mercoledì 24 febbraio 2010

Angeli per legge

Giorni fa Piero Ostellino ha pubblicato sul Corriere della sera un commento dal titolo “La nostalgia italiana dello Stato teocratico”. Vi riferisce di due dibattiti radiofonici a cui ha partecipato, dedicati alla corruzione, nei quali si è reso conto che in Italia esisterebbe quel tipo di nostalgia. Prima di procedere nella lettura di questo post, vi pregherei di leggere l’articolo (è molto breve).

So già di scandalizzare qualche “anima bella”, ma devo confessare di essere pienamente d’accordo con Ostellino, non solo quando si chiede: «Ma dove sta il reato?», ma anche quando afferma: «Rivendico il diritto all’immoralità». Come, un prete non stigmatizza la corruzione diffusa nella società e giunge al punto di rivendicare il diritto all’immoralità? Ora capiamo perché il mondo va a rotoli: perché neppure i preti fanno piú il loro mestiere!

E invece no! Sono d’accordo con Ostellino proprio perché non voglio delegare ad altri quello che è un mio compito specifico. Ha mille e una ragione l’ex-direttore del Corriere quando afferma: «Se si ritiene che compito della magistratura sia di scoprire, e denunciare attraverso i media, che gli uomini non sono angeli, si è in ritardo con la storia. L’hanno già fatto decine di filosofi della politica e della morale. Se, poi, si ritiene che suo compito sia (anche) di fare in modo che lo diventino, si sbaglia ancora. È compito dei preti». Il vero problema sta proprio qui, nella confusione dei ruoli: si vuole affidare allo Stato, alle sue leggi e ai custodi di tali leggi un ruolo che non spetta loro. Non so se ci si renda conto, ma, procedendo di questo passo, si giunge allo Stato totalitario, allo Stato assoluto, allo Stato etico: uno Stato che non conosce la sua ragion d’essere; uno Stato che non ha la consapevolezza dei propri limiti; uno Stato che si sente in diritto e in dovere di intervenire su ogni aspetto della vita umana; uno Stato che si considera suprema fonte di moralità.

Date le premesse, era ovvio che si dovesse arrivare a questo punto. Si è partiti con l’idea — di per sé positiva — di laicità dello Stato; dalla rivendicazione di una legittima autonomia dello Stato dalla Chiesa, si è poi passati a quella di indipendenza e di totale separazione; poi si è proceduto al graduale smantellamento di quella cultura e di quel patrimonio di valori morali, che erano alla base della convivenza civile. Ora che il lavoro è stato compiuto, ci si accorge che qualcosa non funziona. E che cosa si fa? Anziché riconoscere gli errori commessi; anziché ammettere che esiste un momento pre-politico, che non è di spettanza dello Stato, ma che è ad esso indispensabile; anziché accettare umilmente i propri limiti, lo Stato pensa di risolvere tutto aggiungendo alle infinite leggi esistenti (che, come le gride manzoniane, hanno clamorosamente dimostrato la loro inefficacia) nuove leggi con le quali si dovrebbe eliminare la corruzione, e affidando ai giudici il ruolo di vestali, oltreché della legalità, anche della moralità dei cittadini.

Personalmente preferirei che, anziché sovraccaricare ulteriormente di lavoro la magistratura, già visibilmente in difficoltà nel disbrigo delle sue pratiche, si lasciasse un po’ di lavoro anche a noi preti, da sbrigare in confessionale. Ma ho l’impressione che, di questo passo, piú che la mancata osservanza del precetto festivo non ci rimanga; a poco a poco, ci stanno scippando anche tutte le mancanze contro il sesto comandamento...

Solo su un punto non mi trovo d’accordo con Ostellino: quando, come esempio di Stato teocratico, porta quello «pre-unitario, dove governava il Papa». Avrei capito se avesse fatto riferimento allo Stato islamico, dove vige la legge coranica; ma mi pare che Ostellino non conosca molto bene la storia: quando il Papa aveva lo Stato Pontificio da governare, sapeva distinguere molto bene il suo ruolo temporale da quello religioso; era un sovrano forse piú laico di tanti governanti democratici odierni; sapeva che la virtú non può essere imposta per legge e tollerava non pochi vizi (spesso — rimanga fra noi — anche i propri). Sapeva, per dirla con Ostellino, che compito dello Stato non è quello di rendere gli uomini angeli, ma quello di porre le condizioni perché possano diventarlo.

sabato 20 febbraio 2010

Interessi corporativi?

