mercoledì 24 febbraio 2010

Angeli per legge

Giorni fa Piero Ostellino ha pubblicato sul Corriere della sera un commento dal titolo “La nostalgia italiana dello Stato teocratico”. Vi riferisce di due dibattiti radiofonici a cui ha partecipato, dedicati alla corruzione, nei quali si è reso conto che in Italia esisterebbe quel tipo di nostalgia. Prima di procedere nella lettura di questo post, vi pregherei di leggere l’articolo (è molto breve).

So già di scandalizzare qualche “anima bella”, ma devo confessare di essere pienamente d’accordo con Ostellino, non solo quando si chiede: «Ma dove sta il reato?», ma anche quando afferma: «Rivendico il diritto all’immoralità». Come, un prete non stigmatizza la corruzione diffusa nella società e giunge al punto di rivendicare il diritto all’immoralità? Ora capiamo perché il mondo va a rotoli: perché neppure i preti fanno piú il loro mestiere!

E invece no! Sono d’accordo con Ostellino proprio perché non voglio delegare ad altri quello che è un mio compito specifico. Ha mille e una ragione l’ex-direttore del Corriere quando afferma: «Se si ritiene che compito della magistratura sia di scoprire, e denunciare attraverso i media, che gli uomini non sono angeli, si è in ritardo con la storia. L’hanno già fatto decine di filosofi della politica e della morale. Se, poi, si ritiene che suo compito sia (anche) di fare in modo che lo diventino, si sbaglia ancora. È compito dei preti». Il vero problema sta proprio qui, nella confusione dei ruoli: si vuole affidare allo Stato, alle sue leggi e ai custodi di tali leggi un ruolo che non spetta loro. Non so se ci si renda conto, ma, procedendo di questo passo, si giunge allo Stato totalitario, allo Stato assoluto, allo Stato etico: uno Stato che non conosce la sua ragion d’essere; uno Stato che non ha la consapevolezza dei propri limiti; uno Stato che si sente in diritto e in dovere di intervenire su ogni aspetto della vita umana; uno Stato che si considera suprema fonte di moralità.

Date le premesse, era ovvio che si dovesse arrivare a questo punto. Si è partiti con l’idea — di per sé positiva — di laicità dello Stato; dalla rivendicazione di una legittima autonomia dello Stato dalla Chiesa, si è poi passati a quella di indipendenza e di totale separazione; poi si è proceduto al graduale smantellamento di quella cultura e di quel patrimonio di valori morali, che erano alla base della convivenza civile. Ora che il lavoro è stato compiuto, ci si accorge che qualcosa non funziona. E che cosa si fa? Anziché riconoscere gli errori commessi; anziché ammettere che esiste un momento pre-politico, che non è di spettanza dello Stato, ma che è ad esso indispensabile; anziché accettare umilmente i propri limiti, lo Stato pensa di risolvere tutto aggiungendo alle infinite leggi esistenti (che, come le gride manzoniane, hanno clamorosamente dimostrato la loro inefficacia) nuove leggi con le quali si dovrebbe eliminare la corruzione, e affidando ai giudici il ruolo di vestali, oltreché della legalità, anche della moralità dei cittadini.

Personalmente preferirei che, anziché sovraccaricare ulteriormente di lavoro la magistratura, già visibilmente in difficoltà nel disbrigo delle sue pratiche, si lasciasse un po’ di lavoro anche a noi preti, da sbrigare in confessionale. Ma ho l’impressione che, di questo passo, piú che la mancata osservanza del precetto festivo non ci rimanga; a poco a poco, ci stanno scippando anche tutte le mancanze contro il sesto comandamento...

Solo su un punto non mi trovo d’accordo con Ostellino: quando, come esempio di Stato teocratico, porta quello «pre-unitario, dove governava il Papa». Avrei capito se avesse fatto riferimento allo Stato islamico, dove vige la legge coranica; ma mi pare che Ostellino non conosca molto bene la storia: quando il Papa aveva lo Stato Pontificio da governare, sapeva distinguere molto bene il suo ruolo temporale da quello religioso; era un sovrano forse piú laico di tanti governanti democratici odierni; sapeva che la virtú non può essere imposta per legge e tollerava non pochi vizi (spesso — rimanga fra noi — anche i propri). Sapeva, per dirla con Ostellino, che compito dello Stato non è quello di rendere gli uomini angeli, ma quello di porre le condizioni perché possano diventarlo.

sabato 20 febbraio 2010

Interessi corporativi?

A quanto pare, Sandro Magister non si lascia minimamente intimidire dalle “bacchettate” — si direbbe sempre piú ricorrenti — nei confronti dei vaticanisti da parte della Sala Stampa della Santa Sede, e continua imperterrito il suo lavoro. E fa bene. Anche perché, nonostante i bei discorsi, si ha l’impressione che oltre Tevere non ci si renda ancora pienamente conto del tipo di società in cui viviamo e si continui a ragionare con criteri che potevano andar bene in altri tempi.

Giorni fa Padre Lombardi, intervenendo a proposito della dichiarazione sottoscritta da alcuni membri della Pontificia Accademia per la vita, nella quale veniva “sfiduciato” il Presidente di quell’organismo Mons. Rino Fisichella, ha smentito che tale documento fosse giunto al Santo Padre o alla Segreteria di Stato e ha lamentato che non si fosse trattato della questione durante l’assemblea plenaria appena svolta, concludendo con le seguenti parole: «Stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica». Incurante del pronunciamento di Padre Lombardi, Magister ha appena pubblicato sul sito www.chiesa il testo integrale della dichiarazione, «a titolo di documentazione».

Intendiamoci, da un punto di vista formale, il Direttore della Sala Stampa Vaticana ha ragione: i naturali destinatari di eventuali lagnanze riguardo ai responsabili dei dicasteri della Curia Romana non possono che essere il Papa e il Segretario di Stato; per cui, a prima vista, la dichiarazione diffusa pubblicamente potrebbe apparire una scorrettezza. Una volta si sarebbe detto: una “congiura”.

Ma se andiamo a leggere il contenuto della dichiarazione, ci accorgiamo che i “congiurati” avevano validi motivi per agire in tal modo. In seguito alla pubblicazione dell’articolo di Mons. Fisichella sull’Osservatore Romano del 15 marzo 2009, essi avevano scritto all’interessato e, successivamente, al Card. Levada. Quest’ultima lettera aveva sortito l’effetto sperato: la chiarificazione della Congregazione per la dottrina della fede del 10 luglio 2009. La cosa poteva finire lí (personalmente, ero convinto che la questione si fosse chiusa con quell’intervento).

Ma, a quanto pare, Mons. Fisichella non si è dato per vinto, ed è imprudentemente tornato sulla questione nel corso della recente assemblea. Per me avrebbe fatto meglio a glissare sull’argomento. È ovvio che col suo inopportuno intervento ha messo i “congiurati” nella condizione di fare il passo che hanno fatto. Avrebbero dovuto scrivere direttamente al Papa o al Card. Bertone? Forse; ma si sarebbe potuto tacciare anche questo tipo di ricorso come forma di “delazione”. I cinque accademici hanno invece preferito la via della trasparenza, ricorrendo a una dichiarazione pubblica. Si potrà discutere sulla correttezza formale. Personalmente, non trovo alcunché di scandaloso nel comportamento degli accademici della vita.

C’è un punto toccato dalla dichiarazione, che invece, se confermato, mi appare decisamente “scandaloso”: in essa si afferma che Mons. Fisichella avrebbe manipolato il primo paragrafo della chiarificazione della Congregazione della dottrina della fede, facendovi aggiungere le parole “manipolazione e strumentalizzazione”. Possibile? Se questo è vero, si tratta di un fatto gravissimo, sufficiente, da sé solo, a giustificare la rimozione dal suo incarico. Spero che si faccia luce al piú presto su questo increscioso episodio e si ristabilisca cosí un minimo di serenità e di fiducia non solo all’interno dell’Accademia per la vita, ma anche fra i semplici fedeli. Altrimenti saremmo costretti a concludere, con i “congiurati”, che la Curia ha serrato «i ranghi attorno a Fisichella a motivo della mentalità clericale di questa corporazione». Credo che, nel caso presente, ci sia in gioco qualcosa di piú di banali interessi corporativi.

martedì 9 febbraio 2010

Coda di paglia

Se devo essere sincero, questa interminabile telenovela del “caso Boffo” incomincia a venirmi a noia. Ora siamo tutti in spasmodica attesa di scoprire chi sia la “personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente”, che avrebbe recapitato a Feltri i documenti riguardanti il Direttore di Avvenire. I sospetti si sono appuntati sul Direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, il quale avrebbe agito per mandato del Segretario di Stato Card. Tarcisio Bertone. Non essendoci alcuna presa di posizione ufficiale da parte della Santa Sede, i giornalisti hanno avuto buon gioco a tirar fuori tutti i “veleni”, le lotte di potere, le manovre politiche interne alla Curia Romana e gli scontri tra Vaticano e Conferenza episcopale italiana. Uno scenario — diciamo la verità — piuttosto squallido.

A nessuno è venuto in mente che il Direttore del Giornale potrebbe stare sghignazzando alle spalle della Chiesa. Prima ha preso un granchio madornale: già, ma ci si doveva fidare “istituzionalmente” della fonte! Eh no, un giornalista serio dovrebbe sempre verificare le proprie fonti prima di pubblicare una notizia. Poi riconosce l’errore, e pensa di cavarsela con un trafiletto, concedendo magnanimamente l’onore delle armi alla sua vittima. Eh no, dopo il cancan scatenato, il minimo che ci si sarebbe aspettati erano le dimissioni. Adesso cerca di scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità, facendo credere che si tratta solo di una faida intraecclesiale: «Io che c’entro con le vostre lotte intestine? Sono fatti vostri».

E noi che gli andiamo dietro pensando che il Segretario di Stato abbia bisogno di passare sottobanco al Dott. Feltri certe carte per rimuovere Boffo dalla direzione di Avvenire! Ma la “personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente” non potrebbe essere, molto più semplicemente, un modestissimo impiegatuccio di una qualsiasi delle curie delle oltre duecento diocesi italiane, visto che quei documenti giacevano da tempo sui tavoli di tutte le cancellerie vescovili?

