venerdì 3 aprile 2009

"In nessun altro c'è salvezza"

Caterina ha replicato al mio post Il vero Israele, cercando di spiegare il suo pensiero. Effettivamente, ora mi risulta piú chiaro, ma ciò non significa che mi trovi d'accordo.


1. Motivo del cambio di atteggiamento della Chiesa verso Israele.

Caterina lo trova in un'omelia del Card. Ratzinger (Natale 2000): «Forse proprio a causa della drammaticità di quest'ultima tragedia (= la Shoah), è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa ed Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e di iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione». Siccome tra le possibili cause dell'Olocausto ci potrebbe essere anche l'antigiudaismo della Chiesa cattolica, ecco che dobbiamo cambiare atteggiamento.

Rispondo: con tutto il rispetto per il Card. Ratzinger, non sono affatto d'accordo. In fondo, il Card. Ratzinger non sta dicendo niente di nuovo; si sta facendo semplicemente interprete di una corrente molto diffusa negli ultimi decenni, secondo cui, dopo l'Olocausto, tutto dovrebbe essere ripensato a partire da quell'evento (uno degli slogan di tale corrente, per esempio, era "Ripensare Dio dopo Auschwitz"). E questo lo trovo totalmente inaccettabile, perché significa trasformare un evento storico, per quanto tragico, nell'evento centrale della storia dell'umanità, a partire dal quale ogni realtà dovrebbe essere "ripensata". Che la Shoah sia stato un evento tragico, nessuno lo mette in discussione; ciò che non è accettabile è considerare tale evento come unico, quando di genocidi ce ne sono sempre stati nella storia dell'umanità: prima e dopo la Shoah. E anche ai nostri giorni...

Che i popoli, specialmente i nuovi Stati, si creino i loro miti fondatori, è cosa naturale, è sempre avvenuto. Anche lo Stato italiano ha il suo mito fondatore (il Risorgimento). Nessuno si meraviglia di questo. Che lo Stato d'Israele abbia trasformato la Shoah nel suo mito fondatore, lo si può pure capire (sebbene dovrebbe apparire chiaro da ciò che lo Stato di Israele non ha niente a che fare con la religione ebraica: esso è il frutto di una ideologia, il Sionismo, e ha creato una nuova religione, la religione della Shoah). Ciò che non si può accettare è la pretesa di imporre tale mitizzazione a tutta l'umanità. Ed è sorprendente che anche la Chiesa cattolica accetti supinamente tale pretesa, senza rendersi conto dei rischi che essa comporta. Non si rende conto che trasformare la Shoah nell'evento centrale della storia tende a rimpiazzare la centralità di Cristo (vi sembra casuale la scelta del termine "olocausto"?): il vero messia non è Gesú Cristo, che ha salvato l'umanità con il suo olocausto; il vero messia è il popolo ebraico sterminato dai nazisti.


2. La lotta contro l'ateismo

Caterina aggiunge: «Che la Chiesa stia cercando degli "alleati" contro l'ateismo laicista è palese. Negli anni '90 nascono in Italia gli "atei devoti", ossia coloro che, pur non credendo in Dio o avendo dubbi e non essendo cattolici, difendono tuttavia l'etica e la morale cosí come saggiamente insegna la Chiesa. E questo perché? Perché alla fine degli anni '70 nascono i "cattolici adulti" (i quali voteranno a favore dell'aborto e del divorzio), il cui leader, fondando il partito dell'Ulivo nei primi anni '90, raccoglierà il cattolicesimo progressista italiano, il quale, fino a due giorni fa e per voce del suo nuovo leader PD, attaccava ancora il Pontefice sui contraccettivi... Che il Papa stia cercando alleanze è palese anche dai discorsi che sta rivolgendo negli incontri interreligiosi; egli sta puntando a sensibilizzare ogni religione alla fedeltà della propria fede in tema di etica e morale, e questo perché non ha piú alleati fra le Nazioni e gli Stati, specialmente l'Europa, nella quale si contano sulle dita di una mano gli Stati che non hanno emanato leggi per difendere la vita, il matrimonio e la bioetica».

Rispondo: anche qui non mi trovo affatto d'accordo. Se questa è la politica della Chiesa cattolica oggi, mi spiace, proprio non ci siamo.

a) Gli "atei devoti". Mi spiegate che cosa ce ne facciamo degli "atei devoti"? Che differenza c'è tra un ateo devoto e un ateo laicista? L'ateo devoto accetta (almeno cosí dice) la morale cristiana. E allora? Che cosa è piú importante: Gesú Cristo o la morale cristiana? Chi ci salva: Gesú Cristo o la morale cristiana? Non ci accorgiamo che questo attaccamento alla morale-cristiana-senza-Cristo non è molto diverso dal fariseismo contro cui si è scagliato Gesú? La pretesa dell'uomo di salvarsi con le proprie forze! L'illusione che si possa essere buoni senza l'aiuto di Dio! Non ci rendiamo conto che non è un caso se non esiste piú la morale cristiana? La perdita dei valori morali è solo una conseguenza dell'apostasia, dell'aver abbandonato Cristo. Non è possibile per l'uomo vivere moralmente a prescindere da Cristo: è lui, con la sua grazia, che ci dà la possibilità di vivere secondo la legge morale.

b) Le altre religioni. Anche qui, siccome c'è l'ateismo, alleiamoci con le altre religioni per combattere contro l'ateismo! Almeno loro credono in Dio! Chiedo: in quale dio? L'unico vero Dio è quello rivelato da Gesú Cristo. Le religioni svolgono un ruolo positivo solo in quanto testimonianza della ricerca di Dio da parte dell'uomo (il cosiddetto "senso religioso"); ma quando esse pretendono di proporre un Dio diverso da quello di Gesú Cristo, diventano piú pericolose dell'ateismo. Giustamente Caterina citava nel suo studio dell'altro giorno un'osservazione del Card. Ratzinger (La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, 2000): «La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l’uomo da essa ... La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione. Ma anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione». Io aggiungerei: non solo la religione può trasformarsi in superstizione; ma, se chiusa alla rivelazione, essa rischia di diventare semplice idolatria (l'idolo è un dio creato dall'uomo). A questo proposito, bisognerebbe ricuperare le riflessioni di Karl Barth (a mio parere, il piú grande teologo del XX secolo) sulla religione (nel suo monumentale commento all'Epistola ai Romani). La religione senza la fede (la fede in Cristo) è il maggiore ostacolo all'incontro dell'uomo con Dio (il vero Dio). Essa è l'espressione della presunzione dell'uomo, che si illude di raggiungere il Cielo senza avere bisogno che Dio gli venga incontro.

Concludo dicendo che, secondo me, il grande problema della Chiesa oggi non è l'ateismo, ma l'apostasia (= l'abbandono della fede cristiana). Ciò che essa oggi deve fare non è di difendere Dio e i valori morali (questo lo fa già la massoneria); non è di salvaguardare le "radici (giudaico-)cristiane" dell'Europa (magari conservandole sottovuoto nella vetrina di qualche museo archeologico). Ciò che deve fare la Chiesa oggi, se vuole ridare vita al mondo, è semplicemente predicare Gesú Cristo. "In nessun altro c'è salvezza" (At 4:12).

giovedì 2 aprile 2009

Traduzioni: corrispondenza formale o equivalenza dinamica?

Lycopodium, inviandomi questo link, mi ha chiesto di esprimere un parere a proposito delle traduzioni liturgiche. Lo faccio volentieri, anche perché si tratta di un problema che ho sempre sentito molto.

Tradurre è, in sé, un'opera alquanto ardua. Non si tratta solo di rendere delle parole in un'altra lingua (questo lo può fare anche un traduttore automatico su internet, sappiamo con quali risultati), ma di esprimere un messaggio. E noi ci esprimiamo non solo usando determinate parole (che sono certamente importanti, visto che scegliamo certi termini piuttosto che altri), ma anche attraverso lo stile, i modi di dire (le espressioni idiomatiche), le allusioni; cose tutte ben difficili a rendersi in una lingua diversa. Per questo l'ideale sarebbe leggere i testi sempre nella loro lingua originale. Cosa praticamente impossibile, non solo perché non possiamo conoscere tutte le lingue, ma soprattutto perché, anche quando conosciamo una lingua (specie se si tratta di una lingua "morta"), non sempre possiamo cogliere, oltre il significato, anche le risonanze di un determinato termine o di una determinata espressione. Tanto per fare un esempio, tempo fa ho usato in un mio post il termine "velina": durante il fascismo tale termine aveva un suo significato, oggi ne ha uno completamente diverso. Come potrà anche solo fra cinquanta anni un lettore capire il significato di quel termine? Figuriamoci quando si tratta di termini usati molti secoli fa; ancor piú quando si tratta di una lingua usata per secoli se non addirittura millenni (come il latino) e nei contesti piú diversi: vi sembra facile riuscire a cogliere il preciso significato di una parola che può essere stata usata con diverse accezioni in tempi e luoghi diversi?

Personalmente ritengo che, prima ancora del problema delle traduzioni liturgiche, esista quello delle traduzioni della Bibbia, che ritengo un problema ancor piú grave e urgente. Soprattutto negli ultimi decenni abbiamo avuto un pullulare di traduzioni. Senza considerare le traduzioni protestanti, per limitarci alla Chiesa cattolica, soprattutto dopo la raccomandazione del Concilio a tradurre la Bibbia preferibilmente dai testi originali (Dei Verbum, n. 22), tutti si sono improvvisati traduttori, e ne è venuto fuori quel che ne è venuto fuori. Per poter tradurre dai "testi originali" (espressione alquanto discutibile, perché non possediamo i testi originali della Bibbia) bisognerebbe conoscere molto bene le lingue originali (ebraico e greco). E voi credete che esistano biblisti cosí preparati in tutte le regioni del mondo? Mi viene il vago sospetto che le tanto conclamate traduzioni dai testi originali non siano altro che ritraduzioni, talvolta anche piuttosto approssimative, di scadenti traduzioni nelle lingue europee (specialmente francese e inglese). Ne ho la prova qui dove vivo. Nella liturgia usiamo una traduzione tagalog non cattolica (mi chiedo: possibile che in tutte le Filippine non si trovasse un biblista cattolico capace di fare una traduzione decente della Bibbia nella lingua nazionale?), che a sua volta è una ritraduzione di una delle innumerevoli e discutibilissime traduzioni inglesi "in lingua corrente" (Good News Bible). Vi potete immaginare il risultato. Certe volte, preparando il vangelo della domenica, mi chiedo: ma che cosa sto leggendo, il vangelo o una libera parafrasi di esso?

