L’11 ottobre scorso ricorreva il XXV anniversario della pubblicazione del Catechismo
della Chiesa Cattolica, avvenuta nel 1992, in occasione del trentennale
dell’apertura del Concilio Vaticano II. La ricorrenza è stata celebrata con un
incontro organizzato dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova
evangelizzazione (a cui, dal 2013, è stata trasferita la competenza per la
catechesi, precedentemente affidata alla Congregazione per il clero). Ai
partecipanti all’incontro il Papa ha rivolto un discorso,
che ha avuto una certa risonanza mediatica soprattutto per l’auspicio, in esso
manifestato, che nel Catechismo sia dato «uno spazio piú adeguato e coerente con [le] finalità espresse [nel discorso]» al tema della pena di
morte, e per il ricorso all’immagine della naftalina per stigmatizzare una
concezione errata di tradizione. Come spesso avviene, la concentrazione sui
dettagli ha fatto perdere di vista il quadro d’insieme. Probabilmente il
discorso del Papa meritava una maggiore attenzione, che non fosse solo quella
appuntata su alcuni aspetti, tutto sommato, marginali.
Ho l’impressione che al discorso di Papa Francesco debba essere attribuito
un carattere in qualche modo “programmatico” di quella che, a parer mio, sarà
la seconda fase del suo pontificato. Mi sembra che in genere si sia portati a
sottovalutare il valore di certi interventi pontifici. Avvenne la stessa cosa
con Evangelii gaudium: a molti, me compreso, parve una semplice
esortazione apostolica post-sinodale, che raccoglieva i risultati del Sinodo
del 2012 sulla nuova evangelizzazione; non ci si accorse, o per lo meno non ci
si rese sufficientemente conto, che essa conteneva buona parte del programma
che sarebbe stato attuato durante il pontificato. Cosí ora credo che il
discorso di tre settimane fa potrebbe contenere le linee operative che saranno
seguite nella fase B del pontificato.
Perché parlo di una seconda fase del pontificato? Perché ho l’impressione
che ci troviamo di fronte a una svolta. La fase A del pontificato di Papa
Bergoglio è stata caratterizzata da quella che lui ha chiamato, in Evangelii
gaudium, “conversione pastorale” (n. 25). C’è stato chi ha parlato, a
questo proposito, di “cambio di paradigma” (qui); noi, forse con una certa audacia,
abbiamo parlato di “rivoluzione pastorale” (qui). La caratteristica di questa prima fase
è stata la sottovalutazione della dottrina in favore della pastorale: la
dottrina — è stato insistentemente ripetuto — non cambia; ciò che cambia è
l’atteggiamento della Chiesa verso le persone. L’evento piú significativo di
questa prima fase è stato, senza alcun dubbio, la pubblicazione
dell’esortazione apostolica Amoris laetitia.
Si ha l’impressione che il discorso dell’11 ottobre segni il passaggio a
una nuova fase, nella quale, pur ribadendo che la dottrina non cambia, si pone
l’accento sull’esigenza che essa progredisca. Finora questo non era mai stato
detto; finora si era preferito non parlare di dottrina, se non per svalutarla,
e concentrarsi sulla pastorale. Ora invece si riprende il discorso sulla
dottrina, per dire che essa deve evolversi per rispondere alle sfide dei tempi
che cambiano. Non so se ci si renda conto del cambiamento di prospettiva.
Inviterei i miei lettori a rileggere attentamente il discorso del Papa per
rendersi conto di tale mutamento.
Non saprei dire se questa svolta fosse prevista fin dall’inizio, e faccia
quindi parte di una precisa strategia, o se piuttosto si sia resa necessaria
dopo aver appurato che non è possibile ignorare la dottrina. È un’illusione
pensare che sia possibile attuare una pastorale che non abbia alle spalle una
dottrina ben definita. Se la dottrina dice A e la pastorale fa B, è evidente
che c’è qualcosa che non quadra; per cui o si cambia la pastorale o si cambia
la dottrina. Visto che ormai è la pastorale ad avere la precedenza, è abbastanza
comprensibile che si pensi a una revisione della dottrina.