Penso che, come Chiesa, dovremmo mostrare un po’ piú di carattere e reagire a questo assedio. Non perché nella Chiesa non ci siano miserie; ma semplicemente perché non possiamo ridurre la Chiesa a una “parrocchietta”. Da che mondo è mondo, in tutte le parrocchie e in tutte le curie ci sono state (e sempre ci saranno) piccinerie, invidie, competizioni, sgambetti, e chi piú ne ha piú ne metta. E con ciò? Forse che nelle burocrazie laiche certe cose non accadono? Eppure non sembrano degne della prima pagina dei giornali, dove invece si parla delle grandi dispute politiche. Non si capisce perché, quando si parla di Chiesa, si debba sempre e solo parlare dei suoi aspetti piú deteriori. Non che questi non esistano, ma a casa mia il parlare di certi argomenti ha un nome ben preciso: “pettegolezzo”. Non che mi scandalizzi del pettegolezzo: anche qui, da che mondo è mondo, esso è sempre esistito e sempre esisterà. Ciò che mi dà noia è che esso assurga a livello di “giornalismo” e venga con ciò legittimato e nobilitato.

Non sarà che anche in questo caso ci sia dietro una manovra pianificata per mettere in difficoltà la Chiesa? Visto che non si riesce a confutarla sul piano dei principi, beh, screditiamola mettendo in piazza le sue miserie. Non si rischia nulla, perché, tanto, di meschinità se ne troveranno sempre, e loro stessi — i “preti” — avendo la coda di paglia, non sapranno come reagire. E invece sarebbe proprio il caso di reagire. Solo due osservazioni.

1. La sapienza popolare insegna che i panni sporchi si lavano in casa. Trasparenza non significa che tutto debba essere messo in piazza. Non solo le persone, ma anche le istituzioni hanno diritto a una loro privacy (lo Stato non ha forse i suoi “segreti”?).

2. La consapevolezza della nostra indegnità e delle nostre miserie non può paralizzarci e impedirci di svolgere la missione che ci è stata affidata. Se aspettiamo di diventare santi, per iniziare a evangelizzare, il Vangelo rischia di rimanere sigillato per qualche millennio. Il tesoro che ci è stato affidato non ci appartiene e non abbiamo alcun diritto di sotterrarlo. Il suo valore e la sua efficacia non dipendono da noi. Anzi, la nostra inadeguatezza non fa che mettere in risalto la grandezza del dono di cui siamo portatori: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12:9).

sabato 6 febbraio 2010

Ermeneutica della discontinuità

Ieri l’ASCA ha riferito le parole pronunciate da Mons. Fellay alla vestizione di alcuni seminaristi, il 2 febbraio scorso, a proposito dei colloqui in corso tra la Fraternità e la Santa Sede. La notizia è stata riportata anche da Raffaella, che giustamente ha lamentato una mancanza di gratitudine verso il Santo Padre.

Da parte mia, mi sarei aspettato maggiore discrezione. Si dirà che non si trattava di una dichiarazione, ma semplicemente di un’omelia, nella quale non si è rivelato nessun segreto, ma si è fatta solo una riflessione di tipo spirituale. È vero. Oltre tutto, il nocciolo della riflessione è pienamente condivisibile: nella Chiesa esistono due piani distinti, quello umano e quello soprannaturale. È vero che è Dio che guida la Chiesa e che «le cose sono nelle mani di Dio, che ha i mezzi per rimettere la Chiesa in carreggiata».

Non mi sembra però giusto disprezzare piú del necessario la dimensione umana della Chiesa e quindi, nella fattispecie, l’utilità dei colloqui in corso. Mi sembra un tantino eccessivo arrivare a dire: «Umanamente, non arriveremo mai ad un accordo; sí, umanamente non arriveremo ad un accordo, per come vediamo adesso le cose, umanamente non serve a niente». Se i colloqui non servono a niente, perché farli? Tanto valeva, dal punto di vista dei lefebvriani, attendere che Roma si convertisse. Non dimentichiamo mai che, nel mistero dell’incarnazione l’umanità viene assunta dal Verbo e diventa strumento della divinità. Ciò vale anche nel mistero della Chiesa.

Ma quel che mi ha lasciato piú amareggiato è quanto Mons. Fellay dice a proposito della Messa: «Ci si chiede a volte quali sono i punti comuni [tra la Messa riformata e quella tradizionale, ndr], talmente è differente ... Quando sentiamo oggi, anche da Roma, che niente è cambiato, che è la stessa cosa, si rimane un po’ interdetti. Quando si dice che non c’è differenza tra le due messe, vorrei che aprissero gli occhi, non è difficile».

Mi dispiace, ma, insistendo su tale posizione, i lefebvriani rendono davvero impossibile qualsiasi accordo. Ma, a questo punto, la responsabilità della mancata intesa ricade tutta su di loro; non possono continuare a incolpare Roma.

Il problema non riguarda solo la Messa, ma, piú in generale, l’interpretazione del Vaticano II. Ho l’impressione che i lefebvriani non abbiano capito che l’unica possibilità di incontro sta nell’“ermeneutica della continuità”, enunciata dal Santo Padre nel suo discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. E non si rendono conto che, di fatto, essi si trovano sulle stesse posizioni dei progressisti, che sostengono l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”. È proprio vero che gli estremi si toccano: pensano di essere su posizioni opposte, mentre in realtà condividono la stessa visione.

Continuare a ripetere che il Novus Ordo costituisce un’altra Messa significa anche essere convinti che il Concilio Vaticano II segni davvero una “svolta” nella storia della Chiesa. Ma, se si sostiene tale tesi, non ci si può piú considerare, ahimè, custodi della tradizione; ci si arruola, per quanto inconsapevolmente, nelle schiere degli “eversori”.

martedì 2 febbraio 2010

Quod omnes tangit...

Sandro Magister continua a pubblicare interventi sempre estremamente interessanti (a parte la querelle, non proprio edificante, col Direttore dell’Osservatore Romano...). Fra gli ultimi articoli, pubblicati sul sito www.chiesa, ce ne sono due che, a prima vista, non hanno alcun rapporto fra loro, ma che, a uno sguardo piú attento, possono perlomeno ispirare qualche riflessione comune. Mi riferisco all’articolo, pubblicato il 25 gennaio, “Il papa è il primo tra i patriarchi”. Tutto sta a vedere come, e quello pubblicato ieri, dal titolo Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario.

Partiamo da quest’ultimo. Lungi da me voler intervenire su una questione di cui non so praticamente nulla: non sono un ambrosiano; conosco solo molto approssimativamente il rito della Chiesa milanese; sapevo a mala pena che era stato pubblicato un nuovo lezionario (che non ho avuto ancora l’occasione di avere fra mano); per cui non potrei in alcun modo pronunciarmi su questa nuova pubblicazione. Però, leggendo le osservazioni del Card. Biffi, non posso non riconoscere che si tratta di rilievi di grande buon senso. Si potrà pure discutere su questa o quella obiezione, ma non si può negare che, nel loro insieme, le riserve avanzate provengono da un valente teologo e da un pastore di grande esperienza. Non lo si può accusare né di tradizionalismo né di progressismo: le critiche da lui mosse non sono mai preconcette, ma frutto di una approfondita riflessione.

Il Card. Biffi non è nuovo a certe uscite. Ricordo che, quando, giovane sacerdote, mi trovavo a Bologna come viceparroco, partecipai alla “Tre giorni” del Clero, durante la quale il nostro Arcivescovo ci diede alcune preziosissime Note pratiche sulla celebrazione della Messa, che ho sempre conservato. A quell’epoca era stata da poco pubblicata la seconda edizione del Messale italiano. Ebbene, a proposito delle nuove preghiere eucaristiche inserite in questo Messale, Biffi ebbe a dire:

«Personalmente non amo dire le preghiere eucaristiche dell’appendice. Trattandosi di testi destinati alle Chiese italiane, sarebbe stato desiderabile sottoporli al giudizio di tutti i vescovi interessati. Personalmente, avrei fatto presente che la cosí detta preghiera eucaristica quinta evita con troppa cura il concetto di transustanziazione (“manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue”); concetto che è evitato, con maggior garbo, anche dalla seconda preghiera eucaristica “della riconciliazione”. Avrei altresí segnalato che la stessa preghiera [la quinta, ndr] non esprime l’idea dell’“offerimus”, cioè la verità che il sacrificio di Cristo nell’Eucaristia è offerto anche da noi (“Guarda, Padre santo, questa offerta: è Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te”)» (10 settembre 1986: Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna, 9/1986, p. 523; testo ripreso poi in Fonti pastorali della Chiesa di Bologna, vol. I, Bologna 1994, n. 577).

Beh, bisogna dire che in quel caso il Card. Biffi fu ascoltato: nella terza edizione latina del Messale Romano la cosí detta “quinta preghiera eucaristica” è stata accolta, ma completamente rifusa e con il seguente titolo: “Prex eucharistica quae in Missis pro variis necessitatibus adhiberi potest”. I passaggi criticati da Biffi sono stati cosí riformulati:

«Rogamus ergo te, Pater clementissime, ut Spiritum Sanctum tuum emittas, qui haec dona panis et vini sanctificet, ut nobis Corpus et Sanguis fiant Domini nostri Iesu Christi»;

«In oblationem Ecclesiae tuae, in qua paschale Christi sacrificium nobis traditum exhibemus, respice propitius, et concede, ut virtute Spiritus caritatis tuae, inter Filii tui membra, cuius Corpori communicamus et Sanguini, nunc et in diem aeternitatis numeremur».

Come si può vedere, l’intervento di revisione è stato radicale. Si potrà continuare a discutere sull’opportunità di quell’inserimento (per me se ne poteva tranquillamente fare a meno), ma perlomeno la nuova formulazione risulta ora ineccepibile dal punto di vista dottrinale. Tutto è bene quel che finisce bene.