A quanto pare, Sandro Magister non si lascia minimamente intimidire dalle “bacchettate” — si direbbe sempre piú ricorrenti — nei confronti dei vaticanisti da parte della Sala Stampa della Santa Sede, e continua imperterrito il suo lavoro. E fa bene. Anche perché, nonostante i bei discorsi, si ha l’impressione che oltre Tevere non ci si renda ancora pienamente conto del tipo di società in cui viviamo e si continui a ragionare con criteri che potevano andar bene in altri tempi.

Giorni fa Padre Lombardi, intervenendo a proposito della dichiarazione sottoscritta da alcuni membri della Pontificia Accademia per la vita, nella quale veniva “sfiduciato” il Presidente di quell’organismo Mons. Rino Fisichella, ha smentito che tale documento fosse giunto al Santo Padre o alla Segreteria di Stato e ha lamentato che non si fosse trattato della questione durante l’assemblea plenaria appena svolta, concludendo con le seguenti parole: «Stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica». Incurante del pronunciamento di Padre Lombardi, Magister ha appena pubblicato sul sito www.chiesa il testo integrale della dichiarazione, «a titolo di documentazione».

Intendiamoci, da un punto di vista formale, il Direttore della Sala Stampa Vaticana ha ragione: i naturali destinatari di eventuali lagnanze riguardo ai responsabili dei dicasteri della Curia Romana non possono che essere il Papa e il Segretario di Stato; per cui, a prima vista, la dichiarazione diffusa pubblicamente potrebbe apparire una scorrettezza. Una volta si sarebbe detto: una “congiura”.

Ma se andiamo a leggere il contenuto della dichiarazione, ci accorgiamo che i “congiurati” avevano validi motivi per agire in tal modo. In seguito alla pubblicazione dell’articolo di Mons. Fisichella sull’Osservatore Romano del 15 marzo 2009, essi avevano scritto all’interessato e, successivamente, al Card. Levada. Quest’ultima lettera aveva sortito l’effetto sperato: la chiarificazione della Congregazione per la dottrina della fede del 10 luglio 2009. La cosa poteva finire lí (personalmente, ero convinto che la questione si fosse chiusa con quell’intervento).

Ma, a quanto pare, Mons. Fisichella non si è dato per vinto, ed è imprudentemente tornato sulla questione nel corso della recente assemblea. Per me avrebbe fatto meglio a glissare sull’argomento. È ovvio che col suo inopportuno intervento ha messo i “congiurati” nella condizione di fare il passo che hanno fatto. Avrebbero dovuto scrivere direttamente al Papa o al Card. Bertone? Forse; ma si sarebbe potuto tacciare anche questo tipo di ricorso come forma di “delazione”. I cinque accademici hanno invece preferito la via della trasparenza, ricorrendo a una dichiarazione pubblica. Si potrà discutere sulla correttezza formale. Personalmente, non trovo alcunché di scandaloso nel comportamento degli accademici della vita.

C’è un punto toccato dalla dichiarazione, che invece, se confermato, mi appare decisamente “scandaloso”: in essa si afferma che Mons. Fisichella avrebbe manipolato il primo paragrafo della chiarificazione della Congregazione della dottrina della fede, facendovi aggiungere le parole “manipolazione e strumentalizzazione”. Possibile? Se questo è vero, si tratta di un fatto gravissimo, sufficiente, da sé solo, a giustificare la rimozione dal suo incarico. Spero che si faccia luce al piú presto su questo increscioso episodio e si ristabilisca cosí un minimo di serenità e di fiducia non solo all’interno dell’Accademia per la vita, ma anche fra i semplici fedeli. Altrimenti saremmo costretti a concludere, con i “congiurati”, che la Curia ha serrato «i ranghi attorno a Fisichella a motivo della mentalità clericale di questa corporazione». Credo che, nel caso presente, ci sia in gioco qualcosa di piú di banali interessi corporativi.

martedì 9 febbraio 2010

Coda di paglia

Se devo essere sincero, questa interminabile telenovela del “caso Boffo” incomincia a venirmi a noia. Ora siamo tutti in spasmodica attesa di scoprire chi sia la “personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente”, che avrebbe recapitato a Feltri i documenti riguardanti il Direttore di Avvenire. I sospetti si sono appuntati sul Direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, il quale avrebbe agito per mandato del Segretario di Stato Card. Tarcisio Bertone. Non essendoci alcuna presa di posizione ufficiale da parte della Santa Sede, i giornalisti hanno avuto buon gioco a tirar fuori tutti i “veleni”, le lotte di potere, le manovre politiche interne alla Curia Romana e gli scontri tra Vaticano e Conferenza episcopale italiana. Uno scenario — diciamo la verità — piuttosto squallido.