Per quanto riguarda la Bibbia esiste un grosso dilemma. Esistono due differenti modi di tradurre: in inglese chiamano il primo modo "word for word" (corrispondenza letterale o formale); il secondo, "meaning for meaning" (equivalenza letteraria o dinamica). Anche quando studiavamo latino al liceo esisteva il problema di scegliere fra la traduzione letterale e quella libera. È ovvio che, quando traduciamo Cesare o Cicerone, quel che importa è riuscire a esprimere ciò che quegli autori volevano dire. Ma, nel caso della Bibbia, il problema è un po' diverso: la Scrittura è divinamente ispirata; non possiamo prendere troppo alla leggera la lettera, nella fretta di cogliere il significato. Anche perché non sempre il significato è cosí ovvio; il piú delle volte il significato è molteplice; talvolta esso rimane semplicemente nascosto. Per cui una traduzione "meaning for meaning" si risolve necessariamente in un'arbitraria interpretazione del traduttore, che oltre tutto impedisce al lettore di scoprire per suo conto altri legittimi significati. Pertanto, quando si tratta di Bibbia, non avrei alcun dubbio a scegliere una traduzione letterale. Ne abbiamo due splendidi esempi: la Septuaginta (la traduzione dell'Antico Testamento dall'ebraico in greco) e la Vulgata (la traduzione di Antico e Nuovo Testamento in latino). Anche in inglese hanno avuto due ottime traduzioni letterali della Bibbia: la cattolica Douay-Rheims (condotta sulla Vulgata) e la protestante King James (fatta sui cosiddetti "testi originali" del tempo, in molti casi assai meno sicuri della Vulgata).

Si dirà: va bene una traduzione letterale, ma bisogna che essa sia leggibile; per cui si dovranno pur fare degli adattamenti alla lingua parlata in modo che la traduzione risulti comprensibile. Proprio gli esempi su riportati (in particolare la Vulgata e le due traduzioni inglesi) dimostrano che, anche se all'inizio una traduzione letterale può apparire un tantino ostica (e quelle traduzioni sollevarono notevoli rifiuti), col tempo esse stesse influenzano o addirittura modificano la lingua e diventano alla fine dei capolavori letterari (la King James è ora considerata "the noblest monument of English prose"!). Perché questo non sarebbe piú possibile ai nostri giorni? Perché volere a tutti i costi rendere facile, comprensibile (diciamo pure banale) ciò che, per sua natura, facile non è?

Per quanto riguarda la traduzione italiana della Bibbia, quella della CEI, devo dire che non mi è mai dispiaciuta (forse perché è la traduzione che mi ha accompagnato in tutti questi anni). Non sarà una traduzione perfetta, ma mi sembra una traduzione piú che rispettabile. Trovavo la vecchia edizione molto bella anche dal punto di vista letterario (con i suoi pittoreschi toscanismi). La nuova versione, non la conosco ancora abbastanza. Per quel poco che ho potuto usarla, mi sembra ben fatta, anche se dovrò farci un po' l'orecchio.

Passando alle traduzioni liturgiche, premetto che, secondo me, non ce n'era alcun bisogno: una volta proclamate le letture in lingua volgare, la messa poteva continuare ad essere celebrata, seppure con un rito rinnovato, in latino. Anche senza aver studiato latino, una volta saputo che "Dominus vobiscum" significa "Il Signore sia con voi" (ma siamo poi proprio sicuri che si tratta di una traduzione esatta? non potrebbe piuttosto significare: "Il Signore è con voi"?), dove sta il problema? Io ho imparato a memoria le risposte della messa in latino quando avevo otto anni (facevo la seconda elementare); oggi che siamo tutti laureati è diventato un problema rispondere "Et cum spiritu tuo" a quel saluto? Oltre tutto, in un mondo globalizzato, sarebbe stato quanto mai opportuno usare un'unica lingua per la liturgia. Almeno noi in Italia abbiamo un'unica lingua per la liturgia dalle Alpi alla Sicilia; qui nelle Filippine si usano almeno sette diverse lingue locali: basta che vi spostiate di qualche chilometro e andate a messa, sarete impossibilitati a parteciparvi attivamente, con tanti saluti alla riforma litugica e all'actuosa participatio dei fedeli.

Ma, visto che le traduzioni liturgiche ci sono, che dire? Dirò che in tal caso una traduzione, pur fedele, non potrà essere assolutamente letterale. In tal caso sono per una traduzione "meaning for meaning". Le orazioni latine sono dei piccoli gioielli di retorica; mi dite voi come fate a rendere in lingua volgare il cursus di certi testi? L'unica possibilità che rimane è quella di riesprimere lo stesso contenuto in volgare, usando una forma non solo accettabile, ma anche un tantino letterariamente decorosa.

Quanto al Messale italiano, anche qui, forse perché ci sono "cresciuto insieme", non mi dispiace. Mi rendo conto che in certi casi si discosta un tantino dal testo originale, ma se non altro lo fa con una certa dignità. Soprattutto dopo aver conosciuto il Messale inglese (che sembra non aver niente a che fare con l'originale latino), il Messale italiano mi sembra quasi perfetto.

Per quanto infine riguarda l'ordinario della messa, non so nulla della nuova traduzione italiana in corso; per cui preferisco non pronunciarmi. Mentre conosco la nuova traduzione inglese, non ancora utilizzata, ma già approvata dalla Santa Sede, che mi sembra decisamente ben fatta. Per esempio, il banalissimo "The Lord be with you. – And also with you" è stato sostituito dal piú letterale "The Lord be with you. – And with your spirit". Nel Credo "one in Being with the Father" è stato rimpiazzato da un rigorosissimo "consubstantial with the Father". La formula di consacrazione del calice d'ora in poi sarà: "Take this, all of you, and drink from it, for this is the chalice of my Blood, the Blood of the new and eternal covenant, which will be poured out for you and for many for the forgiveness of sins. Do this in memory of me". Fedelissima all'originale latino. La formula di invito alla comunione sarà: "Behold the Lamb of God, behold him who takes away the sins of the world. Blessed are those called to the supper of the Lamb. – Lord, I am not worthy that you should enter under my roof, but only say the word and my soul shall be healed". Credo proprio che non si potesse fare meglio. Eppure sono già cominciate le polemiche... Potete immaginare. Penso che anche in italiano (dove le modifiche saranno certamente meno rispetto all'inglese) si seguiranno gli stessi criteri. Per cui, sono fiducioso, avremo una buona traduzione. Anche se... in latino sarebbe meglio.

mercoledì 1 aprile 2009

Il vero Israele

L'altro giorno Caterina mi ha mandato una sua riflessione sul nuovo atteggiamento della Chiesa nei confronti di Israele. Non posso pubblicare per intero il suo interessantissimo studio, perché si tratta di un testo assai lungo (9 pagine). Cercherò di sunteggiarlo (sperando di non tradirne il senso), aggiungendo poi alcune considerazioni personali.

Caterina inizia la sua ricerca con un lungo excursus storico, che cerca di prendere in considerazione le questioni solitamente contestate alla Chiesa in questo campo.

1. L'atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei è sempre stato tollerante. L'ultima prova di questa affermazione la troviamo nel volume Pasque di sangue di Toaff (il motivo per cui, secondo Caterina, tale libro fu ritirato non è perché accusa degli ebrei di infanticidio, ma perché dimostra che la Chiesa non è mai stata antisemita).

2. Il ghetto di Roma nasce non perché imposto dal Papa, ma perché richiesto dagli ebrei, che vogliono in tal modo proteggere la loro identità, difendendosi da possibili contaminazioni da parte dei cristiani. In altri paesi (Spagna, Germania, Venezia) i ghetti nascono come alternativa all'espulsione.

3. La pratica dell'usura è da considerarsi come una conseguenza del divieto per gli ebrei di possedere latifondi. Tale divieto era volto a impedire loro di possedere schiavi cristiani. I Papi cercarono di regolare la pratica dell'usura stabilendo un tetto del 20%.

4. Nonostante le bestemmie contro la fede cristiana contenute nel Talmud, i Papi mai proibirono il ricorso a tale libro; al massimo ordinarono di censurare le parti blasfeme. Interessante quanto Innocenzo IV scriveva a Luigi IX re di Francia: "Noi, che secondo il mandato divino siamo tenuti a tollerare che essi osservino questa loro legge, ... non vogliamo privarli ingiustamente dei loro libri".

5. In Spagna le comunità ebraiche godevano di piena autonomia giudiziaria (praticamente, uno stato nello stato). Le violenze che scoppiarono in questo paese tra cristiani ed ebrei si spiegano con la consistenza numerica della comunità ebraica (100mila su una popolazione di 6 milioni di abitanti; i musulmani erano 300mila).

6. Per quanto riguarda il deicidio, il Catechismo del Concilio di Trento dice espressamente che la morte di Gesú fu assolutamente volontaria. La causa di quella morte sono i peccati degli uomini.

7. A proposito della questione dell'aggettivo "perfidi", è evidente che si tratta di un termine che ha cambiato significato col passare dei secoli. Esso veniva usato all'inizio per indicare che gli ebrei non avevano creduto in Cristo; successivamente esso ha assunto il significato attuale. Per questo motivo, prima Pio XII, sollecitato da Eugenio Zolli, spiegò il vero significato del termine; poi Giovanni XXIII abolí il termine dalla preghiera del Venerdí santo.

Dopo questa lunga premessa storica, Caterina formula la sua ipotesi per spiegare il cambio di atteggiamento della Chiesa nei confronti di Israele. Si tratterebbe di "un gioco di equilibrio causato e generato dall'apostasia dell'Europa nei confronti del cristianesimo e di Dio stesso e dall'apostasia di non pochi cristiani". In certo modo, la Chiesa è stata costretta a modificare la propria politica nei confronti di Israele dall'ateismo europeo.

Il problema sta nel modo in cui si concepisce e si attua il dialogo con gli ebrei. Oggi, rispetto al passato, esiste la falsa opinione pastorale secondo cui non sarebbe piú necessario predicare Cristo agli ebrei. Non è, questo, un problema che riguarda solo il dialogo con gli ebrei, ma con qualsiasi religione. L'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma nel suo approfondimento; missione e dialogo non devono essere forme contrapposte, ma compenetrarsi a vicenda.

Fin qui Caterina. Ieri poi mi ha mandato il link al commento di un ebreo, Stefano Levi Della Torre, al documento della Pontificia Commissione per i rapporti con l'ebraismo del 1998 Noi ricordiamo. Si tratta di un articolo assai interessante, perché ci costringe a riflettere su certe prese di posizione molto di moda come la richiesta di scuse per le colpe passate della Chiesa verso gli ebrei.

Per quanto mi riguarda, devo dire che mi trovo in linea di massima d'accordo con Caterina. Non mi sento però di addentrarmi in questioni storiche, perché ritengo che sia necessaria una preparazione che non ho e un approfondimento che non ho la possibilità di fare. Non mi sembra corretto esprimere giudizi storici senza essermi prima adeguatamente documentato.

Parlando molto in generale, per quanto ne so, sono convinto che l'atteggiamento della Chiesa sia stato sempre assai tollerante. Sarebbe del tutto anacronistico accusare la Chiesa di antisemitismo. Antigiudaismo? Non saprei. Bisognerebbe forse precisare meglio il contenuto esatto di tale espressione. Va detto che una critica al giudaismo è presente nelle stesse Scritture, sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento: i profeti, Gesú, gli apostoli. Stefano Levi Della Torre nel succitato articolo fa notare che quelle critiche vengono dall'interno del giudaismo e perciò sono legittime (perché ispirate dall'amore); quelle successive dei cristiani, no. La cosa mi sembra alquanto discutibile. Il problema, secondo me, sta nel non aver ancora compreso il reale rapporto tra la Chiesa e l'antico Israele: la Chiesa è il nuovo Israele, non perché si tratti di una nuova realtà, nata dal nulla e contrapposta all'antico Israele (il quale continuerebbe ad essere l'unico, vero Israele). La Chiesa è il nuovo Israele in quanto è la continuazione dell'antico, il rinnovamento di esso, se vogliamo, la sua "riforma"; ma è lo stesso Israele, il vero Israele. Noi siamo la discendenza di Abramo, non gli ebrei. Non sono i cristiani, ma gli ebrei ad essersi staccati dal vero Israele. Se pertanto la Chiesa è il vero Israele, la critica al giudaismo può e deve continuare ad essere presente, perché è una critica interna e legittima. Il voler escludere qualsiasi tipo di critica al giudaismo significa snaturare il cristianesimo.

