Le rivoluzioni sono sempre stati fenomeni fondamentalmente elitari. L’esempio piú eclatante è dato dalla rivoluzione napoletana del 1799, di cui si occupò Vincenzo Cuoco nel suo Saggio storico: quella rivoluzione fallí, secondo lo scrittore napoletano, perché fu una “rivoluzione passiva”, cioè subita dal popolo. Ma anche le rivoluzioni riuscite, come la rivoluzione francese o quella russa, non furono meno elitarie della rivoluzione partenopea, anche se i manuali scolastici si sforzano di presentarcele come fenomeni di massa. Esse riuscirono non perché furono sollevazioni popolari, ma perché, a un cero punto, si trasformarono in dittature, e un uomo forte — Napoleone, Lenin o Stalin che sia — permise loro di imporsi in maniera definitiva. Veri fenomeni popolari sono invece le insorgenze controrivoluzionarie (a cominciare dalla Vandea), destinate però, in genere, al fallimento, proprio perché carenti di leader che permettessero loro di prevalere.
Le élites rivoluzionarie hanno sempre avuto sulle labbra il popolo — o meglio, il Popolo con la “p” maiuscola — ma per loro il popolo è sempre stato piú che altro uno slogan, un’idea astratta. Alle élites, del popolo reale in carne e ossa, interessa ben poco; a loro non interessa la realtà, ma l’ideologia. Il popolo — quello vero — in genere non è rivoluzionario, ma attaccato alla tradizione. Lo dimostrano, appunto, le insorgenze popolari contro la rivoluzione francese e contro i tentativi di imporre le idee giacobine nel resto d’Europa. Ma anche nei secoli successivi, ogni volta che al popolo è stata data la possibilità di esprimersi liberamente, esso ha solitamente mostrato un orientamento moderato.
Si consideri ciò che sta avvenendo in questi anni in Occidente, dove, senza che ci sia stata alcuna rivoluzione ufficiale, il potere è ormai concentrato nelle mani di poche élites. Ovviamente anche le attuali élites, come quelle di tutti i tempi, si presentano come avanzate, mentalmente aperte e sensibili ai bisogni dell’umanità; si riempiono la bocca di democrazia, libertà, uguaglianza, diritti umani, ecc. Di fatto, sono preoccupate esclusivamente di perpetuare i loro privilegi. Il popolo, o meglio i popoli (perché, come abbiamo visto, il “popolo” non esiste, è una pura astrazione) hanno cominciato ad aprire gli occhi, e quando hanno la possibilità di votare, nonostante il lavaggio del cervello dei media saldamente controllati dalle élites, scelgono le forze politiche populiste.
La Chiesa non fa eccezione alla regola. Anche nella Chiesa è in corso, ormai da molti anni, una rivoluzione, che si vuol far credere essere una riforma voluta dalla base — dal “popolo di Dio” — ma in realtà è una vera e propria rivoluzione portata avanti da una ristretta élite, che a poco a poco è riuscita a occupare tutti gli spazi di potere, raggiungendo negli anni piú recenti i vertici della Chiesa. Anche in questo caso si parla di popolo di Dio, di Chiesa del popolo, di comunità di base, di decentramento, di maggiore spazio alle Chiese locali, alle conferenze episcopali, ai laici, alle donne. Di fatto, si sta realizzando una centralizzazione che non si era mai vista nella storia della Chiesa e si assiste alla diffusione di una mentalità sempre piú clericale. Si parla di ascolto, ma non si tiene conto di alcuna posizione alternativa e non è ammessa alcuna forma di dissenso. Si ha l’impressione che l’unica preoccupazione dell’élite al potere nella Chiesa sia quella di attuare un’agenda prestabilita, in nessun modo modificabile.
Il paradosso è che i cattolici tradizionalisti, che si sono sempre opposti a qualsiasi tipo di riforma, perché, a loro giudizio, poteva mettere in discussione la struttura gerarchica della Chiesa e minare il primato del Romano Pontefice, ora sono i primi a contestare le iniziative del Papa e arrivano, in qualche caso, a chiederne addirittura le dimissioni. I cattolici progressisti, invece, che sono sempre stati i sostenitori dei diritti delle Chiese locali, delle conferenze episcopali, dei laici, delle donne, dei popoli del terzo mondo, ecc., hanno pensato bene di scalare il potere per poter attuare il loro programma. Il bello è che tutte quelle categorie, che essi hanno contribuito ad emancipare nella Chiesa, si stanno rivelando tutt’altro che rivoluzionarie (si pensi, solo per fare un esempio, all’opposizione al “nuovo corso” che viene dall’episcopato africano o dai laici americani). Anche nella Chiesa, il “popolo” sta dimostrando di essere molto piú conservatore di quanto non ci si attendesse; anche nella Chiesa, rivoluzionarie sono, ancora una volta, soltanto le élites. Dare piú spazio alla base della Chiesa non ha costituito finora un pericolo per la conservazione della fede. I pericoli stanno venendo solo dalle élites clericali.