A nessuno è venuto in mente che il Direttore del Giornale potrebbe stare sghignazzando alle spalle della Chiesa. Prima ha preso un granchio madornale: già, ma ci si doveva fidare “istituzionalmente” della fonte! Eh no, un giornalista serio dovrebbe sempre verificare le proprie fonti prima di pubblicare una notizia. Poi riconosce l’errore, e pensa di cavarsela con un trafiletto, concedendo magnanimamente l’onore delle armi alla sua vittima. Eh no, dopo il cancan scatenato, il minimo che ci si sarebbe aspettati erano le dimissioni. Adesso cerca di scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità, facendo credere che si tratta solo di una faida intraecclesiale: «Io che c’entro con le vostre lotte intestine? Sono fatti vostri».

E noi che gli andiamo dietro pensando che il Segretario di Stato abbia bisogno di passare sottobanco al Dott. Feltri certe carte per rimuovere Boffo dalla direzione di Avvenire! Ma la “personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente” non potrebbe essere, molto più semplicemente, un modestissimo impiegatuccio di una qualsiasi delle curie delle oltre duecento diocesi italiane, visto che quei documenti giacevano da tempo sui tavoli di tutte le cancellerie vescovili?

Penso che, come Chiesa, dovremmo mostrare un po’ piú di carattere e reagire a questo assedio. Non perché nella Chiesa non ci siano miserie; ma semplicemente perché non possiamo ridurre la Chiesa a una “parrocchietta”. Da che mondo è mondo, in tutte le parrocchie e in tutte le curie ci sono state (e sempre ci saranno) piccinerie, invidie, competizioni, sgambetti, e chi piú ne ha piú ne metta. E con ciò? Forse che nelle burocrazie laiche certe cose non accadono? Eppure non sembrano degne della prima pagina dei giornali, dove invece si parla delle grandi dispute politiche. Non si capisce perché, quando si parla di Chiesa, si debba sempre e solo parlare dei suoi aspetti piú deteriori. Non che questi non esistano, ma a casa mia il parlare di certi argomenti ha un nome ben preciso: “pettegolezzo”. Non che mi scandalizzi del pettegolezzo: anche qui, da che mondo è mondo, esso è sempre esistito e sempre esisterà. Ciò che mi dà noia è che esso assurga a livello di “giornalismo” e venga con ciò legittimato e nobilitato.

Non sarà che anche in questo caso ci sia dietro una manovra pianificata per mettere in difficoltà la Chiesa? Visto che non si riesce a confutarla sul piano dei principi, beh, screditiamola mettendo in piazza le sue miserie. Non si rischia nulla, perché, tanto, di meschinità se ne troveranno sempre, e loro stessi — i “preti” — avendo la coda di paglia, non sapranno come reagire. E invece sarebbe proprio il caso di reagire. Solo due osservazioni.

1. La sapienza popolare insegna che i panni sporchi si lavano in casa. Trasparenza non significa che tutto debba essere messo in piazza. Non solo le persone, ma anche le istituzioni hanno diritto a una loro privacy (lo Stato non ha forse i suoi “segreti”?).

2. La consapevolezza della nostra indegnità e delle nostre miserie non può paralizzarci e impedirci di svolgere la missione che ci è stata affidata. Se aspettiamo di diventare santi, per iniziare a evangelizzare, il Vangelo rischia di rimanere sigillato per qualche millennio. Il tesoro che ci è stato affidato non ci appartiene e non abbiamo alcun diritto di sotterrarlo. Il suo valore e la sua efficacia non dipendono da noi. Anzi, la nostra inadeguatezza non fa che mettere in risalto la grandezza del dono di cui siamo portatori: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12:9).

sabato 6 febbraio 2010

Ermeneutica della discontinuità

Ieri l’ASCA ha riferito le parole pronunciate da Mons. Fellay alla vestizione di alcuni seminaristi, il 2 febbraio scorso, a proposito dei colloqui in corso tra la Fraternità e la Santa Sede. La notizia è stata riportata anche da Raffaella, che giustamente ha lamentato una mancanza di gratitudine verso il Santo Padre.