Orbene, la riflessione che mi veniva da fare a questo proposito era che non sempre l’approvazione vaticana è garanzia di correttezza dottrinale e opportunità pastorale; in certi casi forse si farebbe meglio a dare maggiore ascolto ai Vescovi. Non so come sia andata l’approvazione del nuovo lezionario ambrosiano: è abbastanza comprensibile che in tal caso non si sia consultato il Card. Biffi, il quale, pur rimanendo uno dei maggiori esperti di cose ambrosiane, non ricopre alcun ruolo nella Chiesa milanese (ormai egli è semplicemente l’Arcivescovo emerito di Bologna). Ma posso testimoniare che nel lontano 1986, quando pronunciava le parole che ho riportato sopra, si mostrò notevolmente irritato per la mancata consultazione dei Vescovi italiani: praticamente, la pubblicazione della seconda edizione del Messale italiano era stata una specie di blitz dei “tecnici”, i quali, “baipassando” (si può dire?) bellamente i Vescovi, avevano sottoposto all’approvazione della Congregazione del culto divino quella che allora era conosciuta come la “preghiera eucaristica svizzera”, inserendola cosí di fatto nel nuovo sacramentario.

Certe cose succedono spesso nella Curia Romana: non è raro che i Dicasteri ignorino il parere di interi episcopati e finiscano poi per fidarsi di qualche “esperto” di dubbia competenza. Per esempio, ricordo le giuste rimostranze dei Vescovi di paesi lontani che, dopo aver curato la traduzione dei libri liturgici nella loro lingua locale, se la vedevano respinta da Roma, dove non c’era nessun membro del Dicastero che conoscesse quella lingua e ci si doveva perciò affidare a qualche studente di teologia delle università pontificie. È ovvio che il problema è alquanto complesso e non lo si può liquidare con una battuta. Sono convinto che qualche volta Roma faccia piú che bene a resistere alle posizioni di certi episcopati (come, per esempio, rimanendo nell’ambito delle traduzioni liturgiche, nel caso della nuova edizione del Messale in inglese).

Ma il problema, secondo me, non è tanto quello delle pur reali — e inevitabili — tensioni fra il Papa e i Vescovi, quanto piuttosto quello degli “abusi di potere” delle rispettive burocrazie (la Curia Romana e le Conferenze episcopali). Sí, perché noi in genere siamo portati a identificare la Curia Romana con il Papa e le Conferenze episcopali con i Vescovi: teoricamente dovrebbe essere cosí, ma di fatto non lo è. La Curia Romana e le Conferenze episcopali sono realtà burocratiche, di cui certo non si può fare a meno, ma con tutti i limiti che la burocrazia per sua natura comporta. Gli ufficiali di Curia e i funzionari delle Conferenze episcopali sono preziosi collaboratori del Papa e dei Vescovi; ma devono ricordare che non sono loro i pastori. È ovvio che Papa e Vescovi debbano necessariamente delegare molte competenze ai loro “tecnici”; ma questi non dovrebbero mai dimenticare che esiste un’autorità personale dei pastori, che non può in alcun modo essere delegata.

A questo punto, voi direte: che c’entra tutto questo con l’altro articolo di Magister, che pubblicava un documento su Il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, documento su cui la Commissione mista internazionale per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sta lavorando? Il nesso c’è, dal momento che quel documento affronta una questione spinosissima, l’unica praticamente che continua a dividere cattolici e ortodossi: quella del rapporto fra collegialità e primato. Noi cattolici, nonostante le “aperture” del Vaticano II, ammaestrati dalla storia, siamo portati a guardare con un certo sospetto a un'ulteriore sottolineatura della collegialità episcopale, a scapito del primato pontificio; cosí come gli ortodossi, pur riconoscendo in linea di principio il primato del Vescovo di Roma, temono che poi questo possa in qualche modo limitare il principio, a loro cosí caro, della sinodalità. Ci sarà pure una via di uscita a questo impasse! Il documento pubblicato da Magister (le lagnanze del Consiglio per l’unità dei cristiani per la sua pubblicazione risultano, per la verità, piuttosto incomprensibili) mi sembra un buon punto di partenza. Lo strumento di lavoro si apre con una citazione del documento finale di Ravenna del 2007, in cui cattolici e ortodossi riconoscevano il vincolo inseparabile fra conciliarità e primato a tutti i livelli di vita della Chiesa:

«Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Questo è il motivo per cui il primato ai diversi livelli di vita della Chiesa — locale, regionale e universale — deve sempre essere considerato nel contesto della conciliarità, e similmente la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43).

Vedo già qualcuno arricciare il naso, pronto a tacciare tale testo di “conciliarismo”; ma il conciliarismo è ben altro. Mi sembra piuttosto che, almeno come dichiarazione di principio, esso sia pienamente accettabile (e di fatto lo è stato) sia da parte cattolica che da parte ortodossa. Il problema semmai sarà come mettere in pratica il principio della reciproca interdipendenza di collegialità e primato.

Ebbene, io credo che tutto si riduca ad assumere un diverso stile di rapporto. Gli esempi su riportati, riguardanti il Card. Biffi, dovrebbero insegnarci che il sistema oggi utilizzato all’interno della Chiesa cattolica spesso non va: Roma, da sola, non può arrivare a tutto e spesso, di fatto, prende delle cantonate; ha bisogno della collaborazione dei Vescovi. Non perché qualcuno voglia negare il primato pontificio, ma semplicemente perché la Curia Romana è fatta di uomini con i loro limiti, che di per sé non godono del carisma dell’infallibilità. La consultazione dei Vescovi — dei Successori degli Apostoli, intendo, non dei monsignori delle Conferenze episcopali — non può far che bene alla Chiesa. Piú vasta è la consultazione, specialmente sulle questioni delicate, meglio è. Ciò da cui bisogna guardarsi non è la collegialità episcopale, ma lo strapotere delle burocrazie, centrali o periferiche che siano.

Non si tratta di introdurre nella Chiesa un principio rivoluzionario; si tratta semplicemente di seguire l’immemorabile tradizione romanistica ed canonica: «Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» (Giustiniano, Corpus iuris civilis, 5, 59, 5, 2; Bonifacio VIII, Liber sextus decretalium, 5, 12, 29; cf Codex iuris canonici, can. 119, 3°).

martedì 26 gennaio 2010

Fedeltà al Concilio

Mi ha colpito molto la notizia, riportata da Sandro Magister, delle dimissioni del direttore della Cappella musicale (qui) e dell’intero coro (qui) della Cattedrale di Cremona. Non sono cose che accadono ogni giorno; si tratta di un fatto di una gravità eccezionale; ma spero che, perlomeno, serva a provocare una riflessione su quanto è avvenuto e sta avvenendo nella Chiesa dopo la riforma liturgica promossa dal Vaticano II.

Non sono un nostalgico della liturgia tridentina, e perciò non coglierò l’occasione per dare addosso alla riforma liturgica e per auspicare un ritorno, sic et simpliciter, alla liturgia preconciliare. Però non si può neppure far finta di niente, e liquidare quanto è successo come il mal di pancia di un gruppo di esteti nostalgici, che non si rassegnano ad adeguarsi ai tempi nuovi.

Semmai, l’incidente cremonese potrebbe essere l’occasione per fermarci un attimo a “ripensare” la riforma liturgica, non necessariamente per giungere alla conclusione che si renda necessaria una “riforma della riforma”, ma semplicemente per fare un bilancio e chiederci: Come è stata attuata? È stato realmente fatto ciò che il Concilio prescriveva? C’è stato qualcosa che non ha funzionato? Domande piú che legittime a quasi cinquant’anni dall’inizio della riforma.

Il punto di riferimento per tale valutazione rimane, ovviamente, la Costituzione Sacrosanctum Concilium, promulgata al termine della terza sessione del Concilio, il 4 dicembre 1963. Soffermiamoci, per il momento, sull’aspetto musicale, ma ricordandoci che il discorso potrebbe — e dovrebbe — essere allargato a tutti gli altri aspetti. Ebbene, che cosa diceva il Concilio a proposito della musica sacra? Andatevi a rileggere il capitolo VI della Sacrosanctum Concilium: penso che chiunque, anche il piú prevenuto verso il Vaticano II, sia costretto a riconoscere che si tratta di un piccolo capolavoro. C’è qualcuno che non è d’accordo con quanto il Concilio affermava? Eppure, che ne è stato di quelle sagge norme? Praticamente sono rimaste lettera morta; la riforma liturgica, quella che di fatto è stata attuata, ha semplicemente ignorato il Concilio; ha seguito un’altra strada, a cui il Concilio non aveva neppure accennato: si è ripartiti da zero, come se non esistesse alcuna tradizione musicale; nella liturgia sono state ammesse solo nuove composizioni, il piú delle volte di scarso o punto valore. Ciò che era importante era la novità; tutto il resto — gregoriano, polifonia, canto popolare — semplicemente da rigettare. Che cosa c’era dietro tale atteggiamento? È ovvio: la mentalità secondo cui il “Concilio” (ma quale Concilio?) segnava un “nuovo inizio”, una “svolta” nella storia della Chiesa (“ermeneutica della discontinuità e della rottura”).

Appare in maniera evidente che la “riforma liturgica”, cosí come è stata attuata, non risponde in buona parte alle indicazioni del Concilio. Qualcosa non ha funzionato. Diciamo che la situazione è sfuggita di mano. Di chi è la colpa: del Concilio, di Paolo VI, di Mons. Bugnini? Personalmente penso che non serva a niente ora star lí a recriminare e a distribuire pagelle ai protagonisti della riforma. Molto piú utile mi sembra prendere atto della situazione e cercare di correre ai ripari.

Già, correre ai ripari. C’è già chi dice: basta tornare alla liturgia, cosí com’era prima del Concilio. Non mi sembra una proposta che risolva il problema. Qualcun altro sostiene che sia necessario a questo punto procedere a una “riforma della riforma”. Sí, forse; la cosa non è da escludersi a priori. Ma se, prima di procedere a delicatissime e rischiosissime riforme di riforme, provassimo ad attuare la riforma liturgica come l’aveva pensata il Vaticano II, non sarebbe tutto piú facile?