Questa lunga introduzione per arrivare a parlare della Costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei Vescovi, pubblicata in data 15 settembre e presentata ieri alla stampa (qui). A parte la forma del documento (“costituzione apostolica”), che mi fa tanto subito pensare alle pressioni di un anno fa esercitate sul Papa da alcuni membri dell’episcopato tedesco, perché le riforme fossero “scolpite nella pietra” per mezzo, appunto, di una costituzione apostolica (qui), non mi sento di esprimere un giudizio sui suoi contenuti. L’ho letta; non ci trovo nulla di rivoluzionario; per dare una valutazione, bisognerebbe avere un’esperienza diretta, che io ovviamente non ho. La mia unica preoccupazione è che alle parole seguano i fatti. Tanto per fare un esempio, se si parla di “ascolto del Popolo di Dio” (n. 6), è auspicabile che tale ascolto ci sia davvero. Il timore è che, di fatto, esso si riduca all’ascolto dei soliti noti, scambiati per il “popolo di Dio”. Si parla di “consultazione dei fedeli”: ben venga! La paura è che essa possa risolversi nella consultazione dei soliti organismi di partecipazione, costituiti dalle varie élites a livello parrocchiale, diocesano, nazionale, ecc.
C’è poi la preoccupazione, ancora piú grave, che è stata espressa ieri dalla Nuova Bussola Quotidiana (qui), riassunta nel titolo dell’articolo di Stefano Fontana: “L’agenda è già scritta, il Sinodo diventa solo un pretesto”. Quelle di Fontana sono parole forti, ma certamente non infondate: tutti abbiamo ben viva la memoria di come sono andate le cose negli ultimi due Sinodi sulla famiglia… Il timore è quindi che la riforma del Sinodo serva solo a renderlo uno strumento piú malleabile per introdurre nella Chiesa riforme di carattere eversivo. Spero che il futuro dimostri che tali preoccupazioni erano eccessive.
Quel che mi preme invece qui ribadire è che, ammessa la bontà di questa e di altre riforme e la buona fede di chi le promuove, non si deve aver paura di una Chiesa piú sinodale e piú popolare. Come ho cercato di dimostrare in questo post, non bisogna aver paura del popolo, tanto meno del popolo di Dio. Giustamente Episcopalis communio richiama il sensus fidelium, che un po’ liberamente, ma correttamente traduce come “fiuto che ha il popolo di Dio” (n. 5). Il popolo di Dio non può sbagliarsi nel credere. È piú facile che sbagli una persona — fosse pure un Vescovo o il Papa — che non la totalità dei fedeli. Io rimango stupefatto, in questo periodo di profonda crisi della Chiesa, dalla richiesta di pulizia che sale dai fedeli. Di fronte a un clero che sta dando pessima prova di sé, si pone un laicato che non si limita a restare scandalizzato, ma esige che sia fatta pulizia. Questi laici non sono caduti dal cielo: sono cresciuti in questi anni in mezzo a noi; anche noi abbiamo contribuito a formarli; certamente hanno lasciato il segno su di loro il magistero e l’esempio di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Questi laici hanno dato ascolto a quello che noi — preti, Vescovi, Papi — dicevamo loro; ci hanno preso sul serio. Siamo stati noi a non prendere sul serio quello che dicevamo… Perciò che paura dobbiamo avere a lasciare piú spazio ai laici?
Similmente, a mio parere, non bisogna aver paura a dare piú spazio ai Vescovi. La Chiesa è sempre stata sinodale e ha conservato il deposito della fede proprio attraverso i concili e i sinodi dei Vescovi. A questo proposito vi consiglio di leggere l’intervento, interessantissimo, del Prof. Dario Vitali alla presentazione della costituzione apostolica (qui). Anzi, visto ciò che sta accadendo ai nostri giorni nella Chiesa cattolica, si direbbe che le Chiese ortodosse, con la loro struttura sinodale, abbiano conservato la fede meglio di quanto non siamo riusciti a fare noi con la nostra struttura primaziale. I concili e i sinodi, se svolti in un clima di obbedienza allo Spirito e nella fedeltà alla tradizione, non possono che giovare al bene della Chiesa.
L’unica cosa di cui bisogna aver paura sono le lobby, che tentano di impossessarsi di questi organismi per farne gli strumenti per sovvertire la Chiesa. Ma ho l’impressione che tali trame, che potevano risultare abbastanza facili fino a qualche anno fa (si pensi all’opera di lobbying svolta durante il Concilio Vaticano II), con i mezzi di informazione che abbiamo oggi a disposizione si stiano rivelando sempre piú difficili. È necessario che i fedeli esercitino un’attenta vigilanza, perché nei prossimi Sinodi tutto si svolga regolarmente e possa cosí essere scoraggiato qualsiasi tentativo di manipolazione.
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