Quanto ai "mea culpa", dirò molto onestamente, che non mi sono mai andati giú. Non perché creda che la Chiesa non può sbagliare: basta vedere quanti sbagli fa oggi, per rendersi conto di quanto sia fallibile. E neppure perché penso, come di solito fanno i tradizionalisti, che solo oggi la Chiesa sbaglia, mentre nel passato era perfetta. Anzi, al contrario, proprio vedendo gli errori della Chiesa di oggi, sono portato a pensare che anche nel passato la Chiesa abbia potuto commettere errori piú o meno simili. Per esempio, considerando i silenzi della Chiesa odierna sulla tragedia palestinese, posso capire come la Chiesa del passato abbia potuto tacere sulla tragedia del popolo ebraico. Sono pienamente convinto che la Chiesa sia santa e allo stesso tempo sempre bisognosa di purificazione; come giustamente dice il Card. Biffi, la Sposa immacolata rivestita di stracci. Il motivo per cui non mi vanno i "mea culpa" è molto semplice: il comandamento evangelico di non giudicare non vale solo per i contemporanei, ma anche, e soprattutto, per i nostri fratelli del passato (che non hanno neppure la possibilità di difendersi). Chi siamo noi per ergerci a loro giudici? Se si sono comportati in un certo modo, avranno pure avuto le loro buone ragioni. Dobbiamo andarci piano a pensare che ormai noi abbiamo raggiunto la conoscenza assoluta del bene e del male. Non ci accorgiamo di essere un tantino presuntuosi? Un po' piú di cautela e umiltà non guasterebbe.

Riguardo all'ipotesi formulata da Caterina per spiegare il cambiamento di politica della Chiesa nei confronti dell'ebraismo (anzi, di Israele), confesso di non riuscire a coglierne il senso. Che significa che la Chiesa ha cambiato atteggiamento verso Israele a causa dell'ateismo e dell'apostasia all'interno della Chiesa? Che questi siano problemi reali, non lo metto in dubbio; che la Chiesa debba trovare delle strategie per affrontare la situazione, sono perfettamente d'accordo. Ma che questo debba comportare una modifica nell'atteggiamento verso Israele, sinceramente non vedo il nesso. Forse che la Chiesa debba trovare degli alleati nella sua lotta contro l'ateismo? E dovrebbe andare a cercarsi tali alleati in Israele? Ma se, a parte alcune frange fondamentaliste-fanatiche, in Israele sono tutti atei! Dovremmo chiedere la loro collaborazione per sconfiggere l'ateismo in Europa?

Se vogliamo vincere l'apostasia dell'Europa, abbiamo una sola soluzione: dobbiamo ricominciare ad annunciare il vangelo nella sua purezza. Vangelo significa la buona notizia di Gesú Cristo Figlio di Dio unico salvatore dell'umanità. Se il mondo sta diventando (o è già diventato) ateo, non sarà perché qualche volta i cristiani si vergognano di dire senza mezzi termini che al di fuori di Cristo non c'è salvezza? Quando ricominceremo a parlar chiaro, senza peli sulla lingua, di Gesú Cristo agli uomini d'oggi? Magari accusandoli (gli uomini d'oggi, non quelli di duemila anni fa) di averlo ucciso con i loro peccati...

martedì 31 marzo 2009

"Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono"

Ieri, dopo aver pubblicato il mio post per i due mesi del blog, ho ricevuto un messaggio di augurio da Myriam (fra i "Sostenitori" di questo blog). Insieme agli auguri, mi ha comunicato anche la segnalazione sul suo blog, grazie al quale ho potuto scoprire che si tratta di una ex-neocatecumenale, che, dopo aver lasciato il Cammino, sta ora svolgendo, insieme con altri ex, un'opera di "chiarificazione" a proposito di quel movimento.

Conosco poco il Cammino Neocatecumenale; ho avuto qualche contatto diretto quando ero a Firenze (in certe occasioni venivo chiamato ad ascoltare le confessioni dei membri delle comunità della nostra parrocchia), e alcuni contatti indiretti attraverso i confratelli impegnati in quel Cammino, specialmente in Italia meridionale.

Non mi sono mai permesso di esprimere un giudizio su tale realtà, come del resto su altri movimenti ecclesiali, semplicemente per mancanza di conoscenza e di esperienza diretta. Dirò solo due cose.

La prima: tutte le volte che sono entrato in contatto con i movimenti non mi sono mai sentito completamente a mio agio. Io provengo da un'esperienza ecclesiale molto piú prosaica: parrocchia, chierichetto, membro del gruppo giovanile/coro parrocchiale, catechista, entrato poi in un ordine religioso tradizionale in un momento un po' agitato (anni Settanta, quando iniziava la crisi delle vocazioni, in piena contestazione), successivamente impegnato in attività pastorali ordinarie (parrocchia e, soprattutto, scuola). L'unica esperienza un po' diversa (che ha qualche aspetto in comune con i movimenti, ma per altri aspetti è molto piú simile alle attività tradizionali) è stata lo scoutismo (fra gli Scouts d'Europa). Ebbene, per me che ho sempre vissuto in questa realtà molto ordinaria (potrei chiamarla la mia "piccola via", si parva licet componere magnis), l'esperienza dei movimenti ha sempre avuto qualcosa di "estraneo". In certi casi, devo riconoscere anche un certo influsso positivo sulla mia formazione (come nel caso degli anni bolognesi, quando, sia nella parrocchia sia all'università, seguivo molto le iniziative di Comunione e liberazione). Ma non mi sono mai sentito a casa mia. Quel che mi ha sempre dato un po' noia è stato il "culto del capo", si chiamasse don Giussani, Chiara o Kiko. Per me che sono cresciuto in un'atmosfera di grande libertà (nella mia famiglia prima e poi nella mia Congregazione) era impossibile accettare di dover iscrivermi a un "partito" e dover sottomettermi a un "pensiero unico", qualunque esso fosse. A me è sempre piaciuto cercare ovunque raggi di verità e poi sforzarmi di integrarli in una mia sintesi personale.

Allo stesso tempo però — e questa è la mia seconda osservazione — ho sempre nutrito una grande simpatia (e forse talvolta anche un pizzico di invidia) per i movimenti. Li ho sempre considerati come un dono di Dio alla Chiesa, che va accolto con prudenza, discernimento, ma anche con gratitudine. Non ho mai accettato il rifiuto di essi da parte di parrocchie e diocesi. Ho invece ammirato molto l'atteggiamento di Giovanni Paolo II, che mostrò sempre grande apertura verso queste nuove realtà. Voglio riportare quanto dicevo dieci anni fa ai miei confratelli in un intervento per altro molto apprezzato (ma che mi aveva attirato qualche rimbrotto per le critiche che vi facevo al Concilio):

«Per quanto riguarda la Chiesa, ci limiteremo a constatare che le grandi attese suscitate dal Concilio sono rimaste in gran parte frustrate: si era parlato di una “nuova pentecoste”, e abbiamo avuto la secolarizzazione; si sperava in un riavvicinamento fra Chiesa e mondo, e mai come ora sentiamo queste due realtà distanti fra loro; si pensava a un nuovo slancio missionario, e mai come adesso vediamo la Chiesa ripiegata su sé stessa; si attendeva un ringiovanimento della Chiesa, e mai come ai nostri giorni la vediamo popolata soprattutto da persone anziane. Si pensava che fossero sufficienti alcune riforme strutturali per rinnovare il volto della Chiesa: il lifting è stato fatto, ma il volto della Chiesa continua a essere segnato dalle rughe. C’è stata la riforma liturgica, e ci ritroviamo le chiese vuote; ci si è dedicati a un immane sforzo di catechesi, e mai come oggi è diffusa l’ignoranza religiosa; ci si è fatti un’overdose di pastorale giovanile, e i giovani hanno abbandonato gli oratori per affollare le discoteche; sono stati istituiti gli organismi di partecipazione, e quelli che dovevano essere uno strumento di comunione si sono rivelati un ulteriore motivo di burocratizzazione della Chiesa; si sono “aperti” i seminari, e si sono svuotati. Le uniche vere novità dei nostri giorni sono costituite da fenomeni in nessun modo programmati o previsti dal Concilio: l’inatteso ritorno del martirio, la stupefacente fioritura dei movimenti ecclesiali, l’incredibile richiamo esercitato a tutti i livelli da Padre Pio, la sorprendente moltiplicazione delle apparizioni mariane e — perché no? — la straordinaria diffusione di Radio Maria e l’eccezionale proliferazione di siti cattolici in Internet».

Devo però aggiungere a questo punto che non solo il Concilio, ma anche i movimenti e altre nuove realtà, che negli anni passati avevano suscitato in me tante attese, stanno a poco a poco rivelandosi alquanto deludenti. I movimenti: Comunione e liberazione sembra si sia trasformata in una grande holding unicamente preoccupata di occupare il potere; il Cammino Neocatecumenale, apprendo ora da Myriam, sembra essere diventato un pericolo per la fede cattolica. Nuove esperienze di vita religiosa. Negli anni dei miei studi teologici c'erano soprattutto due istituti religiosi che andavano a gonfie vele (al contrario di noi poveri disastrati): gli Oblati di Maria Vergine (quelli di Fratel Gino) e i Legionari di Cristo. Che ne è di loro? Meglio stendere un pietoso velo.

Per cui mi trovo a dover rivalutare la mia "piccola via", fatta di parrocchia, vita religiosa un po' sbracata, attività pastorali molto tradizionali. Fatta pure di quel poco o tanto di Concilio, accettato non dico controvoglia (perché ci abbiamo creduto, e continuiamo a crederci), ma certo senza grandi entusiasmi e soprattutto per obbedienza alla Chiesa.