Tornando alla questione iniziale, se provassimo a reintrodurre nella liturgia il canto gregoriano (nel frattempo, per fortuna, i monaci hanno lavorato sodo e ci hanno messo a disposizione tutta una serie di strumenti con cui possiamo cantare la nuova liturgia in gregoriano, senza bisogno di ricorrere piú al benemerito Liber usualis), un po’ di polifonia (riconosco che non sempre è possibile trasferire certe magnifiche messe nella nuova liturgia) e un po’ di sano canto popolare; se provassimo a reintrodurre il suono dell’organo; se provassimo a riappropriarci della nostra tradizione musicale, la liturgia — quella rinnovata intendo, non quella tridentina — non avrebbe tutto da guadagnarci? È ovvio che anche dietro tale proposta c’è una mentalità: l’ermeneutica della continuità.

Vedo già qualcuno pronto a gridare alla “restaurazione”. Personalmente, la riterrei piutttosto una operazione di fedeltà al Concilio e di rivalorizzazione del nostro patrimonio musicale. Dice giustamente la Sacrosanctum Concilium all’inizio del capitolo dedicato alla musica sacra: «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente perché, come canto sacro applicato alle parole, è parte essenziale o integrante della liturgia solenne» (n. 112).

Oltre tutto, si tratta di una operazione non impossibile, visto che ci sono già a disposizione forze professionalmente attrezzate per attuarla. Anziché lasciarle vagabondare per le sale-concerto, non sarebbe il caso di arruolarle in questa opera di recupero della liturgia?

giovedì 21 gennaio 2010

Ermeneutica della riforma

Nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, commemorando i quarant’anni del Vaticano II, Benedetto XVI sostenne che i problemi di recezione del Concilio dipendono dal fatto che esso è stato interpretato secondo due ermeneutiche contrapposte: «Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” ... Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».

Tale distinzione è stata contestata, con un certo fondamento, da Joseph A. Komonchak (“Benedetto XVI e l’interpretazione del Vaticano II”: Chi ha paura del Vaticano II, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Carocci, Roma, 2009): «Si resta subito colpiti dalla eccentricità dei nomi dati a questi due concorrenti orientamenti. In contrapposizione a quello che insiste sulla discontinuità ci si sarebbe infatti aspettati un’“ermeneutica della continuità o della fedeltà”. Similmente, in contrapposizione ad un’“ermeneutica della riforma”, ci si sarebbe aspettati che l’altra venisse presentata come “un’ermeneutica della rivoluzione”. Invece troviamo messe in tensione “discontinuità” e “riforma”, come se fossero necessariamente contrastanti» (pp. 71-72). In linea di principio, Komonchak ha ragione; ma è ovvio che, dietro le sue disquisizioni logiche, si nasconde un problema ideologico non indifferente, che infatti viene a galla immediatamente: «Che esse non siano necessariamente in contrasto è chiaro d’altra parte dalla semplice osservazione che una genuina riforma implica di per sé alla fine una discontinuità: qualcosa deve cambiare laddove c’è una riforma» (p. 72). Anche qui sembrerebbe che Komonchak affermi una ovvietà; eppure le cose non sono cosí semplici come il professore dell'Università Cattolica di Washington vorrebbe farci credere.

Solitamente, siamo portati a catalogare il termine “riforme” nel vocabolario della “sinistra moderata” (i cosiddetti “riformisti”, in contrapposizione ai “rivoluzionari” della sinistra estrema). A nessuno passerebbe mai per la mente che il concetto di “riforma” possa in qualche modo essere imparentato con la “destra” (dove possono esistere solo “conservatori”, “tradizionalisti” e “reazionari”, i quali per definizione sono per la conservazione dello statu quo e quindi contro qualsiasi riforma). Questo è ciò che gli schemi ideologici correnti ci obbligano a pensare. Allora — direte voi — liberiamoci di tali schemi e sforziamoci di guardare alle cose con oggettività. Sí, sarebbe auspicabile; ma siccome so già che qualcuno potrebbe contestare la possibilità stessa di oggettività e sostenere che è inevitabile essere condizionati da schemi soggettivi, sceglierò un altro schema (visto che tutto è soggettivo, dove sta scritto che quegli schemi sono gli unici possibili?): uno schema seguendo il quale si raggiungeranno conclusioni opposte. Lo schema ideologico che scelgo è quello che divide gli uomini fra “ottimisti” e “pessimisti”.

Gli “ottimisti” sono coloro che considerano la storia come un continuo, irrefrenabile progresso, il piú delle volte indipendente dalla volontà umana (determinismo). All’origine di questa mentalità c’è una filosofia della storia ispirata all’illuminismo, all’idealismo, al positivismo e all’evoluzionismo. I “pessimisti” sono quelli che considerano la storia come una continua decadenza rispetto a una mitica “età dell’oro”, identificata con le origini. Penso che ciascuno di noi possa facilmente identificarsi in uno di questi due gruppi. Sia ben chiaro che tale distinzione non è intercambiabile con quella — meramente politica — di “destra” e “sinistra”.

Ebbene, se adottiamo lo schema “ottimisti”/“pessimisti” o “progresso”/“decadenza”, ci accorgeremo che il concetto di riforma non appartiene agli “ottimisti”, ma ai “pessimisti”. Sempre, nella storia, i “riformatori” si sono presentati come quelli che criticavano il presente, considerato decaduto rispetto al passato, e auspicavano una qualche forma di “ritorno alle origini”. Anzi, approfondendo il discorso, ci accorgeremo che anche un’altra categoria che oggi va per la maggiore — quella di profezia — appartiene esattamente all’ideario dei “pessimisti”: nella storia di Israele, i profeti non sono mai stati dei rivoluzionari, ma semmai dei “nostalgici” dei bei tempi andati, e hanno sempre auspicato un ritorno al passato (si veda in proposito il saggio di Norbert Lohfink, I profeti ieri e oggi, Queriniana, Brescia, 1967).

A questo punto potremmo porci il problema: usando questo schema, da quale parte poniamo il Concilio Vaticano II? Certo, nella visione degli “ottimisti”, esso segna una tappa — non necessariamente in discontinuità col passato — dell’irrefrenabile cammino della Chiesa verso il suo “Punto Omega” (per usare un’espressione cara a Teilhard de Chardin). Può darsi che tale mentalità sia presente, almeno parzialmente, all’interno del Vaticano II, ed è senz’altro presente in molti dei suoi interpreti. Ma — potremmo chiederci — è stata questa l’autocomprensione che il Concilio ha avuto di sé stesso? Avrei qualche perplessità a rispondere affermativamente.

Non voglio escludere che nel Vaticano II sia presente, almeno in qualche passaggio, una mentalità “evoluzionistica”. Sono per altro note le accuse, rivolte al Concilio, di discontinuità e di rottura con la tradizione precedente; accuse che andranno prima o poi vagliate attentamente. Ma nell’insieme, almeno nelle intenzioni, a me pare che il Vaticano II si muova nel campo opposto, quello di chi guarda al presente della Chiesa (il “presente” di cinquanta anni fa) come in qualche modo distante (perché gradualmente allontanatosi) dall’“archetipo” (la Chiesa delle origini) e quindi bisognoso di “riforma”.

Prendiamo l’esempio della liturgia. Noi di solito parliamo, giustamente, di “riforma liturgica”, ma la Costituzione Sacrosanctum Concilium usa un termine ancora piú forte, che non lascia adito a dubbi: instauratio, che in italiano significa letteralmente “restaurazione”. La liturgia, secondo il Concilio, va restaurata, va cioè riportata alla sua bellezza originaria. È evidente il rischio sotteso a tale visione: quello dell’“archeologismo”, l’illusione cioè di tornare a un passato ideale, totalmente astratto, ignorando il cammino compiuto attraverso i secoli. È forse per questo motivo che la Sacrosanctum Concilium, per lo piú, accompagna il verbo instaurare con il verbo fovere, quasi a dire che non si tratta solo di tornare indietro, ma di andare avanti, incrementando, favorendo, migliorando ciò che già esiste. E forse è per questo motivo che il Santo Padre, nel suo discorso alla Curia Romana, usa il termine “riforma” come sinonimo di “rinnovamento nella continuità”.

Credo che l’atteggiamento del Concilio verso la liturgia possa essere considerato in qualche modo paradigmatico: l’attitudine “restauratrice” (so bene le reazioni che l’uso di tale espressione può provocare nell’animo di quanti si lasciano condizionare dagli schemi ideologici correnti, ma spero che si sappia andare oltre le risonanze emotive) è quella che ha ispirato il Concilio; si trattava di riportare la Chiesa al suo primitivo splendore.

È vero che il Vaticano II fa uso anche di altre espressioni. Per esempio, a proposito della vita religiosa parla di renovatio, giustamente tradotto con “rinnovamento”. Solo che renovare, in latino, molto spesso non è altro che un sinonimo di instaurare. Non mi pare un caso che il decreto Perfectae caritatis (n. 2) esorti i religiosi a un «continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito originario degli istituti» (a voler essere pignoli poi si potrebbe notare che le traduzioni italiane tralasciano sistematicamente l’aggettivo da cui la parola renovatio è sempre accompagnata: “accomodata renovatio vitae religiosae”).

Ha dunque sbagliato Benedetto XVI a parlare di “ermeneutica della riforma” a proposito del Vaticano II? Niente affatto; anzi mi pare che, usando tale espressione, egli abbia colto perfettamente il vero spirito del Concilio: il Vaticano II non ha voluto in alcun modo essere una rottura col passato né, tanto meno, un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa; esso, molto piú modestamente, si è prefisso solo di “riformare” la Chiesa, adattandola certo alle mutate condizioni dei tempi, ma sforzandosi soprattutto di riportarla alla sua originaria fisionomia.

martedì 19 gennaio 2010

Un problema fantasma?

Un lettore mi chiede un parere sul post del 7 gennaio 2010 apparso sul blog di Matias Augé dal titolo Una opinione sull’attuale dibattito liturgico. Si tratta di una lettera scritta al Padre Augé da un suo confratello, missionario da 35 anni (prima nelle Filippine, poi a Cuba, ora nella Repubblica Dominicana), nella quale si contesta, con accenti — diciamo — piuttosto vivaci, l’esistenza stessa di un problema liturgico nella Chiesa (“un problema fantasma”). Nella sua esperienza, Padre Carmelo — questo il nome del missionario clarettiano — sostiene di non aver mai incontrato “un solo cristiano” che chiedesse la Messa tridentina; di non aver mai ricevuto “neppure una sola istanza” in tal senso.

