lunedì 1 ottobre 2018

Il primato della tradizione



Continuo a ripensare al tema affrontato in uno degli ultimi post: Una Chiesa piú sinodale? Perché no? (19 settembre 2018). Continuo a ripensarci, perché mi sembra di non aver detto tutto quel che bisognava dire. Non che sia sbagliato ciò che ho scritto, ma non è sufficiente. Praticamente mi sono limitato a incoraggiare i lettori a non aver paura della sinodalità e a metterli in guardia dal pericolo delle lobby. E questo è vero. Ma il pericolo non viene solo dalle lobby; esso può venire anche da un episcopato che partecipa a un sinodo in buona fede, ma con l’atteggiamento sbagliato, pensando di poter decidere qualsiasi cosa. Un rischio, questo, nel quale può però incorrere anche il Romano Pontefice: esercitare il primato con la massima buona fede, ma con lo spirito di chi pensa di possedere un potere assoluto. Che voglio dire? Noi stiamo a discutere su primato pontificio e sinodalità, per stabilire se venga prima l’uno o l’altra; ma ci dimentichiamo che il problema non solo loro — il primato e la sinodalità — il vero problema sta nel come viene inteso un concilio, un sinodo o il ministero stesso del Papa. Ci dimentichiamo forse che la sinodalità e il primato non sono valori assoluti, ma relativi: essi sono degli strumenti in funzione di un bene superiore che essi devono perseguire. Quale? La conservazione, l’approfondimento e la trasmissione del deposito della fede. 

Il comando di Paolo a Timoteo è chiaro: Depositum custodi (1Tm 6:20; 2Tm 1:14). Purtroppo, nell’attuale traduzione italiana della Bibbia, la parola “deposito” è scomparsa, quasi fosse incomprensibile, e la si è sostituita con varie perifrasi, che comunque ne rendono il senso: «Custodisci ciò che ti è stato affidato» (1Tm 6:20); «Custodisci … il bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1:14). Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo sottolinea inoltre l’importanza di trasmettere ciò che si è ricevuto: «Ego enim accepi a Domino, quod et tradidi vobis – Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11:23); «Tradidi enim vobis in primis, quod et accepi – A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15:3). Se manca questo senso della tradizione, tanto le riunioni dei Vescovi quanto l’esercizio del primato romano rischiano di trasformarsi in manifestazioni di un potere dispotico, arbitrario, discrezionale.

Recentemente qualcuno — Padre Thomas Rosica, addetto stampa per la lingua inglese presso la Sala stampa vaticana — ha sostenuto che il Papa può fare quel che vuole:
Pope Francis breaks Catholic traditions whenever he wants because he is “free from disordered attachments.” Our Church has indeed entered a new phase: with the advent of this first Jesuit pope, it is openly ruled by an individual rather than by the authority of Scripture alone or even its own dictates of tradition plus Scripture. – Papa Francesco rompe le tradizioni cattoliche quando vuole, perché è “libero da attaccamenti disordinati”. La nostra Chiesa è effettivamente entrata in una nuova fase: con l’avvento di questo primo Papa gesuita, è apertamente governata da un individuo piuttosto che dall’autorità della sola Scrittura o persino dai dettami della tradizione piú la Scrittura. (The Ignatian Qualities of the Petrine Ministry of Pope Francis, 31 luglio 2018: qui)
Sconvolto da tali inquietanti dichiarazioni, sono andato a rileggermi la Costituzione dogmatica Pastor aeternus del Concilio Vaticano I (qui). Di solito, ci si limita a leggere le definizioni dogmatiche di certi documenti, perdendo in tal modo la ricchezza teologica in essi contenuta, che sta alla base di quelle definizioni. Ebbene, se leggiamo il capitolo 4 della Costituzione (“Del magistero infallibile del Romano Pontefice”) troveremo tutta una serie di citazioni che ci fanno comprendere come vada inteso tale magistero, a prescindere dai limiti posti all’infallibilità pontificia nella definizione dogmatica. Viene innanzi tutto ripresa la “formula di Ormisda”, sottoscritta dal IV Concilio Costantinopolitano:
Prima salus est, rectae fidei regulam custodire. – La salvezza consiste anzitutto nel custodire le norme della retta fede (Denzinger-Schönmetzer = DS 3066).
Viene poi citato il II Concilio di Lione:
[Sancta Romana Ecclesia] prae ceteris tenetur fidei veritatem defendere. – Spetta a lei [alla Chiesa Romana], prima di ogni altra, il compito di difendere la verità della fede (DS 3067).
Si passa quindi a una veloce carrellata storica:
[Romani Pontifices] ea tenenda definierunt, quae sacris Scripturis et apostolicis traditionibus consentanea Deo adiutore cognoverant. – [I Romani Pontefici] definirono che doveva essere mantenuto ciò che, con l’aiuto di Dio, avevano riconosciuto conforme alle sacre Scritture e alle tradizioni apostoliche (DS 3069).
Ma l’affermazione piú interessante è quella che segue:
Neque enim Petri successoribus Spiritus Sanctus promissus est, ut eo revelante novam doctrinam patefacerent, sed ut eo assistente traditam per Apostolos revelationem seu fidei depositum sancte custodirent et fideliter exponerent. – Lo Spirito Santo infatti non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede (DS 3070).
Non si può infine dimenticare la Dichiarazione dei Vescovi tedeschi (gennaio-febbraio 1875) che, a quanto ne so, costituisce l’unica interpretazione autorevole del dogma dell’infallibilità pontificia, ratificata dallo stesso Pontefice Pio IX:
[Infallibilitas papalis] restringitur ad proprietatem summi magisterii papalis: id vero coincidit cum ambitu magisterii infallibilis ipsius Ecclesiae et est ligatum ad doctrinam in Sacra Scriptura et in traditione contentam necnon ad definitiones a magisterio ecclesiastico iam latas. – [L’infallibilità pontificia] si restringe alla proprietà del sommo magistero papale: esso coincide con l’ambito del magistero infallibile della Chiesa stessa ed è legato alla dottrina contenuta nella Sacra Scrittura e nella tradizione, come pure alle definizioni già promulgate dal magistero ecclesiastico (DS 3116).
Il Papa perciò non può fare ciò che vuole; è sottomesso anch’egli all’autorità della rivelazione, che è contenuta nella Scrittura e nella tradizione. Egli non può elaborare nuove dottrine. Ripetiamo ancora una volta, casomai non fosse sufficientemente chiaro, ciò che abbiamo appena letto: «Lo Spirito Santo non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede». Dovere del Papa è quello di custodire con scrupolo e far conoscere con fedeltà il deposito della fede. Ma anche i Vescovi, riuniti in Concilio o in Sinodo, hanno lo stesso dovere; non possono pensare che lo Spirito riveli loro qualcosa di nuovo. Devono solo custodire, approfondire, trasmettere ciò che è stato già rivelato e a loro affidato. Prima di una pur opportuna sinodalità, ma anche prima dello stesso primato pontificio, esiste un primato della tradizione, al quale tutti — Papa, Vescovi e fedeli — devono sentirsi sottomessi.

Solo se la fedeltà alla tradizione tornerà a essere per tutti la norma suprema e indiscussa, primato e sinodalità avranno un senso e potranno aiutarsi e arricchirsi a vicenda. In caso contrario, né l’uno né l’altra serviranno a nulla, se non a essere gettati via, come il sale che ha perso il sapore, e a essere calpestati dagli uomini (Mt 5:13).
Q