Allora, tutto il resto da buttar via? No, non credo proprio. Dobbiamo saper cogliere l'azione di Dio al di là dei limiti umani. Tutte queste esperienze un po' straordinarie che abbiamo vissuto in questi anni non sono semplicemente un imbroglio (è ovvio che se ci sono delle storture, vanno denunciate); esse sono delle esperienze cristiane con aspetti positivi e negativi. Giustamente, qualcuno dei Legionari di Cristo dice: Padre Maciel avrà pure avuto una doppia vita, ma rimane il nostro fondatore; è grazie a lui che noi siamo qui; Dio si serve anche di strumenti imperfetti per realizzare i suoi disegni. Un buon numero delle nostre vocazioni (di noi Barnabiti, intendo) proviene oggi dal Cammino Neocatecumenale: osservo che una volta entrati, a poco a poco maturano la loro vocazione e si rendono poi sempre piú autonomi dal movimento che li ha generati, pur rimanendogli grati per aver permesso il fiorire della loro vocazione. Credo che sia un atteggiamento molto giusto, da seguire. Anche all'origine dei nostri Ordini religiosi ci sono esperienze talvolta un tantino ambigue; l'intervento della Chiesa ha permesso di valorizzare ciò che proveniva dallo Spirito, lasciando cadere (qualche volta forse con una certa asprezza) ciò che era puramente umano. Come dice san Paolo: "Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono"(1 Ts 5:19-21).

lunedì 30 marzo 2009

Due mesi senza peli sulla lingua

Esattamente due mesi fa, il 30 gennaio 2009, nasceva questo blog. Può risultare utile fare un breve bilancio.

In questi 60 giorni sono stati pubblicati 61 post (quello che state leggendo è il sessantaduesimo): praticamente, uno al giorno. Gli argomenti trattati sono stati sempre e solo a carattere religioso, anche se di diversa natura. In primo luogo (anche perché il primo post era su questo argomento), il problema del Concilio, con le questioni annesse (in particolare la riforma liturgica). Alcuni interventi sono stati di riflessione teologica. Numerosi i post dedicati all'attualità ecclesiastica: innanzi tutto il rapporto con i lefebvriani, gli attacchi a Benedetto XVI, la situazione interna della Curia Romana, i rapporti con l'ebraismo e lo Stato d'Israele. A questo proposito, non è mancata una speciale attenzione alla situazione del popolo palestinese, specie a seguito del massacro di Gaza (un particolare grazie a Padre Musallam per le sue preziose lettere). Non sono mancate, specialmente in queste ultime domeniche, alcune riflessioni spirituali sulla liturgia del giorno.

Passando ai numeri, dopo un inizio un po' stentato (non ho i dati della prima settimana, avendo cominciato a monitorare il blog solo il 7 febbraio; ma nelle due settimane successive a questa data la media era di una ventina di visitatori giornalieri), il 23 febbraio, dopo la segnalazione sul blog di Raffaella, c'è stato il boom: oltre 500 pagine lette; oltre 300 nuovi visitatori. Naturalmente, dopo la curiosità iniziale, siamo tornati a andamento piú contenuto, ma di tutto rispetto: nel mese di marzo la media giornaliera è stata di 200 pagine visitate e di circa 150 visitatori. Complessivamente, dal 7 febbraio, sono state visitate quasi 8700 pagine, i visitatori sono stati circa 5650. Durante il mese di marzo il picco è stato il 15 marzo (forse in coincidenza con la segnalazione sul blog Messainlatino.it) con oltre 300 pagine visitate e oltre 200 visitatori .

Quanto ai paesi di provenienza dei lettori, ovviamente la stragrande maggioranza è in Italia, al secondo posto la Francia e i paesi di lingua neolatina (Spagna, Portogallo e America Latina, specialmente Brasile). Lettori sparsi nel resto d'Europa e negli altri continenti (tutti i continenti sono rappresentati).

Alcuni post sono stati ripresi da altri blog e siti. Il piú ripreso è stato senz'altro l'articolo Concilio e "spirito del Concilio": il 1° marzo è stato tradotto da Béatrice Bohly e postato sul suo sito Benoît-et-moi; nei giorni successivi è stato ripreso, in francese, da Eucharistie sacrament de miséricorde, Epha-ta, Le Forum Catholique, Vu de La Frette e, finalmente, il 5 marzo, dal sito del distretto francese della Fraternità di San Pio X, La Porte Latine, e, successivamente, in una sintesi, dal sito ufficiale della stessa Fraternità DICI. Da qui poi è rimbalzato di nuovo in Italia, dove è stato pubblicato sul sito Una Vox (insieme con If only...), e in Germania (Reflections of a thoughtful mind).

Altro pezzo che ha riscosso un notevole successo è stato il post sull'intervista ad Hans Küng: oltre ad essere stato tradotto in francese da Benoît-et-moi, è stato tradotto anche in portoghese dal sito dell'Associazione culturale brasiliana Montfort. Diversi siti hanno pure ripreso la traduzione delle lettere di Padre Musallam: Terra Santa Libera, Uruknet, Arianna Editrice, Notizie dal Medio Oriente, Il Vascello (Quotidiano di Cremona). Numerosi post vengono ripresi da Oriensforum e nel forum di Storia Libera.

Segnalazioni del blog sono apparse su non pochi siti: Siti cattolici italiani, Effatà!, Papa Ratzinger blog [2], Messainlatino.it, Sivan, Catechiste con amore, Plinthos. Qualche sito ci aveva segnalato, ma poi ha preferito cancellare la segnalazione: evidentemente, abbiamo detto qualcosa di troppo. Pazienza. Amici come prima.

Molto interessanti alcune recensioni:

Benoît-et-moi: «Ce n'est pas un site d'information, plutôt d'analyses et de commentaires, qui colle de très près à l'actualité. J'avoue être séduite par le ton, les idées exprimées sont proches des miennes. C'est donc possible! C'est un prêtre, mais il n'écrase pas le visiteur sous une insupportable érudition théologique, comme on en voit sur certains blogs et forums catholiques, où on a envie de dire "restez entre vous! vous êtes trop intelligents pour moi..." (façon de parler, bien sûr). Et surtout "votre foi ne me dit rien". Les choses ici sont dites de façon simple et carrée, non dénuée d'un humour pince-sans-rire, et j'aime ça. Cela s'explique sans doute par le fait qu'il n'est pas un idéologue, ni de la mouvance "tradi" ni de celle progressiste. Un pragmatique, en somme. Il dit lui-même qu'il n'est pas toujours sûr d'avoir raison! J'aime bien aussi. Ce qui me plaît surtout, c'est la liberté du ton. Manifestement, l'auteur n'a pas peur, il ose dire des choses qui, dans la plupart des blogs, sont de vrais tabous; et c'est sans doute ce qui explique que, selon ce qu'il a cru remarquer, ses lecteurs "prennent leur distance". C'est le prix à payer pour la liberté, et pour moi, c'est bon signe. Si les visiteurs ne jugeaient pas utiles de prendre leurs distances, cela voudrait dire qu'il est dans le consensus mou, et son site n'aurait pas d'intérêt. Même quand il critique l'Eglise, il le fait sur un ton tel que l'on pense "qui aime bien châtie bien ".Enfin, j'apprécie qu'il n'y ait pas de commentaires de lecteurs. C'est une bonne chose, car les commentaires sont souvent utilisés par des gens qui cherchent non pas le débat (ce qui déjà ne me plaît pas trop), mais la contestation, voire la bagarre. Là, clairement, les commentaires n'apporteraient rien. Les gens qui ont envie de s'exprimer n'ont qu'à créer leur propre blog, c'est devenu facile et gratuit». Va aggiunto che Béatrice Bohly ha già tradotto e pubblicato sul suo sito una decina di post di questo blog. Non so come esprimerle la mia riconoscenza.

Messainlatino.it: «Desideriamo segnalare un nuovo blog dal titolo promettente (Senza peli sulla lingua), gestito dal Padre barnabita Giovanni Scalese, poiché ci appare particolarmente interessante e ricco di spunti di approfondimento e riflessione». E nell'indice ragionato dei links: «Il Padre barnabita Giovanni Scalese 'firma' post densi di contenuto teologico, ma al tempo stesso diretti e leggibili tutto d'un fiato. È divenuto internazionalmente noto con uno scritto intitolato Concilio e "spirito del Concilio"».

Storia Libera:
«Segnalo per la riflessione il blog Senza peli sulla lingua del barnabita Padre Giovanni Scalese. Talora è forse fin troppo caustico o può lasciare perplessi (p. es. sull'origine del Concilio Vaticano II, ma in realtà mette in luce come possa ben essere interpretato alla luce della Tradizione anziché dello spirito progressista; o sul concetto di dottrina). Ma è comunque una voce forte, fuori dal coro, che può dare spunti per diverse riflessioni. Vedasi l'ultima proposta di un'enciclica sul sionismo (!)».

Che dire? Ringraziamo il Signore. Ho l'impressione che il blog sia stato accolto con grande interesse, anche se, per il momento ha una diffusione abbastanza limitata. Ciò che mi sembra particolarmente apprezzato è la fedeltà alla Chiesa coniugata con una grande libertà di giudizio. Le due cose potrebbero apparire tra loro contrastanti (e di fatto il piú delle volto lo sono). In realtà, quella libertà scaturisce proprio dalla fedeltà. Siamo realmente liberi solo quando siamo, o perlomeno cerchiamo di essere fedeli. L'amore per la Chiesa ci permette di dire senza esitazione quel che pensiamo. Se facciamo delle critiche, non lo facciamo per distruggere, ma per costruire. Abbiamo un solo punto di riferimento: la verità. Non perché, come qualcuno potrebbe pensare, abbiamo la pretesa di possederla, ma perché ne siamo alla continua ricerca. La verità, e solo la verità. Amicus Plato, sed magis amica veritas, dicevano gli antichi: non siamo iscritti a nessun "partito"; siamo amici di tutti, ma, se ci accorgiamo che qualcosa non va, non ce ne staremo zitti per riguardo a chicchessia. Naturalmente nel rispetto, nella prudenza, nella cautela e nella moderazione.

Ho voluto condividere con voi questi dati e queste riflessioni perché vi considero compagni di viaggio di un'avventura che si sta rivelando interessante. Vi chiedo una preghiera perché il Signore mi dia la forza di continuare questa nuova forma di apostolato.

domenica 29 marzo 2009

V domenica di Quaresima ("Judica me, Deus")

"Vogliamo vedere Gesú".

Questa la richiesta di alcuni Greci a Filippo. Anche gli stranieri vogliono vedere Gesú, vogliono incontrarlo, vogliono credere in lui. All'inizio della sua esistenza terrena, alcuni Magi erano giunti dall'Oriente in cerca di lui: "Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo". Fin da allora i pagani si erano mostrati disponibili ad accogliere il re dei Giudei piú di quanto non lo fossero i Giudei stessi (i quali anzi, attraverso il loro re, lo avevano costretto a fuggire, facendo strage di innocenti). Ora, in cerca di Gesú, vengono da Occidente, dalla Grecia, anche loro gentili (mentre i Giudei cercano di ucciderlo). Gesú vede in questa richiesta un segno:

"È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo".

Il fatto che degli stranieri vogliano incontrarlo è per Gesú il segno che è giunta la sua ora, l'ora della sua glorificazione. Non è ancora possibile l'incontro: prima, Gesú deve essere glorificato. Una glorificazione un po' sui generis secondo i comuni parametri umani:

"Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto".

È necessario che Gesú muoia: se non muore, rimarrà solo; morendo, come il seme, produrrà molto frutto. Non solo fra i Giudei, ma fra tutti gli uomini. Morendo, Gesú sarà glorificato:

"Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me".

La morte di Gesú, sulla croce, è un innalzamento, è un'esaltazione, è una glorificazione. Ed è proprio in quel momento che Gesú attirerà tutti a sé. TUTTI: Giudei e Greci. Solo allora sarà possibile per i gentili incontrare Gesú. Incontreranno un Gesú crocifisso.

"Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Gv 19:37).

Finalmente lo vedranno, crederanno in lui e troveranno salvezza.

sabato 28 marzo 2009

Assenso e assenso

Confesso che non mi sono mai piaciuti quei superiori che prima non hanno il coraggio di comandare, e poi si lamentano che non vengono obbediti. Capisco che non sempre si può dare il precetto; ma se si preferisce chiedere solo favori, non ci si può poi lamentare che qualcuno talvolta risponda picche: bisogna semplicemente accettare tale eventualità.

Qualcosa di simile sta succedendo nella Chiesa d'oggi: alla convocazione del Concilio Vaticano II si è volutamente escluso per esso un carattere dogmatico e si è preferito considerarlo un concilio pastorale; ora si pretende che tutti lo accettino incondizionatamente, e ci si lamenta se qualcuno si permette di criticarlo.

Si potrebbe fare un'osservazione analoga a proposito del terzo comma della formula conclusiva della professione di fede, di cui ho parlato in diversi miei post nei giorni scorsi. Con tale comma si dichiara di accettare gli "insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Anche qui, noto una tendenza nella Chiesa attuale a non fare definizioni dogmatiche (se non erro, l'ultimo dogma definito è l'Assunzione di Maria nel 1950); salvo poi scandalizzarsi se in alcuni casi certi insegnamenti non definitivi del magistero vengono contestati da qualcuno. Capisco, anche in questo caso, che non si può definire ogni giorno un nuovo dogma; capisco che prima di arrivare a una definizione dogmatica, c'è bisogno di una lunga preparazione, fatta di tanti pronunciamenti non definitivi, che però fanno a poco a poco maturare la consapevolezza che si tratta di una verità divinamente rivelata. Capisco che, oltre al magistero straordinario, esiste un magistero ordinario, che non può essere preso troppo alla leggera, ma deve assere accolto con grande rispetto (pur senza escludere possibili, eccezionali, legittime dissociazioni).

Noto però con piacere che i tre commi della formula conclusiva della professione di fede usano, ciascuno, una espressione diversa per indicare l'assenso richiesto dai diversi tipi di verità che ci vengono proposte. Nel primo comma, che riguarda le verità rivelate, si dice: "Credo con ferma fede" (firma fide credo). Nel secondo comma, che si riferisce alle verità proposte in modo definitivo), si usa l'espressione: "Fermamente accolgo e ritengo" (firmiter amplector ac retineo). Il terzo comma, che, come detto, concerne gli insegnamenti proposti dal magistero ordinario in modo non definitivo, è introdotto dalla seguente formulazione: "Aderisco con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto" (religioso voluntatis et intellectus obsequio adhæreo).

A questo proposito, è ancora piú esplicito il Codice di diritto canonico. Il can. 750 §1 (che si riferisce al primo comma della professione di fede) recita: "Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose...". Il §2 (introdotto da Giovanni Paolo II nel 1998 per "coprire" le verità di cui al secondo comma della professione di fede) aggiunge: "Si devono pure fermamente accogliere e ritenere...". Il can. 752 (che riprende il terzo comma) spiega: "Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell'intelletto e della volontà deve essere prestato...".

Da tutto ciò possiamo concludere che, come esiste una gerarchia di verità, cosí pure esiste una molteplicità di atteggiamenti con cui accogliere tali verità. Sono pienamente d'accordo. Anzi, stavo pensando: perché non sfruttare questa distinzione nei futuri colloqui con i lefebvriani? Si chiederà loro di accettare il Concilio. OK. Ma con quale dei tre assensi sopra descritti? Per fede divina e cattolica? Non mi pare proprio il caso: il Vaticano II non è una dottrina rivelata. Allora, si chiederà loro di "accogliere e ritenere fermamente" il Concilio? No, perché esso non ha alcun carattere di definitività. Non resta che il terzo tipo di assenso: "Aderisco con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto". Credo che, per l'accettazione del Vaticano II, tale formulazione possa tranquillamente bastare. Rimane il problema dell'interpretazione del Concilio. Ma di questo abbiamo già detto.

venerdì 27 marzo 2009

"Come animali in uno zoo"

Le due lettere di Padre Musallam che pubblico in una mia traduzione italiana sono precedenti a quella pubblicata nel mio post del 16 marzo. Non aggiungono molto a quella lettera, scritta a "conflitto" concluso, impressionante per la sua drammaticità; ma voglio ugualmente riportarle come testimonianza diretta del massacro che si è consumato a Gaza fra l'indifferenza del mondo (almeno di quello ufficiale).


1. Lettera del 12 gennaio 2009

Dalla Chiesa di Dio in Gaza
Ai carissimi Santi in Palestina e nel mondo

La grazia del Signore nostro Gesú Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi.

Dalla valle di lacrime, da Gaza che sta affondando nel suo sangue, il sangue che ha strozzato la gioia nel cuore di un milione e mezzo di abitanti, vi mando questo messaggio di fede e di speranza. Ma il messaggio di amore è imprigionato, soffocato nella nostra gola di cristiani; noi non ci azzardiamo neppure a dirlo a noi stessi. I sacerdoti della Chiesa oggi innalzano la speranza come uno stendardo, perché Dio abbia misericordia e compassione di noi e conservi un resto per sé a Gaza, cosí che la luce di Cristo, che fu accesa dal diacono Filippo agli inizi della Chiesa, non sia estinta e continui a risplendere a Gaza. Possa la compassione di Cristo ravvivare il nostro amore per Dio, anche se è al momento in "cura intensiva".

Vi annuncio, con cuore di padre e di sacerdote, la morte di un'alunna della nostra scuola della Sacra Famiglia, la cara Christine Wadi al-Turk, la prima cristiana a morire nella guerra. Christine era nella decima classe della nostra scuola, ed è morta questa mattina, venerdí 2 gennaio 2009, a seguito della paura e del freddo. Le finestre nella sua casa erano aperte per proteggere i bambini dai frammenti di vetro e dai proiettili che passano sopra di essa. Il bombardamento che ha colpito la casa dei suoi vicini le ha fatto tremare tutto il corpo per il terrore. Non poteva sopportare tutto questo, per cui noi siamo andati a lamentarci col suo Creatore della sua situazione e chiedere una casa e un rifugio dove non ci sia pianto, grida o gemiti, ma gioia e felicità.

Fratelli e sorelle in Cristo Gesú,

Ciò che vedete alla televisione e ciò che sentite non è tutta la dura realtà sperimentata dal nostro popolo a Gaza. La televisione e la radio non possono trasmettere tutta la verità, a causa della sua vastità nella nostra terra. L'amaro assedio a Gaza è diventato un uragano che cresce di ora in ora, fino a diventare un crimine di guerra, un crimine contro l'umanità. Se il popolo di Gaza presenta la sua tragedia al tribunale della coscienza di ogni uomo di buona volontà, il futuro è il tempo del giusto tribunale di Dio.

I bambini di Gaza e i loro genitori dormono nei corridoi delle loro case, se ne hanno, o nei gabinetti e nei bagni per la loro protezione. Tremano di paura a ogni voce, movimento e bombardamento e agli attacchi degli F-16. È vero che questi aerei nella maggior parte dei loro voli finora hanno preso di mira le sedi centrali del governo e di Hamas, ma queste sedi sono vicine alle case della gente, non sono piú distanti di 6 metri, che è la distanza legale fra gli edifici. Perciò le case della gente sono state gravemente danneggiate e molti bambini sono morti a causa di questo. I nostri bambini vivono in una condizione di trauma e di paura. Sono malati per questo e per altre ragioni come la mancanza di cibo, la malnutrizione, la povertà e il freddo...

Per quanto riguarda le tragedie che stanno accadendo agli ospedali, potete dire quel che volete. Questi ospedali non avevano il pronto soccorso di base prima della guerra e ora migliaia di feriti e di malati si riversano negli ospedali, e loro fanno le operazioni nei corridoi. Molti di loro vengono mandati a Rafah al di là della frontiera con l'Egitto, quelli che attraversano la frontiera possono non tornare, perché muoiono lungo la strada e la situazione della gente negli ospedali è spaventosa e triste, isterica.

Vorrei raccontarvi una storia successa in ospedale alla famiglia Abdel Latif. Uno dei suoi figli era scomparso durante il primo bombardamento e la sua famiglia lo cercò, ma non lo trovò nei primi due giorni di guerra. Il terzo giorno, mentre la famiglia stava camminando intorno all'ospedale, si imbatterono nella famiglia Jaradah che circondava uno dei figli feriti, che era sfigurato. A questo giovane ferito era stata amputata una delle gambe; la sua faccia era sfigurata, non a causa del bombardamento aereo, ma perché del vetro gli era caduto addosso mentre stava in ospedale, dopo che gli aerei avevano bombardato parte di esso. La famiglia Abdel Latif si avvicinò alla famiglia Jaradah per consolarla, e quando si avvicinarono all'uomo ferito, il Sig. Abdel Latif scoprí che era suo figlio e non il figlio della famiglia Jaradah. Ne nacque un diverbio tra le due famiglie; aspettarono che il ferito si svegliasse e dicesse il suo nome e cosí la famiglia Abdel Latif se lo riprese...

Concludo la mia lettera a voi offrendo la nostra sofferenza a Dio e a voi. La nostra gente a Gaza è trattata come animali in uno zoo: mangiano ma rimangono affamati; piangono, ma nessuno asciuga le loro lacrime. Non c'è acqua, elettricità, cibo, ma solo paura, terrore ed embargo... Ieri al forno non hanno voluto darmi il pane. Il motivo: il fornaio si è rifiutato di nutrirmi con farina che non è degna di esseri umani, per non mancare di rispetto al mio sacerdozio. La farina buona era finita, e la farina che aveva non era comestibile. Ho dichiarato che non mangerò pane per tutta la durata di questa guerra.

Desideriamo che voi innalziate continuamente le vostre preghiere a Dio, e che non celebriate una messa o altra funzione senza ricordare a Dio le sofferenze di Gaza. Mando SMS biblici ai nostri parrocchiani per ravvivare la speranza nei loro cuori. Abbiamo deciso tutti di pregare all'inizio di ogni ora: "Signore della pace, riversa pace su di noi; Signore della pace, concedi la pace alla nostra terra. Abbi pietà, Signore, del tuo popolo e non tenerci nell'inimicizia per sempre". Ora alzatevi in piedi con noi e cantate questa preghiera con noi.

Le vostre preghiere con noi muovono tutto il mondo e insegnano che qualsiasi amore a cui è impedito di raggiungere i fratelli e le sorelle di Gaza non è l'amore di Cristo e della Chiesa. L'amore di Cristo e della Chiesa non conosce barriere politiche e sociali, guerre, ecc. Quando il vostro amore ci raggiunge, ci fa sentire che noi, a Gaza, siamo parte integrale della Santa Chiesa Cattolica e Apostolica, e i nostri fratelli e sorelle musulmani in mezzo a noi sono il nostro popolo e il nostro destino; noi abbiamo ciò che loro hanno e noi soffriamo come soffrono loro; noi tutti siamo il popolo della Palestina.