Ho già in qualche modo affrontato lo stesso problema alcuni mesi fa nel post Auditel liturgico e “riforma della riforma”, in cui si commentava il sondaggio informale condotto da Padre Augé sulla stessa tematica. Non posso quindi che rinviare alle considerazioni che facevo in quella sede. Anche nel caso del Padre Carmelo, non ho alcuna difficoltà a credere a quanto da lui affermato. Non posso contare sulla sua lunga esperienza missionaria, ma il mio, di gran lunga piú breve e limitato, soggiorno nelle Filippine e in India mi porta piú o meno alle medesime conclusioni: effettivamente non esiste in questi paesi (e, per analogia, suppongo, nel resto del “terzo mondo”) un problema della liturgia tridentina; la liturgia va bene cosí com’è. Concordo con Padre Carmelo che in questi paesi si celebra la Messa “degnamente”, senza gravi abusi; le liturgie sono in genere molto vivaci e partecipate; e anche chi, come me, è sensibile alla bellezza della liturgia latino-gregoriana, non può rimanere indifferente di fronte a certe celebrazioni forse non altrettanto ieratiche, ma certo intensamente partecipate dai fedeli. Del resto, lo stesso Santo Padre non ha confessato forse di essere rimasto ammirato dalle liturgie da lui presiedute nel suo ultimo viaggio in Africa?

Non concordo con Padre Carmelo su due punti. Il primo è la categoricità delle sue affermazioni: “ni un solo cristiano”, “ni una sola instancia”. Io sarei un tantino piú cauto: se è vero che il problema non è cosí sentito come sembrerebbe nei nostri paesi occidentali, non è vero che nel “terzo mondo” non ci sia nessuno che lo sente. Giustamente in uno dei commenti si puntualizza che «in Brasile la sensibilità e la richiesta sono molto forti»: sarà un caso che l’unica amministrazione apostolica di rito tridentino non è in Francia, non è in Europa, ma in Brasile? Anche nelle Filippine ci sono alcuni gruppi che celebrano secondo la forma straordinaria. È vero che si tratta di gruppi minoritari, ma esistono!

E qui vengo al secondo appunto che muovo al post del Padre Carmelo: il linguaggio che riserva appunto a tali gruppi. Per me, dire che si tratta di “gruppi minoritari” sarebbe piú che sufficiente; non vedo che bisogno ci sia di procedere a ulteriori apprezzamenti, che nulla aggiungono al dato oggettivo, ma servono solo per invelenire i rapporti tra fratelli di fede: “una minoranza assolutamente insignificante e ridicola”; “persone squilibrate che vivono fuori della realtà”; “menti malate (calenturientas = “febbricitanti”) e retrograde che vivono fuori della realtà”; “movimento di involuzione nervosa e isterica”. D’accordo che in certi casi si possa ricorrere anche a un linguaggio un po’ colorito; ma in questo caso mi sembra che si venga meno alla carità cristiana: mi chiedo a che cosa si riduca il Vangelo, quando lo trasgrediamo in maniera cosí palese. A che serve parlare di apertura, di comprensione, di dialogo, di ecumenismo con i “lontani”, quando poi non abbiamo nessun rispetto per quelli che sono di casa? In certi momenti si ha davvero l’impressione che il cristianesimo sia stato ridotto a pura ideologia...

Potrei fermarmi qui; ma vorrei aggiungere qualcosa, entrando nel merito della questione sollevata. I lettori dovrebbero conoscere la mia posizione in materia liturgica; chi volesse farsene un’idea può andare a leggersi il post If only... Praticamente, io sono convinto che, se la riforma liturgica fosse stata realizzata come il Concilio l’aveva concepita e se poi essa fosse stata attuata seguendo fedelmente le norme previste nei libri liturgici, probabilmente ora non ci sarebbe nessun nostalgico della vecchia liturgia.

Questa convinzione non è stata affatto intaccata dalla mia sia pur breve esperienza missionaria. È vero che nei paesi del “terzo mondo” nessuno va in cerca della Messa tridentina (per quanto almeno un paio di volte mi sia stata richiesta); ma devo anche dire che tutte le volte che ho celebrato la Messa in latino (quella di Paolo VI) non ho mai incontrato alcun rifiuto. Anzi... È ovvio che nessuno chieda la celebrazione secondo l’uso antico: la maggior parte della gente non sa neppure che esista; ma quando partecipano a una bella Messa cantata in latino, ne rimangono anche loro affascinati.

Qualche volta mi ponevo il problema se celebrare in latino per popoli cosí lontani da Roma non fosse una sorta di “violenza”; me lo chiedevo soprattutto al momento della comunione, quando presentavo loro l’ostia consacrata dicendo “Corpus Christi” anziché “Ang Katawan ni Kristo”. Ma poi mi dicevo: Perché dovrebbe essere una violenza dire “Corpus Christi”, quando nessuno ha nulla da eccepire se dico in inglese (che non è la loro lingua) “The Body of Christ”? E sono giunto alla conclusione che, non solo non era una violenza, ma, al contrario, era loro diritto sentirsi dire “Corpus Christi”.

Sono convinto che la riforma liturgica, cosí come è stata attuata (anche con le deroghe — sanzionate da Paolo VI — alla lettera della Sacrosanctum Concilium, p. es. riguardo alla lingua liturgica), sia stata provvidenziale. Come affermavo nel post citato all’inizio, la Chiesa percepiva che il suo futuro si sarebbe giocato non piú in Europa, ma in altre parti del mondo; e per questo ha sentito il bisogno di mettere la liturgia alla portata di tutti. Ma con ciò non ha voluto in alcun modo cancellare la liturgia solenne in latino e in canto gregoriano, anzi ha voluto restaurarla e renderla ancora piú bella di quanto già non fosse (ermeneutica della continuità...). Per cui dobbiamo ammettere che non esiste piú (o forse non è mai esistita) una sola liturgia, uniforme e monolitica, ma molte varietà liturgiche con diversi gradi di solennità. A questo proposito, l’Institutio generalis de Liturgia Horarum parla assai opportunamente, al n. 273, di un “principio di solennizzazione progressiva” che, secondo me, può applicarsi a tutta la liturgia. È ovvio che, secondo tale principio, le forme meno solenni sono un momento propedeutico a quelle piú solenni; ed è un diritto dei fedeli poter partecipare, almeno in alcune occasioni, a una celebrazione solenne della liturgia romana. Ed è nostro dovere, come pastori, educare i fedeli perché possano esercitare tale diritto. La mia concezione di educazione non è mai stata quella del docente che si abbassa al livello del discente (anche se questo va in ogni modo fatto), ma piuttosto quella del docente che, dopo essersi abbassato, innalza il discente al proprio livello.

Che poi si debba fare i conti con la realtà, è un’altra questione. Ha ragione Padre Carmelo a dire che nel terzo mondo i preti non conoscono piú il latino. Non solo nel terzo mondo — aggiungo io — e non solo i preti... Ma anche qui si tratta del risultato di precise scelte (spesso ideologiche) che sono state fatte in passato. Ma, per quanto questa sia la realtà, non possiamo arrenderci: sono situazioni che possono cambiare; basta la “volontà politica”: non è impossibile insegnare il latino ai seminaristi, dovunque essi si trovino; basta volerlo. Non è questa un’affermazione astratta, ma il frutto di un’esperienza vissuta.

sabato 9 gennaio 2010

Informati?

Il rientro in Italia, dopo anni trascorsi nel cosiddetto “terzo mondo”, si sta rivelando non cosí facile come ci si sarebbe aspettati. È vero che viviamo in un mondo ormai globalizzato, per cui le tradizionali categorie di “primo” e “terzo” lasciano il tempo che trovano: soprattutto internet ha bruciato ormai le distanze, per cui, dovunque ti trovi, puoi accedere all’informazione — a qualsiasi tipo di informazione — “in tempo reale”. Però devo dire che riprendere a vedere quotidianamente il telegiornale e a leggere i giornali (quelli reali stampati sulla carta, non quelli virtuali online) fa un certo effetto.

Normalmente seguo il TG2 delle 20.30, e sinceramente non posso lamentarmi: mi sembra un telegiornale fatto con una certa professionalità (la stessa informazione religiosa non vi è trascurata). Oltre all’Avvenire, ho ripreso a leggere anche il Corriere della sera. Anche qui, nulla da ridire: si potrà discutere sulle idee espresse in questo o quell’articolo; ma, tutto sommato, si tratta di quotidiani seri, che perlomeno si sforzano di essere equilibrati. Quindi non ce l’ho né col TG2 né col Corriere; ma è il mondo dell’informazione in quanto tale (e, piú in generale, il mondo in cui viviamo, di cui giornali, radio e TV sono soltanto lo specchio) che mi lascia alquanto perplesso. Vi faccio qualche esempio, che ha attirato la mia attenzione in questi due mesi, da quando sono tornato.

Primo esempio: la febbre suina. Nei giorni del mio rientro non si faceva altro che parlare di influenza A: sembrava che da un giorno all’altro dovessimo tutti ammalarci; ogni giorno la televisione ripeteva che non c’era motivo di preoccuparsi; ma, a forza di ripeterlo, non faceva altro che diffondere il panico. Continuavano a insistere che bisognava vaccinarsi, e infatti lo Stato ha provveduto a rifornirsi di abbondanti scorte di vaccino. Che cosa è successo? Gli italiani, piú saggi di politici e giornalisti, se ne sono infischiati dell’ingiustificato allarmismo, non si sono fatti vaccinare, e le dosi di vaccino sono rimaste nei depositi, tanto che qualche politico ha lanciato il sospetto che sia stata tutta una montatura delle case farmaceutiche per vendere il vaccino. E della suina nessuno piú parla.