Da parte mia, mi sarei aspettato maggiore discrezione. Si dirà che non si trattava di una dichiarazione, ma semplicemente di un’omelia, nella quale non si è rivelato nessun segreto, ma si è fatta solo una riflessione di tipo spirituale. È vero. Oltre tutto, il nocciolo della riflessione è pienamente condivisibile: nella Chiesa esistono due piani distinti, quello umano e quello soprannaturale. È vero che è Dio che guida la Chiesa e che «le cose sono nelle mani di Dio, che ha i mezzi per rimettere la Chiesa in carreggiata».

Non mi sembra però giusto disprezzare piú del necessario la dimensione umana della Chiesa e quindi, nella fattispecie, l’utilità dei colloqui in corso. Mi sembra un tantino eccessivo arrivare a dire: «Umanamente, non arriveremo mai ad un accordo; sí, umanamente non arriveremo ad un accordo, per come vediamo adesso le cose, umanamente non serve a niente». Se i colloqui non servono a niente, perché farli? Tanto valeva, dal punto di vista dei lefebvriani, attendere che Roma si convertisse. Non dimentichiamo mai che, nel mistero dell’incarnazione l’umanità viene assunta dal Verbo e diventa strumento della divinità. Ciò vale anche nel mistero della Chiesa.

Ma quel che mi ha lasciato piú amareggiato è quanto Mons. Fellay dice a proposito della Messa: «Ci si chiede a volte quali sono i punti comuni [tra la Messa riformata e quella tradizionale, ndr], talmente è differente ... Quando sentiamo oggi, anche da Roma, che niente è cambiato, che è la stessa cosa, si rimane un po’ interdetti. Quando si dice che non c’è differenza tra le due messe, vorrei che aprissero gli occhi, non è difficile».

Mi dispiace, ma, insistendo su tale posizione, i lefebvriani rendono davvero impossibile qualsiasi accordo. Ma, a questo punto, la responsabilità della mancata intesa ricade tutta su di loro; non possono continuare a incolpare Roma.

Il problema non riguarda solo la Messa, ma, piú in generale, l’interpretazione del Vaticano II. Ho l’impressione che i lefebvriani non abbiano capito che l’unica possibilità di incontro sta nell’“ermeneutica della continuità”, enunciata dal Santo Padre nel suo discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. E non si rendono conto che, di fatto, essi si trovano sulle stesse posizioni dei progressisti, che sostengono l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”. È proprio vero che gli estremi si toccano: pensano di essere su posizioni opposte, mentre in realtà condividono la stessa visione.

Continuare a ripetere che il Novus Ordo costituisce un’altra Messa significa anche essere convinti che il Concilio Vaticano II segni davvero una “svolta” nella storia della Chiesa. Ma, se si sostiene tale tesi, non ci si può piú considerare, ahimè, custodi della tradizione; ci si arruola, per quanto inconsapevolmente, nelle schiere degli “eversori”.

martedì 2 febbraio 2010

Quod omnes tangit...

Sandro Magister continua a pubblicare interventi sempre estremamente interessanti (a parte la querelle, non proprio edificante, col Direttore dell’Osservatore Romano...). Fra gli ultimi articoli, pubblicati sul sito www.chiesa, ce ne sono due che, a prima vista, non hanno alcun rapporto fra loro, ma che, a uno sguardo piú attento, possono perlomeno ispirare qualche riflessione comune. Mi riferisco all’articolo, pubblicato il 25 gennaio, “Il papa è il primo tra i patriarchi”. Tutto sta a vedere come, e quello pubblicato ieri, dal titolo Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario.

Partiamo da quest’ultimo. Lungi da me voler intervenire su una questione di cui non so praticamente nulla: non sono un ambrosiano; conosco solo molto approssimativamente il rito della Chiesa milanese; sapevo a mala pena che era stato pubblicato un nuovo lezionario (che non ho avuto ancora l’occasione di avere fra mano); per cui non potrei in alcun modo pronunciarmi su questa nuova pubblicazione. Però, leggendo le osservazioni del Card. Biffi, non posso non riconoscere che si tratta di rilievi di grande buon senso. Si potrà pure discutere su questa o quella obiezione, ma non si può negare che, nel loro insieme, le riserve avanzate provengono da un valente teologo e da un pastore di grande esperienza. Non lo si può accusare né di tradizionalismo né di progressismo: le critiche da lui mosse non sono mai preconcette, ma frutto di una approfondita riflessione.