Il problema dello “sviluppo del dogma” non è nuovo nella Chiesa: essendo la
tradizione, come giustamente ci ricorda Papa Francesco, una realtà dinamica,
essa «progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli
uomini non possono fermare». Lo
sviluppo della tradizione è non solo possibile e legittimo, ma addirittura
necessario: l’escludere a priori qualsiasi novità nella tradizione può avere conseguenze
inimmaginabili. Si pensi, per esempio, ai vetero-cattolici che, in nome della
tradizione, rifiutarono il dogma dell’infallibilità pontificia, definito nel
Concilio Vaticano I e da loro ritenuto una novità inaccettabile, e perciò si
separarono dalla Chiesa di Roma. Ebbene, sono rimasti cosí fedeli alla
tradizione che ai nostri giorni hanno pensato bene di aprire il sacerdozio
anche alle donne!
Il grande assertore dello sviluppo del dogma è stato San Vincenzo di Lerino
(V sec.), richiamato dal Papa nel suo discorso: «[christianae religionis dogma] annis
consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate». Forse può essere utile riprendere la citazione completa
(Commonitorium, c. 23 [n. 29]). Dopo aver descritto le leggi dello
sviluppo nel mondo della natura, San Vincenzo afferma:
Ita etiam christianae religionis dogma sequatur has decet profectuum leges, ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate, incorruptum tamen inlibatumque permaneat et universis partium suarum mensuris cunctisque quasi membris ac sensibus propriis plenum atque perfectum sit, quod nihil praeterea permutationis admittat, nulla proprietatis dispendia, nullam definitionis sustineat varietatem.
Anche il dogma della religione cristiana bisogna che segua queste leggi di sviluppo: che cioè si consolidi con gli anni, si dilati col tempo, cresca con l’età, ma rimanga in ogni caso integro e intatto, e sia compiuto e perfetto nella proporzione di tutte le sue parti e, per cosí dire, in tutte le sue membra e i suoi sensi; e che inoltre non ammetta alcun tipo di mutamento e non subisca alcuna perdita di significato né alcuna variazione nei contorni (traduzione nostra).
Non è la prima volta che Papa Francesco “taglia” San Vincenzo di Lerino. Lo
aveva già fatto in Evangelii gaudium, alla nota 45, dove, riprendendo un
passaggio del discorso di Giovanni XXIII per l’apertura del Concilio Vaticano
II («Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu veritates, quae veneranda
doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur»), aveva tralasciato la frase: «eodem
tamen sensu eademque sententia», che
è un’espressione paolina (1Cor 1:10) usata da San Vincenzo di Lerino, a sua volta ripreso dal Concilio
Vaticano I (si veda la citazione
completa nel post del 27 aprile 2016).
Il fatto di insistere su un aspetto, trascurando l’aspetto opposto, o se
vogliamo complementare, è una caratteristica del discorso dell’11 ottobre.
Mentre nei due Pontefici citati, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, erano
presenti entrambe le preoccupazioni — quella di custodire intatto il deposito
della fede e quella di permettere a tale deposito di essere compreso dagli
uomini del nostro tempo e di esprimere anche le potenzialità in esso implicite
— si ha l’impressione che Papa Francesco sia preoccupato esclusivamente di
questo secondo aspetto. Fra i due verbi da lui evidenziati — “custodire” e
“proseguire” — è chiara la maggiore enfasi posta sul secondo. Anzi, lo stesso
problema dell’aggiornamento del linguaggio, che tanta parte aveva avuto nel
discorso inaugurale del Concilio, sembrerebbe fortemente ridimensionato:
Non è sufficiente, quindi, trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce.