A inizio dicembre si è svolta a Copenaghen la 15ª Conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico. È da anni che continuano a lavarci il cervello col “riscaldamento globale”: non è bastato che nell’imminenza della Conferenza qualcuno fosse riuscito a intercettare messaggi email che dimostravano la manipolazione dei dati diffusi; ma proprio nei giorni della Conferenza l’Europa veniva attanagliata dal freddo, un freddo che non si vedeva da anni e che non accenna a diminuire. Ma non importa: la parola d'ordine rimane “riscaldamento globale”

C’è poi l’isteria scatenata dal fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit, che avrà come risultato un ulteriore restringimento delle misure di sicurezza negli aeroporti (come se non fossero già abbastanza severe e spesso irritanti). Come mai — mi chiedo — le sofisticatissime macchine, che riuscivano a scoprire una innocua bomboletta di schiuma da barba nel bagaglio, non sono state in grado di rilevare esplosivo... nelle mutande? No, adesso ci vuole il body scanner! E tutti a dire: sí, è giusto; per la sicurezza siamo disposti anche a spogliarci completamente. Senza voler dare credito alle teorie complottiste, secondo cui gli Stati Uniti starebbero cercando pretesti per intervenire nello Yemen (mi sa tanto che sia stata un’ottima idea dare il premio Nobel per la pace preventivo a Obama, cosí prima di scatenare un’altra guerra ci penserà due volte), viene il sospetto che siano state le ditte costruttrici del body scanner a organizzare il fallito attentato natalizio...

Direte che sono un superficiale, un qualunquista incapace di considerare la complessità della realtà. Sarà anche vero; ma che posso farci se gli “operatori della comunicazione” non riescono a convincermi con i loro allarmi? Anche perché in altri casi mi convincono e come! Come per esempio quando, sotto Natale, mi parlavano dei lavoratori che stanno perdendo il posto di lavoro; o come ieri sera, quando mi parlavano degli scontri di Rosarno. Queste sí che son tragedie!

Ma il colmo della ridicolaggine è stato ieri sera il programma Mistero su Italia 1, che si è occupato delle profezie maya sul 2012. Non voglio qui entrare nel merito della questione, di cui si è già occupato in maniera esauriente Massimo Introvigne (vedi qui); quel che mi interessa è il modo in cui se ne è parlato: sono stati chiamati a disquisire sul tema una “esperta di profezie maya”, un “giornalista” e... Alessandro Cecchi Paone (senza ulteriori qualifiche), i quali naturalmente parlavano non solo della fine del mondo per il 21 dicembre 2012, ma anche della pretesa profezia maya come di cosa certa, senza portare mai uno straccio di prova. E questa sarebbe informazione corretta? E questo sarebbe il mondo uscito dalla rivoluzione scientifica? E poi accusano la Chiesa di oscurantismo medievale? Ma gli studiosi medievali, in confronto a certi “esperti” postmoderni erano campioni di rigore scientifico!

Beh, diciamo che mi trovo un po’ disorientato: si tratterà forse dello stordimento che segue al cambiamento di ambiente; ci sarà bisogno di un po’ di adattamento. Speriamo bene. Ma certo la prima impressione non è proprio delle migliori...

sabato 2 gennaio 2010

Rieccomi!

Le feste sono state l’occasione per scambiarci gli auguri (a proposito, Buon Anno a tutti i lettori!) e anche per... raccogliere “il grido di dolore che da tante parti si leva verso di noi”. Scherzo! Il mondo è andato avanti senza grossi problemi fino al 30 gennaio 2009 (data di nascita di Senza peli sulla lingua); certamente può continuare ad andare avanti senza questo blog. A qualcuno però è dispiaciuto che il “Querciolino errante”, una volta cessato di vagabondare per il mondo, abbia anche perso la favella (è ovvio che, accanto ai dispiaciuti, ci sarà stato anche qualcuno a cui il silenzio di Querculanus non è dispiaciuto affatto, e molti altri — probabilmente la stragrande maggioranza — rimasti semplicemente indifferenti).

Effettivamente c’è da dire che in tutte le cose si può trovare un compromesso: passare da una frequenza pressoché quotidiana di post al silenzio totale forse non è giusto; ci può essere una via di mezzo. Si può aggiornare il blog saltuariamente, senza alcuna regolarità, oppure con una frequenza piú diradata (p. es., settimanalmente). Ecco, vorrei riprendere a scrivere qualcosa, per il momento non so con quale tempistica (staremo a vedere).

In questo mese di silenzio (il mio ultimo post risale alla fine di novembre) di cose ne sono successe. Non voglio certo passare in rassegna tutti gli eventi dell’ultimo scorcio del 2009. Ma non posso fare a meno di dire due parole su quanto è avvenuto in seguito alla dichiarazione dell’eroicità delle virtú di Pio XII (20 dicembre 2009). Dico subito che ho accolto con immenso piacere la contemporanea proclamazione di Pio XII e Giovanni Paolo II come “venerabili”: mi è sembrata una mossa geniale (e inattesa) da parte di Benedetto XVI. Ciò che mi ha dato noia non sono state tanto le reazioni del mondo ebraico — scontate! — quanto la nota del Padre Lombardi, che con le sue contorsioni logiche è riuscita a svigorire in un solo colpo una decisione limpida e coraggiosa.

Non che quanto affermato dal portavoce vaticano sia una novità assoluta: lo stesso ragionamento fu utilizzato in riferimento a Pio X, per il suo atteggiamento giudicato troppo rigido nei confronti di veri o presunti modernisti; e, come ricorda lo stesso Padre Lombardi, fu ripreso da Giovanni Paolo II in riferimento a Pio IX. Il ragionamento ha un certo fondamento (non c’è dubbio che i santi possono aver commesso degli errori durante la loro vita, senza che ciò infici in alcun modo la loro santità), anche se bisogna stare attenti a non portare alle estreme conseguenze la contrapposizione tra la “testimonianza di vita cristiana data dalla persona” e la “portata storica delle sue scelte operative”; perché altrimenti non si capisce in che cosa consisterebbe una testimonianza di vita cristiana che non si esprima in concrete scelte operative.

Ma il punto è un altro. Quel che non torna è perché tale distinzione la si applichi solo in alcuni casi: guarda caso, solo con i Papi di nome Pio (IX, X e XII). Come giustamente qualcuno ha fatto notare, le parole pronunciate da Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Pio IX («La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio, la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtú a lode della grazia divina che in esse risplende») non potrebbero applicarsi anche a chi le ha pronunciate? O, nel caso di Papa Wojtyla, ci troviamo di fronte a una santità “senza se e senza ma”, nei confronti della quale non c’è bisogno di alcuna ricerca storica (tanto è vero che si è derogato anche alle norme procedurali da lui stesso emanate)? Significa che d’ora in poi avremo due categorie di santità: una da accettare in blocco (“prendere o lasciare”), senza possibilità alcuna di critica; e l’altra, dove invece sarà possibile procedere a una serie di distinguo (prendiamo le virtú cristiane e rifiutiamo le scelte operative)? Voi capite che, una volta intrapresa questa strada, non si sa dove si va a finire (sarà un caso che la nota di Padre Lombardi non compare nel Bollettino della Sala Stampa?).

Quanto poi alla ricerca storica, mi sembra ovvio che essa debba godere sempre della massima libertà. Non credo che la Chiesa abbia nulla da temere al riguardo. I processi di canonizzazione sono sempre stati un esempio di estremo rigore storico (ed è per questo che dovremmo andarci piano a derogare alle procedure previste, men che meno per assecondare la piazza, facilmente manipolabile). Ma c’è proprio un settore, oggi, dove le leggi di non pochi stati limitano tale libertà di ricerca. Sapete a che cosa mi riferisco. Non mi sembra molto coerente usare, riguardo al medesimo periodo storico, due pesi e due misure.

sabato 28 novembre 2009

Ai lettori

Cari Amici, avrete notato che sono diversi giorni che il blog non viene aggiornato. Avete diritto a una parola di spiegazione. Come sapete, da qualche settimana sono tornato in Italia e ho ripreso il mio consueto lavoro nella comunità, nella scuola e nella parrocchia. Ebbene, devo confessare che, almeno per il momento, non riesco a stare dietro al blog. Non è la prima volta che mi capita: anche quando mi ero trasferito dalle Filippine in India era successo qualcosa di simile. Il cambiamento di ambiente e di attività comporta inevitabilmente una fase di adattamento. In quel caso, dopo qualche tempo, riuscii a organizzarmi.

Ora, direi, stiamo a vedere che cosa succede: se, anche questa volta, dopo una prima fase di rodaggio, riesco a trovare il modo di conciliare l’attività di blogger con i vari impegni a cui devo attendere quotidianamente, oppure no. Se non sarà possibile, significa che sarò costretto a sospendere tale attività. Mi dispiacerebbe, perché ho notato che Senza peli sulla lingua, in questi dieci mesi, ha riscosso un lusinghiero successo in termini di interesse e numero di lettori (proprio in questi giorni in un blog peruviano esso è stato definito “prestigioso”!). Ma, dovendo operare una scelta fra le incombenze richieste dall’obbedienza e un’attività di libera iniziativa, non c’è dubbio da che parte penderà la bilancia: è ovvio che per un religioso al primo posto viene sempre l’obbedienza. “In la sua voluntate è nostra pace”.

martedì 24 novembre 2009

Porgere l'altra guancia?

Ricevo da David:

«Tempo fa, durante uno dei soliti pogrom periodicamente scatenati dai musulmani locali contro la comunità cristiana, un vescovo anglicano della Nigeria mandò a dire ai leader islamici attraverso la stampa che non erano loro i soli a saper usare i fucili. La risposta, almeno nel medio periodo, sortí l’effetto desiderato: agli islamisti forse venne in mente che nel Vecchio Testamento (che è parte integrante delle scritture) David afferma con coraggio: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato”, prima di uccidere Golia. Ora, lasciamo da parte le armi vere e parliamo solo di quelle mediatiche e legali.

Ho letto il caso di Miss Brown e Myriam su Il Sussidiario e mi sono reso conto di una cosa: in fondo, la signora — che nemmeno è cattolica, credo — è stata lasciata sola e in braghe di tela dai suoi correligionari. Già, perché per quello che ho capito non ci sono state fiaccolate per le strade della città in difesa delle due donne, né la diocesi — che immagino sia anglicana o evangelica — ha alzato un dito per difenderla, magari solo costituendosi parte civile — se possibile nel diritto di common law — o meglio ancora pagandole un ottimo avvocato. Mi sono detto: il Signore aveva profetizzato che i figli della luce sarebbero stati meno scaltri di quelli delle tenebre... non castrati! Già, castrati.. nel senso di privi di vigore nel difendersi e nel difendere i deboli. Qualcuno deve avere in testa una bizzarra interpretazione di “porgere l’altra guancia”: se di fronte al male e all’oppressione dei piccoli restiamo inerti, ci rendiamo complici di un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio (per dirla con San Pio X) e attiriamo su di noi quella stessa ira.