Il Card. Biffi non è nuovo a certe uscite. Ricordo che, quando, giovane sacerdote, mi trovavo a Bologna come viceparroco, partecipai alla “Tre giorni” del Clero, durante la quale il nostro Arcivescovo ci diede alcune preziosissime Note pratiche sulla celebrazione della Messa, che ho sempre conservato. A quell’epoca era stata da poco pubblicata la seconda edizione del Messale italiano. Ebbene, a proposito delle nuove preghiere eucaristiche inserite in questo Messale, Biffi ebbe a dire:

«Personalmente non amo dire le preghiere eucaristiche dell’appendice. Trattandosi di testi destinati alle Chiese italiane, sarebbe stato desiderabile sottoporli al giudizio di tutti i vescovi interessati. Personalmente, avrei fatto presente che la cosí detta preghiera eucaristica quinta evita con troppa cura il concetto di transustanziazione (“manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue”); concetto che è evitato, con maggior garbo, anche dalla seconda preghiera eucaristica “della riconciliazione”. Avrei altresí segnalato che la stessa preghiera [la quinta, ndr] non esprime l’idea dell’“offerimus”, cioè la verità che il sacrificio di Cristo nell’Eucaristia è offerto anche da noi (“Guarda, Padre santo, questa offerta: è Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te”)» (10 settembre 1986: Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna, 9/1986, p. 523; testo ripreso poi in Fonti pastorali della Chiesa di Bologna, vol. I, Bologna 1994, n. 577).

Beh, bisogna dire che in quel caso il Card. Biffi fu ascoltato: nella terza edizione latina del Messale Romano la cosí detta “quinta preghiera eucaristica” è stata accolta, ma completamente rifusa e con il seguente titolo: “Prex eucharistica quae in Missis pro variis necessitatibus adhiberi potest”. I passaggi criticati da Biffi sono stati cosí riformulati:

«Rogamus ergo te, Pater clementissime, ut Spiritum Sanctum tuum emittas, qui haec dona panis et vini sanctificet, ut nobis Corpus et Sanguis fiant Domini nostri Iesu Christi»;

«In oblationem Ecclesiae tuae, in qua paschale Christi sacrificium nobis traditum exhibemus, respice propitius, et concede, ut virtute Spiritus caritatis tuae, inter Filii tui membra, cuius Corpori communicamus et Sanguini, nunc et in diem aeternitatis numeremur».

Come si può vedere, l’intervento di revisione è stato radicale. Si potrà continuare a discutere sull’opportunità di quell’inserimento (per me se ne poteva tranquillamente fare a meno), ma perlomeno la nuova formulazione risulta ora ineccepibile dal punto di vista dottrinale. Tutto è bene quel che finisce bene.

Orbene, la riflessione che mi veniva da fare a questo proposito era che non sempre l’approvazione vaticana è garanzia di correttezza dottrinale e opportunità pastorale; in certi casi forse si farebbe meglio a dare maggiore ascolto ai Vescovi. Non so come sia andata l’approvazione del nuovo lezionario ambrosiano: è abbastanza comprensibile che in tal caso non si sia consultato il Card. Biffi, il quale, pur rimanendo uno dei maggiori esperti di cose ambrosiane, non ricopre alcun ruolo nella Chiesa milanese (ormai egli è semplicemente l’Arcivescovo emerito di Bologna). Ma posso testimoniare che nel lontano 1986, quando pronunciava le parole che ho riportato sopra, si mostrò notevolmente irritato per la mancata consultazione dei Vescovi italiani: praticamente, la pubblicazione della seconda edizione del Messale italiano era stata una specie di blitz dei “tecnici”, i quali, “baipassando” (si può dire?) bellamente i Vescovi, avevano sottoposto all’approvazione della Congregazione del culto divino quella che allora era conosciuta come la “preghiera eucaristica svizzera”, inserendola cosí di fatto nel nuovo sacramentario.

Certe cose succedono spesso nella Curia Romana: non è raro che i Dicasteri ignorino il parere di interi episcopati e finiscano poi per fidarsi di qualche “esperto” di dubbia competenza. Per esempio, ricordo le giuste rimostranze dei Vescovi di paesi lontani che, dopo aver curato la traduzione dei libri liturgici nella loro lingua locale, se la vedevano respinta da Roma, dove non c’era nessun membro del Dicastero che conoscesse quella lingua e ci si doveva perciò affidare a qualche studente di teologia delle università pontificie. È ovvio che il problema è alquanto complesso e non lo si può liquidare con una battuta. Sono convinto che qualche volta Roma faccia piú che bene a resistere alle posizioni di certi episcopati (come, per esempio, rimanendo nell’ambito delle traduzioni liturgiche, nel caso della nuova edizione del Messale in inglese).