In mezzo a tutto ciò, la gente di Gaza rigetta la guerra come strumento per raggiungere la pace e conferma che la strada per la pace è la pace. Noi di Gaza siamo tenaci e abbiamo ardimento negli occhi: "Fra la schiavitú e la morte, non abbiamo scelta". Vogliamo vivere per lodare il Signore in Palestina e testimoniare Cristo, vogliamo vivere per la Palestina, non morire per essa; ma se la morte ci viene imposta, moriremo con onore, coraggio e forza.

Ci uniamo a voi nelle vostre preghiere, perché Cristo ci dia la sua vera pace; perché il lupo dimori insieme con l'agnello, la pantera si sdrai accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascolino insieme e un fanciullo li guidi (Is 11:6).

La pace di Cristo, quella pace alla quale siete chiamati per essere un solo corpo sia con tutti voi e vi protegga. Amen.

Vostro fratello,
Padre Manuel Musallam
Sacerdote della Chiesa Cattolica di Gaza


2. Lettera del 20 gennaio 2009

Dalla Chiesa di Dio in Gaza
Ai santi e fedeli fratelli in Cristo

Pace e benedizione su di voi, che pregate di sradicare la rabbia umana e ricoprire Gaza della sua misericordia e bontà.

Gaza soffriva prima della guerra
Gaza soffre per la guerra
Gaza ha incominciato a soffrire dopo la guerra

Centinaia di famiglie piangono amaramente; le loro case sono state demolite e rase al suolo.
Centinaia di famiglie hanno perso i loro risparmi, sia in denaro sia in mobilio.
Centinaia di ricche famiglie hanno perso i loro aranceti e le loro proprietà e sono diventate povere e senza casa.
Centinaia di contadini alle prime armi hanno perso i soldi destinati al loro sostentamento.

Gaza è una città non di mille martiri, ma di un milione e mezzo di martiri. La gente che è stata uccisa riposa, ma i sopravvissuti vivranno una vita quotidiana da martiri per un lungo periodo. Coloro che hanno ricevuto gravi e dolorose ferite condurranno insieme con le loro famiglie una vita da martiri. Essi vivono il tempo delle persecuzioni, che la Chiesa ha vissuto alle sue origini. Le prossime generazioni dovrebbero raccontare questa storia, perché sia una testimonianza di fede, speranza e amore per loro.

Centinai di famiglie sono fuggite alle scuole UNRWA [l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, N.d.T.]. Da cinquanta a sessanta persone sono state messe in un'aula. Ahimè! Hanno perso l'umanità e l'educazione; non c'era elettricità, acqua, letti e coperte, né cibo. I bambini bagnavano il letto e non c'era acqua per lavare i loro vestiti e il loro letto. Non c'è pulizia, se non c'è acqua per lavare. Quante persone si sono bruciate per le bombe al fosforo e ancora soffrono!

Gli aiuti non sono ancora arrivati alla Chiesa, forse li hanno avuti la Croce Rossa e l'UNRWA. Ma chi può raggiungere quei magazzini? Come possono quegli aiuti arrivare nelle nostre case? Noi aspettiamo l'aiuto di Dio. Eppure ci rendiamo conto che il mondo intero in generale e la Chiesa in particolare chiedono di salvare Gaza. E le vostre preghiere saranno la nostra scialuppa di salvataggio.

Una famiglia di un'ex-insegnante è scappata alla nostra scuola. Lei è venuta insieme con il marito e i loro quattro figli. Suo marito era stato colpito dalle schegge di una bomba e, di conseguenza, gli erano state tagliate le gambe. Quando le ho dato un bicchier d'acqua per fermarle le lacrime, ha giurato su Dio che non beveva acqua da quattro giorni. Quando beve acqua salata, la sputa fuori. Cercava di avere acqua calda anche se era salata per fare il latte per il suo bambino poppante.

Quanti sedativi sono necessari per tutta questa gente, le cui case sono state rase al suolo? Essi vivranno una vita disumana per molti anni. Quanti centri per disabili bisogna costruire? Quante scuole per bambini feriti, che sono rimasti menomati e hanno sofferto traumi, dovranno essere edificate? E chi si prenderà cura di questi bambini? Quanti centri per audiolesi, che sono rimasti menomati dagli F-16 e dalle bombe, bisognerà provvedere? Quanti orfanotrofi occorrerà costruire? E le giovani vedove?

Entrambe le nostre scuole a Remal e a Zaitoon aiutano la gente a prendere l'acqua dal pozzo artesiano che fu scavato grazie a un finanziamento dei Cavalieri del Santo Sepolcro in Austria. I vicini della scuola usano l'acqua per bere e lavarsi. Inoltre, il generatore della nostra scuola dà la possibilità alla gente di fare il pane, giacché non possono procurarselo da forni lontani. Noi forniamo l'elettricità alla vicina panetteria. "Il parroco è diventato fornaio", dice la gente. Sí, lo sono diventato per attirare la gente a Gesú.

La Chiesa ha perso un giovane cattolico ventiseienne di nome Naseem Saba; i caccia israeliani lo hanno preso di mira e ucciso a Natale, il 7 gennaio 2009. Il giorno prima che fosse assassinato, i caccia israeliani gli avevano distrutto la casa, dove viveva la sua famiglia e tre zii.

Il nostro scopo è la cessazione della presente guerra. Il mondo deve trovare una soluzione per la causa del popolo palestinese e non può accettare che i palestinesi tornino a quando l'ingiusto assedio di Gaza è cominciato. Inoltre, i confini d'Israele devono essere definiti, e l'occupazione, cominciata 60 anni fa, deve finire.

Inoltre, la questione dei rifugiati palestinesi deve essere risolta secondo il diritto di ritorno, e Gerusalemme Est deve essere la capitale dello Stato palestinese. Il Muro dell'Apartheid deve essere raso al suolo, valichi di frontiera devono essere aperti, i prigionieri palestinesi devono essere liberati, e tutti gli insediamenti devo essere eliminati e restituiti ai palestinesi.

Dovreste sapere che se il mondo riconosce i nostri diritti, ci sarebbe sicuramente pace in Medio Oriente. La pace è possibile solo se essa abbraccia la giustizia.

Sia la pace del mondo come il buon pastore che chiama la pecorella smarrita, cioè la giustizia persa nelle ore buie che stiamo attraversando, per portarci sulle vostre spalle e riportarci all'ovile del mondo civile, moderno e buono.

Grazie, care famiglie, dovunque siate, per le vostre continue preghiere e i vostri aiuti, che ci arriveranno presto, speriamo. Da Gaza, da tutta Gaza, ringraziamo Sua Santità il Papa Benedetto XVI, per le sue prese di posizione, che invocano la pace e sono di buon auspicio per il nostro paese nel Medio Oriente. Lo ringraziamo pure per la sua generosità nel sostenere i poveri. Ringraziamo poi tutti i Vescovi, i sacerdoti, i parroci, i religiosi e le religiose del mondo per il loro ricordo nella preghiera.

A nome di tutta Gaza, mi unisco alle vostre voci e dico al mondo:

"D'ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesú nel mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesú Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen" (Gal 6:17-18)

Vostro,
Padre Manuel Musallam
Parroco della Chiesa cattolica di Gaza

giovedì 26 marzo 2009

Grammatica e teologia

Se ricordate, sabato scorso, nel mio post Unum collegium, affermavo di non aver alcun problema a emettere la professione di fede, secondo la formula approvata dalla Santa Sede. Dopo un ulteriore confronto col mio interlocutore sacerdote, devo riconoscere che non ha poi tutti i torti. Non perché non sia vero che il Collegio dei Vescovi in comunione col Papa sia soggetto di suprema autorità nella Chiesa; ma perché la formulazione dell'ultimo comma della suddetta professione di fede non è cosí rigorosa come dovrebbe essere. Essa recita: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Il problema sta nella congiunzione disgiuntiva "o", che connette il Romano Pontefice al Collegio episcopale. In grammatica, le congiunzioni disgiuntive esprimono un'opposizione, un'alternativa: sembrerebbe quasi che il Collegio episcopale possa proporre degli insegnamenti indipendentemente dal Romano Pontefice o addirittura in opposizione a lui. Per quanto mi risulta, questa non è la dottrina cattolica, ma l'eresia conciliarista.

Il testo originale latino non è di grande aiuto a risolvere la questione: "Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctrinis adhæreo quas sive Romanus Pontifex sive Collegium Episcoporum enuntiant cum magisterium authenticum exercent etsi non definitivo actu easdem proclamare intendant". Come si può vedere, si usa la congiunzione ripetuta "sive... sive...". Non sono un latinista; ma, per quel poco che ne so, anche in latino tale doppia congiunzione ha un valore disgiuntivo: "o... o...".

Non elimina i dubbi neppure la "Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professione di fede", pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 29 giugno 1998. Anche lí, al n. 10, si usa la congiunzione disgiuntiva "o" (in latino, questa volta, "seu").

Assai illuminante, invece, si rivela la "Nota previa" alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa (quella nota voluta da Paolo VI, quando si rese conto delle ambiguità contenute nella Lumen gentium, e che gli alienò le simpatie della lobby progressista): "Il Collegio necessariamente e sempre cointende il suo Capo, il quale nel Collegio conserva integro l'incarico di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale. In altre parole, la distinzione non è tra il Romano Pontefice e i Vescovi considerati nel loro insieme, ma tra il Romano Pontefice separatamente e il Romano Pontefice insieme con i Vescovi. Ma siccome il Romano Pontefice è il Capo del Collegio, può da solo fare alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi, come convocare e dirigere il Collegio, approvare le norme di azione, ecc." (n. 3).

Pertanto, se proprio vogliamo essere pignoli, nella formulazione della professione di fede dovremmo dire: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che o il Romano Pontefice separatamente o il Romano Pontefice insieme con i Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Capisco che possa risultare una formulazione un tantino goffa e ridondante. Forse una formulazione piú semplice, ma rispettosa della "Nota previa", potrebbe essere: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice, individualmente o insieme con i Vescovi, propone quando esercita il suo magistero autentico, sebbene non intenda proclamarli con atto definitivo". In latino: "Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctrinis adhæreo quas Romanus Pontifex, sive seorsim sive simul cum Episcopis, enuntiat cum magisterium authenticum exercet etsi non definitivo actu easdem proclamare intendat".

A qualcuno potrebbe sembrare una questione di lana caprina; personalmente la trovo una questione importante: si tratta di evitare ogni possibile ambiguità nella professione della fede cattolica.

mercoledì 25 marzo 2009

Quel giorno, in cielo

Un giorno il Padre decise di convocare il consiglio di famiglia, e disse al Figlio e allo Spirito Santo: "Ho compassione dell'umanità che ho creato, meglio, che abbiamo creato (dal momento che noi decidiamo sempre tutto insieme e facciamo tutto insieme). Li abbiamo creati a nostra immagine e somiglianza perché potessero vivere in comunione con noi; ma loro hanno preferito allontanarsi da noi e vivere per conto loro. Ma io non posso vivere senza le mie creature, senza i miei figli. Allora, chi si offre ad andare sulla terra, per cercarli e riportarli a casa? Li voglio salvi, qui con me. Ho mandato a loro i miei servi, i profeti, ma loro non li hanno ascoltati. Ma, nonostante ciò, non mi rassegno. Ho un'idea: uno di noi dovrebbe diventare uno di loro, cosí che, vedendolo simile a loro, possano provare nostalgia. Se siete d'accordo, ho già preparato un corpo".

