ora invece sta diventando una prassi sempre piú diffusa. Ecco le cifre riportate da ZENIT: «In vent’anni si è passati dalle 3.600 cremazioni del 1987 alle quasi 60.000 del 2007».

È ovvio che la Chiesa non può rimanere indifferente di fronte ai fenomeni di massa come questo; è ovvio che deve in qualche modo intervenire, dando delle direttive e fissando dei paletti. In questo caso, la Chiesa italiana si era già pronunciata due anni fa con il sussidio pastorale Proclamiamo la tua risurrezione; ora interviene di nuovo con il Rito delle esequie. I Vescovi pongono dei limiti precisi: le ceneri non possono essere disperse e non possono essere conservate «in luoghi diversi dal cimitero». Mi pare il minimo, per potersi dire ancora cristiani.

Eppure, nonostante queste precise indicazioni, confesso che le nuove norme mi lasciano alquanto perplesso. Perché? Perché segnano una rottura con una ininterrotta tradizione. Non dimentichiamo che il Cristianesimo è nato in un tempo in cui l’incenerimento era prassi comune; eppure i cristiani scelsero l’inumazione, perché tale uso esprimeva meglio la loro fede nella risurrezione. Avrebbero potuto anche loro fare qualche “contorsione” teologica; ma non la fecero, perché il seppellimento del corpo era un segno che parlava da sé. I segni — lo sappiamo — sono di solito molto piú eloquenti di tanti giri di parole.

Ecco dove sta il problema: la nuova linea adottata dalla Chiesa, pur essendo teoricamente corretta, rischia di favorire il processo di secolarizzazione e “ripaganizzazione” della società. Accettare la cremazione, pur con tutte le precisazioni e i distinguo, trasmette un messaggio ben chiaro: non esiste risurrezione; dalla natura veniamo e alla natura torniamo.

Ma allora, che fare di fronte alla diffusione della cremazione anche fra i cattolici? So bene che si tratta di un fenomeno incontrollabile. Quando ero nelle Filippine mi sono reso conto che ormai tale pratica è diffusa anche fra il clero. Un giorno, al termine della Messa, rimasi interdetto, quando una signora, con un fagottino sotto braccio, mi chiese di benedire le ceneri del marito. Ma non credo che sia saggio limitarsi semplicemente a prendere atto della situazione; in qualche caso bisogna reagire, come fecero i primi cristiani. “Bisogna evangelizzare”, si dice. Certo, ma non si evangelizza solo con le parole; spesso un segno, un gesto, una pratica sono molto piú efficaci di tante prediche. Certa timidezza pastorale non paga; qualche volta, forse, dovremmo avere il coraggio di prendere posizioni nette e controcorrente anche di fronte a questioni apparentemente secondarie.

mercoledì 11 novembre 2009

E gli anglicani del "terzo mondo"?

David, come al solito, fa alcune considerazioni molto interessanti sulle possibili conseguenze della Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus:


«Quando nel 1993 un incendio distrusse parte del castello di Windsor, negli stessi giorni in cui la Chiesa anglicana nominava le prime “pastore” (ci hai fatto caso? certi liberal che si riempiono la bocca di neologismi cacofonici come “ministra” e “sindaca”, la parola “sacerdotessa” non va a genio e preferiscono parlare di donne prete o donne pastore... buffo il mondo!): con arguzia, il buon vecchio Il Sabato, il mai abbastanza rimpianto settimanale di CL, titolava: “Anglicani in fiamme”. Evidentemente, ci sono voluti tre lustri perché l’incendio divampasse in tutta la comunione anglicana e riducesse in polvere questa bizzarra “chiesa” i cui dogmi sono decisi dal Parlamento di Londra e che, forse piú di tutte le altre chiese “riformate”, si è inginocchiata davanti al mondo e alle sue mode.

Condivido in pieno la tua analisi: la Roma papista si è dimostrata materna e flessibile, là dove la liberale Canterbury era stata dura di cuore e ottusa.

Ora, però, converrà spostare lo sguardo dal centro amministrativo dell’anglicanesimo (una denominazione cattolica fra le piú “burocratiche”) alle sue membra (alcune piuttosto vivaci), sparse per i cinque continenti, dato che a torto fino a oggi l’attenzione si è concentrata solo sui circa cinquecentomila anglicani cattolici che risiedono in Inghilterra, in Australia e negli States.

Parliamo intanto di cifre: i fedeli anglicani nel mondo (compresi quelli americani, della “filiale” episcopaliana) sono circa 77 milioni, con 450 diocesi. Di questi, la maggior parte non risiede nel Regno Unito (17-18 milioni) ma in Nigeria (18 milioni). L’India ha il doppio di battezzati anglicani rispetto al Canada (4 vs 2 milioni). Allo stesso modo, Kenia e Sud Africa insieme hanno quattro volte piú fedeli della Chiesa Episcopaliana americana (8 vs 2 milioni). In Tanzania e Uganda l’anglicanesimo conta ben 11 milioni di membri, circa cinque volte piú numerosi che in tutto il Nord America.