Siamo forse ciechi? Non ci accorgiamo che in America l’ABC è un atteggiamento diffuso? Mi riferisco a quel furore antipapista (“All But Catholicism”) che provoca discriminazioni, abusi e non poche violenze contro le comunità cattoliche, indipendentemente dalla loro etnia. Il pregiudizio è talmente diffuso che un solo presidente cattolico è stato eletto in duecento anni in un Paese per oltre un terzo abitato da... papisti. Se questo succede negli Stati Uniti, figurarsi in altri Paesi! Se in Francia la Catholica da un secolo vive sotto il pregiudizio continuo della “laicità di stato”, in Spagna da un lustro il Governo è animato da un furore ideologico spaventoso e privo di rispetto per quanti sono stati massacrati nella Guerra Civile Spagnola (agli “smemorati” che accusano la Chiesa di simpatie franchiste, ricordo che cinquemila religiosi e decine di migliaia di fedeli finirono trucidati dalle sinistre anarchico-socialiste: io ho ottima memoria!). In Russia e in Turchia siamo tollerati a patto di non fiatare. In Cina, in Viet Nam, nel mondo arabo e in Birmania essere cattolico è ragione sufficiente per finire incarcerati senza difesa e senza processo. In India e in Africa si è assistito a “cacce al cattolico” degne di Diocleziano. Le istituzioni europee hanno reso legale il pregiudizio anticattolico: l’ostensione di simboli e la pratica religiosa sono ragioni sufficienti per perdere incarichi pubblici ecc.

Ora, mi domando che senso abbia stare a guardare questo scempio. Certamente, ognuno di noi ha il diritto — di radice evangelica — di porgere la propria guancia all’infinito per ricevere schiaffi: ma nessuno, in buona fede e facendosi scudo delle Scritture, può lasciare che questo succeda agli altri. Quante volte abbiamo voltato la testa dall’altra parte, pensando che in fondo per i cristiani è “normale” essere perseguitati? Ipocrisia: è un modo come un altro per lasciare che le guance degli altri vengano percosse! Perché le conferenze episcopali non si costituiscono parte civile in tutti i processi in cui ci sia “fumus persecutionis” contro cattolici? Mi si dirà che la Chiesa non può rischiare di mettersi dalla parte dei colpevoli: beh, questa è una bella corbelleria! Vige il principio della presunzione di innocenza, non il contrario! Poi, in tanti casi il “fumus” è evidente e merita approfondimenti... Tra l’altro, sarebbe opportuno una buona volta imitare i musulmani e gli ebrei che hanno costituito agenzie apposite, come la Anti-Defamation League, al solo scopo di tutelare il buon nome e la libertà dei loro correligionari e della loro fede. Basterebbe davvero poco: in fondo, non credo che alla Santa Sede o alle Conferenze Episcopali manchino i fondi né le relazioni con principi del foro e giornalisti capaci per scatenare campagne giudiziarie e nei media in difesa dei cattolici oppressi.

Fino a quando continueremo a porgere l’altra guancia... dei fratelli?».

Sono d’accordo. Sempre pronti a batterci il petto, anche per colpe che non abbiamo commesso, ma mai pronti a batterci in difesa della Chiesa.

domenica 22 novembre 2009

Cristo Re

«Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità».

Facciamo qualche difficoltà a cogliere il nesso logico fra la prima affermazione di Gesú («Io sono re») e la seconda («Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità»). Solitamente, per noi, non esiste alcun rapporto fra regalità e testimonianza della verità. La regalità, la colleghiamo spontaneamente con il potere e la forza. La testimonianza della verità, invece, la associamo ad altre figure, come il profeta, il maestro, il martire... certo, non al re. Semmai, il compito dell’autorità, piuttosto che nella testimonianza della verità, lo individuiamo nell’edificazione dell’unità.

Eppure, Gesú ci dice che lui è re, perché è venuto a dare testimonianza alla verità. È vero, nel testo evangelico quel “perché” non c’è; ma, secondo le usuali regole di interpretazione, esso è chiaramente presupposto. Che cosa intende dire Gesú?

Gesú aveva appena affermato: «Il mio regno non è di questo mondo ... il mio regno non è di quaggiú». C’è una profonda differenza fra la regalità umana e quella di Gesú. È vero che la regalità terrena si identifica col potere; ma non è questo che la distingue dalla regalità di Gesú: anche a lui «furono dati potere, gloria e regno ... il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai». La differenza sta nel fondamento di tale potere: nel mondo, il piú delle volte, il potere si fonda sulla menzogna; è una mera manifestazione di forza. Comanda chi è piú forte: il potere, viene per lo piú preso e imposto con la forza. Per nascondere tale realtà, la si avvolge nella menzogna; e questa diventa cosí il fondamento del potere. È per questo che i tiranni temono la verità piú che la violenza: perché sanno che, se si dice la verità, il loro potere si sbriciola (alla violenza, invece, possono sempre opporre altra violenza). Ce lo insegna la storia, anche recente: regimi, che sembravano incrollabili, spazzati via, da un giorno all’altro, dalla forza inerme della verità...

Gesú è venuto nel mondo totalmente disarmato, nella piú assoluta debolezza: la sua sola forza stava nella verità: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità». Eppure, o meglio proprio per questo, «a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28:18). Il suo potere si fonda non sulla forza, ma sulla verità. Il potere, lui non lo prende con la violenza, ma gli viene concesso dall’alto. Il regno di Cristo non è di questo mondo, perché non è un regno che si fonda sulla forza delle armi, sull’oppressione, sulla menzogna, sull’ingiustizia; non è un regno che genera odio, sofferenza e morte, ma un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace».

sabato 21 novembre 2009

Ancora sull'immigrazione

David fa, come al solito, considerazioni molto interessanti sul fenomeno dell’immigrazione:

«Per dire due parole sulle migrazioni, voglio partire da un... tubero! Nel 1846 la Vergine a La Salette fece una profezia: “Le patate marciranno sotto terra”. Nel 1847 la peronospora, un parassita venuto dall’America, distrusse il raccolto del prezioso alimento in tutta l’Europa. Per chi aveva cereali, legumi e vino di cui cibarsi, la perdita fu grave ma non devastante. Per gli Irlandesi, che si nutrivano da generazioni con 5/6 chili di patate (miste a latte) al giorno, significò la piú grave carestia della loro storia. Per cinque anni l’isola verde fu spazzata dalla fame (la “Grande Carestia”, appunto), dalle epidemie e... dall’indifferenza dei padroni, gli Inglesi, che colsero l’occasione per applicare in modo integrale la dottrina malthusiana: non hanno cibo perché sono troppi, sono troppi perché fanno troppi figli, ergo lasciamo che la natura faccia il suo corso... A dire il vero, Londra non rimase del tutto indifferente, cosí come le organizzazioni internazionali e le grandi corporation non sono del tutto sorde alle miseria di certe aree del Terzo Mondo: il Parlamento approvò la cosí detta “Poor Law”, che obbligava i contadini irlandesi a cedere le loro terre per ottenere aiuti utili alla mera sussistenza. Chissà se non fischiano le orecchie a certi fautori di campagne di aiuti umanitari o investitori nell’Africa sub-sahariana... Il risultato fu che l’isola, che aveva una popolazione di 8,2 milioni di persone nel 1841, perse il 25% degli abitanti nel giro di dieci anni e altri quattro milioni nei due decenni successivi. Carestia, sfruttamento, insensata lotta al sovrappopolamento: sono realtà che da due generazioni molti Paesi africani e asiatici conoscono bene. La conseguenza è la stessa che per gli Irlandesi nell’Ottocento: milioni di persone allora si spostarono soprattutto verso gli Stati Uniti, producendo un colossale “shock” per un Paese allora a stragrande maggioranza WASP: White, AngloSaxon and Protestant. Gli Irlandesi, seguiti poi da Italiani e Polacchi, determinarono un radicale cambiamento negli States: apparvero le prime chiese cattoliche, i primi monasteri e infine i primi santuari mariani sulla costa orientale. Oggi, si ha spesso l’impressione che l’immigrazione debba comportare per forza di cose una islamizzazione dei Paesi ospiti. E poi un aumento del tasso di criminalità. Sull’islamizzazione, credo che cozzi contro le cifre vere del fenomeno: la grande maggioranza degli immigrati provengono da Paesi di religione ortodossa (Romania, Russia, Ucraina) o cattolica (Filippine, Polonia, Croazia e Sud America), mentre gli arabi islamici sono soprattutto concentrati in alcune aree (Nord-Ovest dell’Italia, Paesi Bassi, Sud del Regno Unito, Parigi) dove la stupidità di certi politici ha concesso loro privilegi non dovuti e spesso nemmeno richiesti. Altro è il discorso circa la criminalità. A costo di attirarmi le ire dei lettori del Sud, voglio dire che il Centro-Nord dell’Italia aveva già perduto la sua tranquillità con le grandi migrazioni dal Mezzogiorno, che avevano riversato — in mezzo a milioni di campani, calabresi, siciliani e pugliesi onesti — gran parte della feccia della criminalità meridionale nei capoluoghi industriali del Nord. È inutile nascondersi dietro un dito: le organizzazioni mafiose cinesi, russe, nigeriane e marocchine hanno tratto gli stessi vantaggi che a suo tempo conseguirono la Camorra, Cosa Nostra e la Ndrangheta. Ora, parlare di accoglienza in uno scenario come questo, non è facile e a prima vista appare anche una scelta coraggiosa. Ma non sempre è una scelta in favore dei Paesi di origine delle migrazioni: è mia opinione che la Chiesa cattolica tratti spesso questi fenomeni solo dal punto di vista del “grande uomo bianco”. Sí, perché per l’Irlanda la perdita di tre quarti della propria popolazione significò la condanna a uno stato di perenne depressione e di sottosviluppo, che si è allentato per una ventina di anni, fino alla crisi del 2008. Piccola, povera e davvero isolata, l’Irlanda ha cattolicizzato il mondo, ma a un prezzo altissimo. Lo stesso discorso vale per i giorni nostri: l’ingegnere egiziano che fa il pizzaiolo a Napoli o che arrostisce salsicciotti a Central Park magari riesce a inviare delle rimesse a casa, ma rappresenta pur sempre una sconfitta per il suo Paese, che lo ha cresciuto e educato per ben altri compiti. Il rientro in patria degli emigranti italiani, una volta giunti all’età della pensione, ovvero il ritorno in India di ingegneri e tecnici informatici di fronte al boom della Sylicon Valley indiana sono, a dire il vero, il segno che l’emigrazione, lungi da essere un segno di speranza, rappresenta solo una soluzione transitoria fuori dalla disperazione. Forse dovremmo leggere di piú le Scritture sull’esilio degli Ebrei a Babilonia e pensare quanto in fondo “sa di sale lo pane altrui”».