Il Figlio rispose: "Padre, io sono tuo Figlio, come loro; essi sono miei fratelli. Quando li hai creati, tu guardavi a me; per cui dovrebbero riconoscermi. Sono pronto a tutto; se c'è bisogno, sono disposto anche a dare la vita per loro. Ecco, io vengo per fare la tua volontà".

Poi intervenne lo Spirito Santo: "Non preoccuparti, non starò a guardare; farò la mia parte. Stenderò la mia ombra sulla donna che hai scelto come sua madre, perché possa concepirlo e darlo alla luce. Dopo la sua nascita, non lo lascerò mai solo; starò sempre con lui, in modo che possa compiere la sua missione. Quando poi l'umanità sarà stata ritrovata, sono disposto a rimanere sempre con loro. Per quanto mi riguarda, va bene; possiamo cominciare".

E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi.


(tratto da iPaul, Newsletter del "Saint Paul Scholasticate", Natale 2006)

martedì 24 marzo 2009

Dalla parte del Vescovo brasiliano

Ieri Sandro Magister ha pubblicato sul sito www.chiesa un articolo dal titolo Mine vaganti. In Africa il preservativo, in Brasile l'aborto. Dopo aver riferito dell'ormai arcinota questione del profilattico, Magister si sofferma su un'altra questione, che rischia di essere ancor piú dannosa per la Chiesa: la questione della bambina brasiliana di nove anni costretta ad abortire due gemelli dopo essere stata ripetutamente violentata dal patrigno. Come ricorderete l'Arcivescovo di Olinda e Recife (la diocesi dove è avvenuto l'aborto), Dom José Cardoso Sobrinho, aveva richiamato la vigente legge ecclesiastica in materia d'aborto (il can. 1398, che prevede la scomunica latæ sententiæ per chi procura l'aborto ottenendone l'effetto), precisando che, nella fattispecie, la scomunica riguardava i medici e non la bambina. Alcuni giorni dopo, su L'Osservatore Romano, appariva un duro articolo dal titolo Dalla parte della bambina brasiliana, firmato dall'Arcivesco Rino Fisichella, Presidente della Pontifica Accademia per la vita, che praticamente sconfessava l'operato dell'Arcivescovo di Olinda e Recife. Il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo, sul sito dell'Arcidiocesi brasiliana, venivano diffuse alcune "Chiarificazioni", sottoscritte dal Vicario generale, dal Cancelliere, dal Rettore del seminario e dall'Avvocato dell'Arcidiocesi, oltre che dal Parroco di Alagoinha (in un'altra diocesi), luogo di origine della bambina. Con tali "Chiarificazioni" si respingevano veementemente le critiche vaticane.

Beh, se devo essere sincero, trovo tutta la questione particolarmente inquietante. Un altro scivolone. Per fortuna, in questo caso non vi è coinvolto il Santo Padre; ma in ogni caso, L'Osservatore Romano non è un bolletino parrocchiale e la Pontifica Accademia della vita è un organismo della Curia Romana: non è molto edificante assistere a una diatriba fra un'Arcidiocesi e la Santa Sede. Non voglio entrare nel merito della questione (anche perché riconosco che si tratta di una questione assai complessa e delicata, e non ho alcuna competenza in materia); voglio solo soffermarmi sulla forma, sulla procedura che è stata seguita. Ebbene, secondo me, certe cose non dovrebbero proprio succedere. Come è possibile che dal giornale della Santa Sede partano strali contro un Arcivescovo, senza che neppure si sia tentato di contattarlo per un chiarimento? Bene han fatto i collaboratori di quell'Arcivescovo (si noti la classe: non lui direttamente!) a rintuzzare l'attacco: "L'autore si è arrogato il diritto di parlare di ciò che non conosceva, senza fare lo sforzo di conversare previamente in modo fraterno ed evangelico con l'Arcivescovo, e per questo atto imprudente sta causando una grande confusione tra i fedeli cattolici del Brasile. Invece di consultare il suo fratello nell'episcopato, ha preferito dar credito alla nostra stampa molto spesso anticlericale". Mons. Fisichella aveva accusato Dom José di precipitazione; a quanto pare, l'unico ad essere stato precipitoso è stato proprio il Presidente dell'Accademia della vita.

In simili situazioni, bisogna essere molto cauti. Ci sono dei criteri generali che non possono essere "sbrigativamente" disattesi.

1. In linea di massima, bisogna dare credito a coloro che sono direttamente coinvolti in una vicenda. Il "principio di sussidiarietà" proibisce all'autorità superiore di interferire nelle decisioni dell'autorità inferiore, se non ci sono motivi sufficienti per farlo. La ragione è semplice: solo chi è sul posto conosce bene la situazione e quindi sa come è meglio comportarsi in quelle determinate circostanze. Certo, può sbagliare (come tutti, del resto), ma gli va data fiducia.

2. In qualsiasi cosa esiste una procedura che deve essere rispettata. Se proprio ci fosse qualcosa di grave, prima di redarguire pubblicamente, sarebbe opportuno richiamare privatamente. Anche perché, non mi risulta che in altri casi recenti, meritevoli di ben piú decisi interventi, si sia seguita questa strada. Perché? Forse perché in quei casi si trattava di Vescovi europei e in questo caso di un Vescovo del "terzo mondo"?

3. È molto pericoloso censurare un Vescovo in questo modo: significa praticamente "delegittimarlo". Giustamente le "Chiarificazioni" fanno notare che l'intervento romano sta causando una grande confusione fra i cattolici brasiliani. Quale sarebbe poi la colpa dell'Arcivescovo di Olinda e Recife? Quella di aver richiamato l'insegnamento e la legge della Chiesa. Si badi bene: la sua colpa è solo quella di aver richiamato: Dom José non ha scomunicato nessuno; ha solo detto che in certi casi, gli adulti (non i bambini) incorrono nella scomunica.

4. Stiamo attenti a dare piú credito ai media, piuttosto che ai nostri fratelli che combattono in prima linea. Noi ci illudiamo di conoscere la realtà, perché leggiamo i giornali o guardiamo la televisione; ma non ci accorgiamo che quella è una realtà puramente virtuale. Solo chi è testimone diretto, sa come stanno veramente le cose.

5. Stiamo pure attenti a non voler a tutti i costi apparire premurosi, comprensivi, umani. Questi atteggiamenti sono importanti, ma devono sempre essere coniugati con il rispetto della verità. Se essi sono dettati dal desiderio di apparire à la page, compiacere i media o attirarci la simpatia delle masse, quegli atteggiamenti diventano una caricatura e finiscono per ottenere l'effetto contrario.

lunedì 23 marzo 2009

I teologi del profilattico

Non vorrei cadere in due trappole: la prima è quella di continuare a parlare di condom. Questo è esattamente ciò che vogliono i nemici della Chiesa, i quali prima ci trascinano sul loro terreno, per poi attaccarci piú facilmente. È molto importante non stare al loro gioco; non perché sia proibito parlare di preservativi; ma perché se ne deve parlare quando lo vogliamo noi, non quando lo vogliono loro. Ne possiamo parlare in un contesto di serio confronto scientifico e di onesta riflessione morale; non in un contesto di polemica prevenuta e superficiale. Anche perché — ed è esattamente ciò che vogliono lorsignori — il tempo che noi dedichiamo alle totalmente inutili diatribe sul profilattico è tutto tempo rubato all'annuncio di Cristo, che solo può salvare l'uomo. Anche dall'AIDS. È proprio questo che li terrorizza: che Cristo sia annunziato e possa conquistare le anime.

La seconda trappola è quella di continuare a dare importanza a certi personaggi, che non sono degni di alcuna considerazione. Hans Küng ha rilasciato la sua ennesima intervista (deve pur dimostrare di esserci!) a Periodista Digital; potete trovarne una parziale traduzione italiana sul blog Messainlatino.it. È ovvio che, se noi continuiamo a leggere e commentare i suoi interventi, lui penserà di essere davvero un profeta. C'è il rischio di fare da grancassa ai suoi vaneggiamenti. Perciò, meglio ignorarlo. Ma siccome il sullodato teologo, per l'occasione improvvisatosi oracolo, dice corbellerie, bisogna pure che qualcuno lo smentisca. Il problema del giorno è la condanna del presevativo come mezzo per combattere l'AIDS in Africa.

"Le duole specialmente per le conseguenze che questo moralismo intollerante può avere nel continente nero?
Sí. Mi dà moltissimo dolore constatare che la Storia giudicherà entrambi i Papi [Woytila e Ratzinger] come due dei maggiori responsabili della propagazione dell’AIDS, specie in paesi con grandi maggioranze o minoranze cattoliche, come nel caso dell’Africa. È sommamente ipocrita condannare i preservativi in regioni come quelle africane con alto rischio di AIDS e, al tempo stesso, chiedere di proteggere i poveri dalle malattie piú nocive".

Ripeto, non voglio entrare nella polemica. Voglio solo far notare che non è affatto vero che nei paesi a grande maggioranza cattolica l'AIDS è piú diffuso. Un esempio? Le Filippine. Nel paese dove vivo, a stragrande maggioranza cattolico, l'AIDS praticamente non esiste. Le statistche dell'UNAIDS dicono che qui ci sono 8300 casi di malati di AIDS (sí, avete letto bene, non manca nessuno zero: otto-mila-tre-cento), su una popolazione di oltre 90 milioni di abitanti. Provate voi stessi a fare la percentuale, e confrontatela con quella di altri paesi non-cattolici (tanto per rimanere nei paraggi, con la Thailandia) o con quella di paesi piú "civilizzati" dove è comune il ricorso al profilattico. Come mai? I Filippini sono tanti sanluigigonzaga e santemariegoretti tutti casa-e-chiesa? Ho i miei dubbi. Allora significa che fanno un uso massiccio di condom! Volete sapere che cosa ne pensano? Se non vi scandalizzate, dicono: "È come mangiare una caramella incartata". Non ne vogliono proprio sapere. I soliti poteri forti stanno facendo di tutto per convincere i filippini a fare uso di preservativi: prima con una campagna di terrorismo psicologico per convincerli dei rischi a cui vanno incontro (nonostante che l'evidenza dei fatti dimostri il contrario); ora con la discussione in Congresso di un Reproductive Health Bill che, se trasformato in legge, permetterà il libero accesso ai diversi tipi di contraccezione (si tenga presente che nelle Filippine non sono stati ancora legalizzati né il divorzio né l'aborto). L'unica spiegazione sta nel fatto che, pur non essendo un popolo di costumi illibati, i filippini, in grande maggioranza, seguono ancora madre natura (Dio li benedica; sono tra i pochi che continuano a far figli!) e cercano di evitare comportamenti a rischio. Senza bisogno di condom.

domenica 22 marzo 2009

IV domenica di Quaresima ("Laetare")

Domenica scorsa eravamo invitati a volgere lo sguardo al Signore ("Oculi mei ad Dominum"); oggi siamo invitati a gioire ("Laetare, Jerusalem"). Perché dovremmo rallegrarci nel bel mezzo della Quaresima, quando un contegno, se non di mestizia, perlomeno di gravità sembrerebbe molto piú confacente? Troviamo la risposta a questa domanda nel Vangelo:

"Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, cosí bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (Gv 3:14-15).

