L’«autorevole
uomo di Chiesa», che ieri ha pubblicato anonimamente sul blog di Sandro
Magister Settimo Cielo un articolo in risposta ad alcuni interventi del Card. Christoph
Schönborn in Irlanda, a un certo punto della sua trattazione,
ha riportato un episodio riferito dal sito Crux:
Schönborn ha rivelato che quando ha incontrato il papa dopo la presentazione di Amoris laetitia, Francesco lo ha ringraziato e gli ha chiesto se il documento era ortodosso. «Gli dissi: Santo Padre, è pienamente ortodosso». Schönborn ha aggiunto che pochi giorni dopo ricevette da Francesco una piccola nota che diceva: «Grazie per quella parola, che mi ha confortato».
Questo racconto, se da un lato rivela l’umiltà di Francesco che chiede un parere ai suoi teologi di fiducia, non toglie il fatto che dovrebbe essere il papa a dare risposte ai teologi, ai vescovi, ai cardinali i quali, con la parresia richiesta e incorggiata dallo stesso pontefice, gli esprimono gravi preoccupazioni per lo stato della Chiesa.
In tali parole
ritroviamo la tesi centrale dell’articolo (non è il Card. Schönborn che deve
rispondere ai dubia, ma il Pontefice stesso). Sono pienamente d’accordo
con l’articolista; facevo un’osservazione simile nel post del 14 febbraio 2017.
Ma qui vorrei soffermarmi sulla prima frase della citazione su riportata: «Questo
racconto … rivela l’umiltà
di Francesco che chiede un parere ai suoi teologi di fiducia». Beh, non sono molto d’accordo con tale
affermazione. Voi direte: perché?
Perché il Card.
Schönborn, come dicevo nel post di febbraio, pur essendo un grande teologo e un
Cardinale di S. R. C. (e quindi uno stretto collaboratore del Papa), non ha
alcun titolo per esprimere giudizi di ortodossia sui documenti pontifici. O
meglio, può esprimere liberamente il suo parere, come possono farlo tutti gli
altri Cardinali, compresi i quattro che hanno sottoposto al Papa dei dubia.
Se c’è qualcuno
che, ex officio, ha il dovere di esprimere un parere in merito, è la
Congregazione per la dottrina per la fede. Naturalmente, tale parere va
espresso prima e non dopo la pubblicazione del documento
pontificio. La Curia Romana esiste per questo: per coadiuvare «il Romano Pontefice nell’esercizio del suo supremo ufficio
pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese
particolari» (Giovanni Paolo II,
Costituzione apostolica Pastor bonus, 28 giugno 1988, Norme generali,
art. 1). A parer mio, Papa Francesco non doveva chiedere un parere sull’ortodossia
di Amoris laetitia al Card. Schönborn, ma alla CDF. Certamente l’avrà
fatto; il problema è che, a quanto pare, non ne avrebbe tenuto alcun conto. Ha
scritto recentemente Marco Tosatti (che si assume ovviamente tutta la
responsabilità delle sue affermazioni):
Rileggendo gli appunti che ho preso nel corso di questi anni è evidente la frustrazione del card. Müller — e del personale della Congregazione — per l’evidente disinteresse del Pontefice al loro lavoro. Semplicemente, per il Papa era come se non esistessero. Non chiedeva nessuna cooperazione, non offriva nessun dialogo. E, naturalmente, questa situazione è peggiorata durante la preparazione dell’Amoris Laetitia, l’esortazione apostolica su famiglia e divorziati-risposati. Il Papa non ha un metodo di lavoro collegiale, confidava Müller a colleghi cardinali durante gli esercizi spirituali della Curia, all’inizio del 2016. Disse: abbiamo fatto almeno duecento osservazioni, dalle piú gravi che le abbiamo messe in grassetto, alle piú veniali. Non c’è stata nessuna risposta. (La nuova Bussola Quotidiana, 9 luglio 2017).
Ovviamente il Sommo Pontefice è libero di chiedere
pareri a chi vuole, come è libero di fare, di tali pareri, l’uso che ritiene piú opportuno. Non si
parli però di umiltà, che non c’entra niente. Si tratta semplicemente di
sovrano (ancorché problematico, per evidenti ragioni) esercizio della sua
autorità primaziale.
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