Il che è una verità sacrosanta, che trova il suo fondamento nella costituzione
apostolica Fidei depositum, con cui Giovanni Paolo II approvava il Catechismo;
ma ciò che colpisce è la sottolineatura di questo aspetto a scapito dell’altro
aspetto — quello della custodia del deposito — altrettanto presente in quel
documento. Tale insistenza, insieme con altri indizi, non può che far sorgere
il sospetto che ci si stia preparando a un “aggiornamento” del precedente
magistero. È già stato costituito un “gruppo di ricerca” sull’Humanae vitae
chiamato a «mettere da parte molte letture parziali» dell’enciclica (qui). Ora sembrerebbe che si voglia procedere
anche a una revisione del Catechismo. Nel discorso dell’11 ottobre si
parla di un punto specifico, la pena di morte; ma si direbbe che si tratti di
un riferimento pretestuoso (l’esposizione sulla pena di morte era stata già
rivista in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, nel 1997).
Viene il sospetto che si voglia cominciare di lí, per poi procedere ad altre
modifiche, per altro già richieste da alcuni gruppi (p. es., a proposito
dell’omosessualità). La stessa pubblicazione di una nuova edizione — corredata
di un commento teologico-pastorale — del Catechismo (qui)
è un’iniziativa piuttosto sospetta, non tanto o non solo per i commentatori che
sono stati scelti, ma per l’idea stessa di commento: è proprio necessario
commentare un catechismo? non è già abbastanza chiaro in sé stesso? O non si
vuole piuttosto procedere a una sua “reinterpretazione”? Bisognerà forse
rileggere il Catechismo alla luce di Evangelii gaudium e di Amoris
laetitia?
Infine, spero che non avvenga, a proposito del Catechismo, ciò che
sta avvenendo in ambito liturgico. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II
si era a poco a poco tornati a una certa centralizzazione liturgica, per quanto
atteneva alle traduzioni; ora, con la pubblicazione del motu proprio Magnum
principium, si è tornati alla situazione precedente: ogni competenza in
materia di traduzioni è lasciata alle conferenze episcopali nazionali (qui). Ebbene,
nel campo della catechesi è avvenuto qualcosa di analogo. Il Concilio non aveva
chiesto la stesura di un nuovo catechismo, che sostituisse quello del Concilio
di Trento; esso si era limitato a disporre la preparazione di un “Direttorio
per l’istruzione catechistica del popolo” (Christus Dominus, n. 44),
cosa che si era realizzata nel 1971 (la seconda edizione del Direttorio fu
pubblicata lo stesso giorno della promulgazione dell’edizione tipica del Catechismo,
il 15 agosto 1997). La stesura dei catechismi era quindi lasciata
all’iniziativa delle conferenze episcopali, le quali, nel periodo successivo al
Concilio, si attivarono per la pubblicazione di catechismi nazionali per le
diverse fasce d’età. Uno sforzo immane, che però ebbe risultati piuttosto
deludenti; tanto è vero che i Vescovi riuniti nel Sinodo straordinario del 1985
chiesero al Papa di preparare un catechismo unico per tutta la Chiesa;
richiesta che fu prontamente esaudita con la pubblicazione del Catechismo
della Chiesa Cattolica nel 1992. Una volta pubblicato il catechismo
universale (che è stato un enorme successo, non solo editoriale), i catechismi
locali hanno perso qualsiasi rilevanza fino praticamente a scomparire. È ovvio
che, per i paladini del decentramento ecclesiastico, la pubblicazione del Catechismo
è stato uno scacco che non hanno mai digerito. Ora che siamo in fase di
rivalse, non meraviglierebbe che qualcuno voglia, con qualche stratagemma,
mettere da parte il Catechismo della Chiesa Cattolica, per tornare ai
bei tempi dei catechismi nazionali, dove era evidentemente piú facile adattare la dottrina
alle esigenze del mondo odierno.
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