È inutile dire che le chiese “di colore” sono tanto conservatrici e attaccate alla tradizione quanto quelle “bianche” sono liberal e modaiole. La stampa ha riportato storie interessanti su questo “incendio” che, come dicevo, ha frantumato l’anglicanesimo. Nel dicembre 2008 sette parrocchie in Virginia, contrarie alla nomina del gay Robinson, abbandonarono gli episcopaliani per seguire... la Chiesa anglicana della Nigeria, i cui leader affermano con orgoglio: “In Nigeria obbediamo alla Scrittura, sia conveniente o meno. Non è negoziabile”. Quando Williams avallò la legge inglese sui gay, i nigeriani abrogarono dallo statuto della loro comunità la frase “in comunione con Canterbury”, commentando:Se vogliono creare una nuova religione, good luck”.

C’è da chiedersi come reagiranno costoro ai grandi segni di vitalità e alla mano tesa in spirito di fraterna liberalità dal papa. Francamente, parlare di mezzo milione di fedeli in procinto di accettare il catechismo romano non ha molto senso: se la Madonna ci darà una mano (e mi permetto di dire, parafrasando Padre Pio, che — per come la conosco io — di certo lo farà), forse avremo almeno dieci milioni di africani anglicani a bussare alle porte di Roma nel giro di pochi anni, o addirittura di mesi.

Canterbury appare impotente, cosí come la maggior parte degli Evangelicals, in questo periodo di trasformazioni: si fa sentire un fenomeno poco studiato, ma degno di attenzione. Fra le conseguenze della recente crisi economica, c’è anche il disseccarsi del fiume di denaro che dal Nord America rimpinguava le casse di sette e comunità protestanti in giro per il mondo: chi, come la Chiesa cattolica, ha investito nell’Amore che guarisce e nella Verità che libera invece che in progetti faraonici e illusioni, probabilmente sa reagire meglio ai cambiamenti. Caro padre, non era anglicano quel Charles Darwin che teorizzò la sopravvivenza in natura del piú forte? Ecco, lo sbriciolamento proprio dell’anglicanesimo e la crescita lenta ma costante della Chiesa non è una conferma paradossale delle sue teorie? Il piú forte è la Chiesa Cattolica, l’anglicanesimo è condannato forse a estinguersi o a sopravvivere solo in poche nicchie protette».


Che ne sarà degli anglicani del “terzo mondo”? Domanda interessante, alla quale però, almeno per il momento, è difficile dare una risposta. Mentre si sentí parlare a lungo di loro in occasione dell’ordinazione episcopale di Robinson, con comunità episcopaliane che passarono alle Chiese anglicane del Sud America o dell’Africa, per quanto ne so, non si è ancora sentito parlare di loro in queste ultime vicende connesse con la disponibilità della Chiesa cattolica ad accogliere gruppi di anglicani in maniera “corporativa”.

Io non darei per scontata la loro accettazione dell’offerta papale; ma neppure mi sentirei di escluderla a priori. Il fatto di essere anglicani “tradizionalisti”, di per sé, non significa nulla: non significa essere piú vicini alla Chiesa cattolica. Anzi, un vero anglicano tradizionalista dovrebbe essere, a rigor di termini, anti-papista, essendo questo uno degli elementi caratteristici della tradizione anglicana. L’apertura verso Roma è segno di un’evoluzione, di una maturazione, di cui dobbiamo essere grati al movimento ecumenico (inteso in senso positivo). Ora, sinceramente, non so dire quale sia l’atteggiamento di queste Chiese anglicane dell’emisfero sud nei confronti della Chiesa cattolica. Spero che David abbia ragione; ma, per il momento, è meglio essere prudenti e non lasciarsi prendere da eccessivi entusiasmi, che alla lunga potrebbero essere delusi. Stiamo a guardare, con fiducia e preghiera, ma anche con un certo distacco e un sano realismo.

Oltre tutto, si tratta anche di una questione di rispetto verso questi nostri fratelli; cerchiamo di comprendere il loro dramma: per quanto il Papa si sia mostrato accogliente e generoso, non credo sia facile per uno che è vissuto finora in una determinata Chiesa, dire da un giorno all’altro: Cambio denominazione. Mi sembrano assai significative, in proposito, le dichiarazioni del Vescovo Broadhurst, Presidente di “Forward in Faith”: «Non risponderò alla domanda: “Cosa farete?”. È una cosa su cui dobbiamo lavorare insieme». Mi sembra il minimo che possa dire una persona seria.

Concordo con David sulla fiducia da avere nella Madonna: non c’è dubbio che, se lei ci mettere una “buona parola”, tutto sarà piú facile.