Il vangelo di oggi ci presenta la
parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18:9-14). Essa è preceduta da un’introduzione
(v. 9), con cui l’evangelista spiega il motivo per cui Gesú l’ha pronunciata:
Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione
di essere giusti e disprezzavano gli altri.
La vecchia traduzione della CEI
suonava:
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere
giusti e disprezzavano gli altri.
Il testo originale greco ha:
Εἶπεν δὲ καὶ πρός τινας τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς ὅτι εἰσὶν δίκαιοι
καὶ ἐξουθενοῦντας τοὺς λοιποὺς τὴν παραβολὴν ταύτην.
La traduzione latina della Vulgata (antica e nuova) rende l’originale
nel modo seguente:
Dixit autem et ad
quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros,
parábolam istam.
Anche chi non conosce il greco,
semplicemente confrontando la traduzione latina con le due traduzioni italiane,
si accorge della differenza: nella Vulgata
(che riflette letteralmente il testo originale greco) si parla di «alcuni che confidavano in sé stessi come [se
fossero] giusti» (alla Vulgata semmai si potrebbe rinfacciare
una certa libertà nel tradurre ὅτι
εἰσὶν δίκαιοι con tamquam justi, essendo
la traduzione letterale «poiché sono [=
erano] giusti»); nelle due
traduzioni italiane si dice invece: «alcuni
che presumevano di essere giusti» (1974); «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti» (2008). È
cambiata la forma, ma è rimasto immutato il significato. Ebbene, ho l’impressione
che con tale traduzione, assai libera e apparentemente suggestiva, in realtà si
tradisca il significato originario del testo e si privi la parabola che segue
della sua chiave interpretativa.
Tutto sta a interpretare
correttamente l’espressione τοὺς
πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς. πεποιθότας è il participio perfetto di πείθω, verbo che significa appunto “persuadere, convicere”; ma, al perfetto
(πέποιθα), assume valore
intransitivo (“fidarsi, confidare, aver
fiducia”). Si veda in proposito un qualsiasi dizionario di greco (p. es.,
il Rocci, p. 1451). Naturalmente i
traduttori della CEI la loro interpretazione non se la sono inventata: il
dizionario del Padre Zorell (Lexicon Græcum Novi Testamenti, col.
1023), dopo aver correttamente ricordato che il perfetto πέποιθα ha significato di presente (“fido, confido”), sostiene
sorprendentemente che, seguíto da ὅτι (come nel nostro
caso), πέποιθα significherebbe “avere la persuasione di…”, giustificando cosí la traduzione della
Bibbia CEI. Si potrebbe far notare che quell’ὅτι potrebbe avere valore causale
piú che dichiarativo:
È meglio tradurre hoti
con “perché” invece che con il semplice “che”. I farisei erano completamente “giusti”
di fronte alla legge; è per questo che essi avevano tanta fiducia in se stessi
[2 Cor 1:9] (C. Stuhlmueller, “Il
Vangelo secondo Luca”: Grande Commentario
Biblico, Queriniana, Brescia, 1973, p. 1018).
Il testo citato da Stuhlmueller (2 Cor 1:9) è pressoché identico
a quello evangelico: ἵνα μὴ
πεποιθότες ὦμεν ἐφ' ἑαυτοῖς ἀλλ' ἐπὶ τῷ θεῷ τῷ ἐγείροντι τοὺς νεκρούς, questa
volta tradotto correttamente dalla CEI: «perché
non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti». A
volere, si potrebbe far riferimento anche a un celebre testo del Vecchio Testamento:
«Benedetto l’uomo che confida nel Signore»
(Ger 17:7), che nel greco della Septuaginta
suona: εὐλογημένος ὁ ἄνθρωπος, ὃς πέποιθεν ἐπὶ
τῷ Κυρίῳ (si noti la medesima costruzione che troviamo nel vangelo e in
San Paolo: πέποιθα + ἐπὶ + dativo).
Dopo
questa lunga (e forse arida e noiosa) analisi filologica, vi chiederete perché abbia
sostenuto all’inizio che le due traduzioni della CEI avrebbero privato la
parabola della sua chiave interpretativa. Semplicemente perché la colpa del
fariseo sta proprio nel confidare in sé stesso, non nell’avere “l’intima
presunzione di essere giusto” (sottinteso, senza esserlo). In realtà, il
fariseo era “giusto”, ma la sua giustizia era quella derivante dalla legge e
non quella proveniente da Dio (Fil 3:9) che invece “giustifica” il pubblicano (tra
parentesi, si vedano, nel capitolo terzo della lettera ai Filippesi, i vv. 3-4,
dove viene usato lo stesso verbo πέποιθα per parlare della “fiducia nella carne”).
Come spesso capita, la liturgia coglie nella parola di Dio aspetti
che agli esegeti, con tutta la loro acribía, sfuggono. L’antifona al Benedictus delle Lodi mattutine di
questa XXX domenica durante l’anno, collegando sapientemente la conclusione
della parabola (v. 14) con la sua introduzione (v. 9), canta:
Descéndit publicánus
justificátus in domum suam, ab illo, qui in se confidébat.