sabato 21 marzo 2009

Unum collegium

Un confratello sacerdote, dopo aver letto il mio post E se provassimo a semplificare un po' la "questione lefebvriana"? (18 marzo 2009), si chiede se Mons. Fellay sia disposto a leggere tranquillamente la professione di fede approvata dalla Santa Sede, da me riportata in quel post. Sinceramente, non saprei; io personalmente non trovo nessuna difficoltà ad emettere quella professione di fede (e di fatto l'ho già emessa piú volte nell'assumere l'ufficio di superiore religioso). Il problema, a quanto pare, starebbe nel terzo comma della formula finale: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Il problema starebbe nel riferimento al collegio episcopale: la suprema potestà nella Chiesa risiederebbe esclusivamente nel Sommo Pontefice e non anche nel collegio episcopale.

Ma questo non è l'insegnamento del Concilio (e infatti questo è uno dei punti per cui i tradizionalisti rifiutano il Vaticano II). Questo, dopo aver riaffermato la potestà del Papa ("Il Romano Pontefice, in virtú del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente"), aggiunge: "L'ordine dei Vescovi, che succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure, insieme con il suo capo il Romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice" (Lumen gentium, n. 22). L'affermazione è chiara. Non sarà una definizione dogmatica, ma inserita com'è in una "costituzione dogmatica" di un concilio ecumenico, mi sembra piuttosto vincolante (essa è ripresa pressoché con le medesime espressioni dal Codice di diritto canonico al can. 336). Concedo che possa apparire come un'inutile complicazione rispetto alla concezione della Chiesa che vedeva il Papa come unica suprema autorità, e i Vescovi come a lui sottomessi (una specie di funzionari ecclesiastici). L'unico problema è che quella concezione di Chiesa non è mai esistita; o meglio, è forse esistita nella mente di qualche teologo o canonista, ma non è mai stato il modo in cui la Chiesa si è autocompresa. Neppure al Vaticano I: è interessante notare che le note della Lumen gentium al testo su riportato fanno riferimento agli schemi preparatori del Vaticano I (schemi che non poterono essere approvati per la sospensione di quel concilio). Che il collegio dei Vescovi sia soggetto di suprema autorità nella Chiesa non è una novità del Vaticano II, ma è semplicemente la realtà della Chiesa, cosí come è stata voluta dal suo Fondatore e cosí come è stata sempre vissuta nel corso dei secoli, seppure con modalità diverse.

Il fondamento teologico di questa dottrina lo troviamo all'inizio del citato n. 22 della Lumen gentium: "Come Pietro e gli altri apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli apostoli, sono fra loro uniti". Che il Papa e i Vescovi costituiscano un "unico collegio" non siamo noi a volerlo, è Gesú Cristo stesso che lo ha voluto. È vero che tale testo potrebbe essere interpretato scorrettamente; e per questo è stata necessaria una "Nota previa", voluta da Paolo VI per fugare qualsiasi possibile equivoco. È interessante il terzo paragrafo di tale "Nota previa": "Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto «essere anch'esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale». Il che si deve necessariamente ammettere, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del Romano Pontefice". Capito? Il riconoscimento della suprema potestà del collegio episcopale, lungi dal pregiudicare l'autorità del Papa, al contrario la garantisce e la rafforza.

Penso che il problema sia esclusivamente un problema di comprensione. Mi rendo conto che è molto piú facile considerare la Chiesa secondo gli schemi della società civile. Il problema è che tali schemi non sono applicabili alla realtà della Chiesa, che è un mistero di "comunione gerarchica" (come giustamente rammenta la citata "Nota previa"). Questo potrà creare qualche difficoltà di comprensione e, soprattutto, di realizzazione pratica; ma è lo sforzo che siamo chiamati a fare, se vogliamo essere fedeli alla divina costituzione della Chiesa. E se vogliamo che, prima o poi (quando Dio vorrà), la Chiesa ritrovi la sua unità.