Gesú si sta referendo all'episodio del deserto, quando gli Israeliti furono puniti per la loro infedeltà con l'invio di serpenti velenosi: l'unica salvezza per loro stava nel volgere lo sguardo al serpente di rame posto in cima a un'asta (= "innalzato") da Mosè (Nm 21:4-9). Gesú vede in quell'episodio la prefigurazione di un altro "innalzamento", la sua "esaltazione" sulla croce. Anche in questo caso bisognerà volgere lo sguardo a lui (= "credere in lui") per ottenere la salvezza.

Ecco ciò di cui dobbiamo rallegrarci: della croce di Cristo. Ma come? Non è forse la croce uno strumento di morte? Dobbiamo gioire di uno strumento di morte? È come dire: rallegriamoci della forca, della ghigliottina, della camera a gas, della sedia elettrica! Sí, ma la croce non è solo strumento di morte; essa è anche strumento di salvezza. Come è possibile? Ce lo spiega l'evengelista Giovanni:

"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3:16).

La croce è strumento di salvezza, perché è espressione di amore. Gesú non è morto sulla croce, perché i suoi nemici sono stati piú forti di lui e lo hanno fatto fuori; ma perché Dio ha dato il suo Figlio unigenito; e ha fatto questo perché ha tanto amato il mondo, e non ha voluto che rimanesse nella morte; ma, mediante la fede in quel suo Figlio unigenito, potesse avere la vita eterna. Paolo commenta:

"Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati" (Ef 2:4-5).

La salvezza è un atto totalmente gratuito di Dio: non possiamo rivendicare alcun merito: eravamo morti per i peccati; Dio, ricco di misericordia, ci ha fatti rivivere con Cristo. Grazia, e solo grazia.

"Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesú per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo" (Ef 2:8-10).

La salvezza è dono gratuito di Dio, non è una nostra conquista. La si riceve, non la si guadagna. L'unica condizione per accogliere tale dono è la fede ("... perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna"). Per ottenere la salvezza, le opere non servono a nulla. Nondimeno, siamo chiamati a praticarle: non per "comprarci" la salvezza, ma per manifestare con esse la nostra gioia a la nostra gratitudine a Dio per il suo immeritato dono. Le opere buone non sono lo strumento della salvezza, ma il suo scopo.

"Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono fatte in Dio" (Gv 3:21).

sabato 21 marzo 2009

Unum collegium

Un confratello sacerdote, dopo aver letto il mio post E se provassimo a semplificare un po' la "questione lefebvriana"? (18 marzo 2009), si chiede se Mons. Fellay sia disposto a leggere tranquillamente la professione di fede approvata dalla Santa Sede, da me riportata in quel post. Sinceramente, non saprei; io personalmente non trovo nessuna difficoltà ad emettere quella professione di fede (e di fatto l'ho già emessa piú volte nell'assumere l'ufficio di superiore religioso). Il problema, a quanto pare, starebbe nel terzo comma della formula finale: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Il problema starebbe nel riferimento al collegio episcopale: la suprema potestà nella Chiesa risiederebbe esclusivamente nel Sommo Pontefice e non anche nel collegio episcopale.

Ma questo non è l'insegnamento del Concilio (e infatti questo è uno dei punti per cui i tradizionalisti rifiutano il Vaticano II). Questo, dopo aver riaffermato la potestà del Papa ("Il Romano Pontefice, in virtú del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente"), aggiunge: "L'ordine dei Vescovi, che succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure, insieme con il suo capo il Romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice" (Lumen gentium, n. 22). L'affermazione è chiara. Non sarà una definizione dogmatica, ma inserita com'è in una "costituzione dogmatica" di un concilio ecumenico, mi sembra piuttosto vincolante (essa è ripresa pressoché con le medesime espressioni dal Codice di diritto canonico al can. 336). Concedo che possa apparire come un'inutile complicazione rispetto alla concezione della Chiesa che vedeva il Papa come unica suprema autorità, e i Vescovi come a lui sottomessi (una specie di funzionari ecclesiastici). L'unico problema è che quella concezione di Chiesa non è mai esistita; o meglio, è forse esistita nella mente di qualche teologo o canonista, ma non è mai stato il modo in cui la Chiesa si è autocompresa. Neppure al Vaticano I: è interessante notare che le note della Lumen gentium al testo su riportato fanno riferimento agli schemi preparatori del Vaticano I (schemi che non poterono essere approvati per la sospensione di quel concilio). Che il collegio dei Vescovi sia soggetto di suprema autorità nella Chiesa non è una novità del Vaticano II, ma è semplicemente la realtà della Chiesa, cosí come è stata voluta dal suo Fondatore e cosí come è stata sempre vissuta nel corso dei secoli, seppure con modalità diverse.

Il fondamento teologico di questa dottrina lo troviamo all'inizio del citato n. 22 della Lumen gentium: "Come Pietro e gli altri apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli apostoli, sono fra loro uniti". Che il Papa e i Vescovi costituiscano un "unico collegio" non siamo noi a volerlo, è Gesú Cristo stesso che lo ha voluto. È vero che tale testo potrebbe essere interpretato scorrettamente; e per questo è stata necessaria una "Nota previa", voluta da Paolo VI per fugare qualsiasi possibile equivoco. È interessante il terzo paragrafo di tale "Nota previa": "Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto «essere anch'esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale». Il che si deve necessariamente ammettere, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del Romano Pontefice". Capito? Il riconoscimento della suprema potestà del collegio episcopale, lungi dal pregiudicare l'autorità del Papa, al contrario la garantisce e la rafforza.

Penso che il problema sia esclusivamente un problema di comprensione. Mi rendo conto che è molto piú facile considerare la Chiesa secondo gli schemi della società civile. Il problema è che tali schemi non sono applicabili alla realtà della Chiesa, che è un mistero di "comunione gerarchica" (come giustamente rammenta la citata "Nota previa"). Questo potrà creare qualche difficoltà di comprensione e, soprattutto, di realizzazione pratica; ma è lo sforzo che siamo chiamati a fare, se vogliamo essere fedeli alla divina costituzione della Chiesa. E se vogliamo che, prima o poi (quando Dio vorrà), la Chiesa ritrovi la sua unità.

venerdì 20 marzo 2009

Unicuique suum

Giorni fa un confratello mi ha mandato una citazione tratta dall'editoriale della rivista Limes, n. 2/2009. Tema del fascicolo monografico è: "Esiste l'Italia? Dipende da noi". L'editoriale parte dalla costatazione che l'Italia non può piú fare affidamento né sugli Stati Uniti né sull'Europa. E prosegue: "Quanto all'affidamento all'universale Chiesa di Roma, cosí pervasivo negli anni della Democrazia cristiana, appare ormai impraticabile. La crisi di identità di cui soffre il cuore del cattolicesimo, non mascherabile da mero scadimento della classe di governo ecclesiastica, ne inficia la capacità di parlare alle genti. Ne scolora l'universalità mentre ne vellica l'introversione. Sarà forse casuale che la Santa Sede appaia refrattaria al mondo e mal governata, fino ad esporsi al ridicolo, da quando in curia s'è dispersa la matrice della sapiente diplomazia tradizionalmente coltivata dall'alto clero italiano? Il parallelo fra decadenza dell'impero papale e crisi del nostro Stato nazionale conferma quanto il Tevere resti stretto" (p. 9).

Non posso entrare nel merito della problematica, dal momento che non ho letto l'intero editoriale: il sito online della rivista non lo riporta); ma mi pare interessante l'ultima annotazione sulla dispersione della "matrice della sapiente diplomazia tradizionalmente coltivata dall'alto clero italiano". Anche qui, non mi sento di condividere il giudizio estremamente negativo espresso dall'autore a proposito della "crisi di identità" in cui verserebbe il "cuore del cattolicesimo"; ma penso che in quella osservazione riguardante la tradizione diplomatica del clero italiano, che si starebbe perdendo, ci sia qualcosa di vero.

È ovvio che qualcosa (o meglio, molto) sta cambiando nella Chiesa. Non si può fare un paragone fra la Chiesa di inizio Novecento e quella di oggi; cosí pure è impossibile un confronto fra la Curia Romana di cento anni fa e quella dei nostri giorni. Che ci possa essere una certa "crisi di identità", mi sembra piú che comprensibile e per nulla scandaloso. Un tempo la diplomazia vaticana era monopolio pressoché esclusivo del clero italiano; oggi ci sono nunzi provenienti da ogni parte del mondo. Mi sembra che sia giusto che ciò avvenga. Chiaramente le nuove leve non possono contare sull'esperienza che poteva avere la plurisecolare tradizione diplomatica italiana; vuol dire che a poco a poco si faranno le ossa anche loro. È ovvio che in una fase di passaggio come quella attuale si percepiscono maggiormente gli inconvenienti provocati da tale ricambio.

Ma ciò su cui vorrei soffermare l'attenzione è quanto ho voluto esprimere nel titolo di questo post: "Unicuique suum". Troviamo questo motto nell'intestazione de L'Osservatore Romano. Il suo significato è "A ciascuno il suo"; ma io vorrei servirmene per esprimere un concetto un po' meno nobile, ma non per questo meno importante: "Ciascuno faccia il proprio mestiere". Si tratta di un principio molto importante. Ricordo che un giorno il Card. Martini (mi sembra che fosse in occasione della pubblicazione di Gesú di Nazaret) faceva maliziosamente notare che il Papa non era un biblista, ma un teologo. Mi chiedo però come mai lui, biblista (o piú precisamente, esperto di critica testuale) si senta autorizzato a pronunciarsi in questioni che non sono di sua competenza (soprattutto in campo morale...). Ma è ovvio che in questo caso, trattandosi di due vescovi, essi siano abilitati a intervenire in qualsiasi settore della dottrina cattolica (con la differenza, non irrilevante, che uno è papa; l'altro, semplice vescovo in pensione).

Non credo però che possa dirsi la stessa cosa di altri posti-chiave della Curia Romana: in via di principio, dovrebbe esserci sempre l'uomo giusto al posto giusto; ma ho l'impressione che ciò non sempre avvenga. Un esempio: con tutto il rispetto e la stima per il Card. Bertone, non credo proprio che egli sia la persona giusta al posto giusto. Personalmente ritengo che quel ruolo dovrebbe essere ricoperto da un diplomatico. Il Card. Sodano avrà pure avuto i suoi difetti, ma mi sembra che sia stato un Segretario di Stato di tutto rispetto, di cui, sinceramente devo dire, sento molto la mancanza. Solo i diplomatici hanno la preparazione e l'esperienza per svolgere certi incarichi. Stiamo vedendo in questi giorni le conseguenze di alcune scelte, fatte forse con un tantino di precipitazione. È importante che ciascuno si specializzi in un particolare settore, sia valorizzato per quel che sa fare e che gli si dia fiducia nello svolgimento del suo lavoro. Sembrano principi ovvi; ma, a quanto pare, non sempre lo sono.