È sempre bene considerare le cose da diversi punti di vista, perché in tal modo se ne scoprono aspetti, che altrimenti rimarrebbero nascosti. Penso comunque che qui non si tratta tanto di esprimere un giudizio di valore sulle migrazioni: se esse siano opportune o no. Esse sono una realtà, di cui dobbiamo prendere atto. Come dicevo ieri, in tutte le cose possiamo scoprire aspetti positivi e negativi (nell’esperienza irlandese, l’aspetto positivo è stato la “cattolicizzazione” degli Stati Uniti; l’aspetto negativo, la depressione di quel paese fino ai nostri giorni). La preoccupazione della Chiesa non è tanto quella di esprimere giudizi di valore sui fenomeni storici, quanto quella di “umanizzare” certe situazioni, che non dipendono da essa: ecco il discorso dell’accoglienza. Certo, sarebbe bello che tutti potessero restare a casa loro, e cosí contribuire allo sviluppo del proprio paese. Forse, come abbiamo detto altre volte, la Chiesa non dovrebbe limitarsi a esortare all’accoglienza; dovrebbe farsi anche promotrice di progresso in loco (e in parte già lo fa). Ma intanto deve fare i conti con una realtà esistente, di fronte alla quale non può rimanere indifferente; e lo fa non solo invitando all’accoglienza, ma anche cercando di trasformare, come dicevamo ieri, quello che potrebbe sembrare solo un problema in un’opportunità.

Pienamente d’accordo sulla stupidità di certi politici: andatevi a leggere questa storia incredibile sul Sussidiario di oggi.

venerdì 20 novembre 2009

Chiesa e immigrazione

Beatrice, dalla Francia mi chiede un parere su una questione molto attuale, delicata e dibattuta: l’immigrazione. Nel suo messaggio fa riferimento al discorso pronunciato dal Santo Padre, una decina di giorni fa, nel corso dell’udienza ai partecipanti al VI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati. E aggiunge:

«Come dice Caterina per un altro soggetto, si tratta di un argomento che, “non avendo nulla a che fare con l’infallibilità”, può essere pacificamente discusso. Debbo confessare che faccio un po’ fatica a capire che cosa si aspetta il Santo Padre da noi (pur essendo sicura che egli dice la sola cosa possibile nel suo ruolo) leggendo questo: “La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie, sapendo che essi non sono solo un ‘problema’, ma costituiscono una ‘risorsa’ da saper valorizzare opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo”. Personalmente, credo di fare il mio possibile, ma l’inverso non è affatto evidente, qui dove vivo...».

Sono d’accordo con Beatrice che, trattandosi di una questione pastorale, non entra in gioco l’infallibilità, che riguarda esclusivamente le questioni dottrinali di fede e di morale. I problemi pastorali possono avere soluzioni diverse (e di fatto la Chiesa li affronta in maniera diversa, a seconda dei tempi e dei luoghi) e se ne può perciò liberamente discutere. Ciò non significa però che la Chiesa non abbia il diritto — e il dovere — di dare ai fedeli degli orientamenti da seguire, ispirandosi ai principi morali (quelli, sí, immutabili) e tenendo conto delle situazioni concrete in cui viviamo. Si tratta di uno dei compiti principali della Chiesa in ogni tempo: essa non deve solo interpretare e proclamare la retta dottrina, ma deve anche applicare tale dottrina alle diverse epoche storiche e ai diversi ambienti geografici in cui si trova a vivere.

Benedetto XVI, giustamente, rileva nel suo discorso: «Se il fenomeno migratorio è antico quanto la storia dell’umanità, esso non aveva mai assunto un rilievo cosí grande per consistenza e per complessità di problematiche, come al giorno d’oggi. Interessa ormai quasi tutti i Paesi del mondo e si inserisce nel vasto processo della globalizzazione». Se questa osservazione è vera — come è vera (e penso che nessuno possa eccepire sulla sua validità) — potrebbe la Chiesa ignorare tale fenomeno e far finta che non esista? Se lo facesse, allora sí che la si potrebbe accusare di vivere fuori del mondo. Non è solo suo diritto, ma è suo dovere prendere posizione in materia, non per “fare politica” (è ovvio che non è compito della Chiesa proporre soluzioni tecniche al problema), ma per ricordare i principi morali che devono guidarci nella ricerca di tali soluzioni tecniche e, soprattutto, per indicarci quale deve essere l’atteggiamento di fondo, le disposizioni interiori con cui dobbiamo affrontare il problema.

Il tema del convegno (e del discorso del Papa) era: “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”. Esso ci ricorda che la novità non sta nel fenomeno migratorio in sé (sempre esistito), ma nell’era della globalizzazione, in cui esso si inserisce. Per quanto si possa discutere sulla globalizzazione, essa è un dato di fatto, è la realtà in cui viviamo: ne godiamo dei benefici e ne subiamo gli inconvenienti. Dove inseriamo le migrazioni: fra i benefici o fra gli inconvenienti della globalizzazione? Probabilmente sia fra gli uni che fra gli altri, perché tale fenomeno comporta tanto benefici quanto inconvenienti; come, del resto, qualsiasi altra realtà umana: non c’è rosa senza spine.

La tentazione, che assale anche molti cristiani, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione e dall’immigrazione è quella di chiuderci in noi stessi e dire (come abbiamo sentito ripetere anche in questi giorni): “Tornino a casa loro! Non c’è lavoro per noi; figuriamoci per loro!”. Può essere una reazione comprensibile; ma del tutto irrazionale. In certi casi, non possiamo lasciarci guidare dalle emozioni; dobbiamo usare la testa. Soprattutto chi ha la responsabilità della cosa pubblica e deve trovare le soluzioni tecniche di cui si diceva, deve farlo usando la ragione e non assecondando le spinte emotive.

Il pensare di potersi chiudere in sé stessi e in tal modo risolvere i nostri problemi è semplicemente ingenuo e illusorio. Che lo si voglia o no, viviamo in un mondo globalizzato; siamo cioè interconnessi col resto del mondo e dell’umanità. E non possiamo farne a meno: tanto vale cogliere questa occasione per trarne il maggior beneficio per noi stessi e per gli altri. Viene gente da ogni parte del mondo a cercare lavoro qui da noi? Che male c’è? Lo abbiamo fatto anche noi nel passato; e se oggi godiamo di un certo benessere, lo dobbiamo anche ai sacrifici dei nostri padri e dei nostri nonni, che hanno lasciato l’Italia in cerca di fortuna all’estero. Inoltre, noi abbiamo bisogno di questi lavoratori: non è vero che rubano il lavoro ai nostri figli; semplicemente riempiono dei posti che, senza di loro, rimarrebbero vuoti. Non solo non possiamo rifiutarli, ma dovremmo essere loro riconoscenti, perché vengono a svolgere dei servizi, di cui abbiamo bisogno e che altrimenti nessuno farebbe.

Questo, credo, significhi trasformare un “problema” in una “risorsa”. È vero che talvolta tale frase può trasformarsi in uno slogan; ma si tratta di un principio generale profondamente vero: saggio è colui che è capace di trasformare i problemi in “opportunità”. Anziché continuare a lamentarsi, imprecare e piangersi addosso, è molto meglio cercare di trarre qualche vantaggio da certe situazioni che siamo costretti a subire. Difficile? Non c’è dubbio; ma dove sta scritto che la vita sia facile? Oltre tutto, quando non ci sono soluzioni alternative, l’unica via da seguire è appunto questa: sfruttare la situazione per trarne la maggior convenienza. Come vedete, non faccio un discorso moralistico, ma un discorso di interesse (ovviamente, non un tornaconto egoistico, ma, se vogliamo, “globale”).

Beatrice chiede: Che cosa si aspetta il Santo Padre da noi? Non sono il Santo Padre per poter rispondere alla domanda; ma il buon senso mi suggerisce che certamente non si aspetta che noi risolviamo problemi piú grandi di noi: non ci riescono i politici; dovremmo riuscirci noi? Credo che l’unica cosa che il Papa si attende dai cristiani sia, appunto, un atteggiamento di “apertura” nei confronti degli immigrati: «La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie». “Aprire il cuore” non significa, necessariamente, aprire la propria casa o aprire il portafoglio: ci potranno essere dei momenti o delle situazioni in cui ci viene chiesto anche questo; ma è ovvio che, in generale, i semplici fedeli (e cittadini) non possono farsi carico dei problemi dell’umanità intera. “Aprire il cuore” significa non essere prevenuti verso gli immigrati, non considerarli dei “nemici” o dei criminali, ma dei poveri disgraziati, che hanno bisogno della nostra compassione e del nostro aiuto. Aiuto non significa fare loro l’elemosina (oltretutto non rispettosa della dignità delle persone), ma dare loro la possibilità di trovare un lavoro e una sistemazione: se, per esempio, abbiamo bisogno di qualcuno che lavori per noi, non dovremmo escludere la possibilità di affidare (pur con tutte le cautele e nel pieno rispetto della legalità) tale lavoro a un immigrato. Ma ciò che è piú importante è vedere negli immigrati non delle bestie, ma degli esseri umani o, se volete, dei “fratelli” (anche quando non condividono la nostra stessa fede, ma sono pur sempre “figli di Dio”). Non potremo forse risolvere tutti i loro problemi; ma, per lo meno, li avremo fatti sentire accolti e non degli stranieri.