Ma il problema, secondo me, non è tanto quello delle pur reali — e inevitabili — tensioni fra il Papa e i Vescovi, quanto piuttosto quello degli “abusi di potere” delle rispettive burocrazie (la Curia Romana e le Conferenze episcopali). Sí, perché noi in genere siamo portati a identificare la Curia Romana con il Papa e le Conferenze episcopali con i Vescovi: teoricamente dovrebbe essere cosí, ma di fatto non lo è. La Curia Romana e le Conferenze episcopali sono realtà burocratiche, di cui certo non si può fare a meno, ma con tutti i limiti che la burocrazia per sua natura comporta. Gli ufficiali di Curia e i funzionari delle Conferenze episcopali sono preziosi collaboratori del Papa e dei Vescovi; ma devono ricordare che non sono loro i pastori. È ovvio che Papa e Vescovi debbano necessariamente delegare molte competenze ai loro “tecnici”; ma questi non dovrebbero mai dimenticare che esiste un’autorità personale dei pastori, che non può in alcun modo essere delegata.

A questo punto, voi direte: che c’entra tutto questo con l’altro articolo di Magister, che pubblicava un documento su Il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, documento su cui la Commissione mista internazionale per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sta lavorando? Il nesso c’è, dal momento che quel documento affronta una questione spinosissima, l’unica praticamente che continua a dividere cattolici e ortodossi: quella del rapporto fra collegialità e primato. Noi cattolici, nonostante le “aperture” del Vaticano II, ammaestrati dalla storia, siamo portati a guardare con un certo sospetto a un'ulteriore sottolineatura della collegialità episcopale, a scapito del primato pontificio; cosí come gli ortodossi, pur riconoscendo in linea di principio il primato del Vescovo di Roma, temono che poi questo possa in qualche modo limitare il principio, a loro cosí caro, della sinodalità. Ci sarà pure una via di uscita a questo impasse! Il documento pubblicato da Magister (le lagnanze del Consiglio per l’unità dei cristiani per la sua pubblicazione risultano, per la verità, piuttosto incomprensibili) mi sembra un buon punto di partenza. Lo strumento di lavoro si apre con una citazione del documento finale di Ravenna del 2007, in cui cattolici e ortodossi riconoscevano il vincolo inseparabile fra conciliarità e primato a tutti i livelli di vita della Chiesa:

«Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Questo è il motivo per cui il primato ai diversi livelli di vita della Chiesa — locale, regionale e universale — deve sempre essere considerato nel contesto della conciliarità, e similmente la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43).

Vedo già qualcuno arricciare il naso, pronto a tacciare tale testo di “conciliarismo”; ma il conciliarismo è ben altro. Mi sembra piuttosto che, almeno come dichiarazione di principio, esso sia pienamente accettabile (e di fatto lo è stato) sia da parte cattolica che da parte ortodossa. Il problema semmai sarà come mettere in pratica il principio della reciproca interdipendenza di collegialità e primato.

Ebbene, io credo che tutto si riduca ad assumere un diverso stile di rapporto. Gli esempi su riportati, riguardanti il Card. Biffi, dovrebbero insegnarci che il sistema oggi utilizzato all’interno della Chiesa cattolica spesso non va: Roma, da sola, non può arrivare a tutto e spesso, di fatto, prende delle cantonate; ha bisogno della collaborazione dei Vescovi. Non perché qualcuno voglia negare il primato pontificio, ma semplicemente perché la Curia Romana è fatta di uomini con i loro limiti, che di per sé non godono del carisma dell’infallibilità. La consultazione dei Vescovi — dei Successori degli Apostoli, intendo, non dei monsignori delle Conferenze episcopali — non può far che bene alla Chiesa. Piú vasta è la consultazione, specialmente sulle questioni delicate, meglio è. Ciò da cui bisogna guardarsi non è la collegialità episcopale, ma lo strapotere delle burocrazie, centrali o periferiche che siano.

Non si tratta di introdurre nella Chiesa un principio rivoluzionario; si tratta semplicemente di seguire l’immemorabile tradizione romanistica ed canonica: «Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» (Giustiniano, Corpus iuris civilis, 5, 59, 5, 2; Bonifacio VIII, Liber sextus decretalium, 5, 12, 29; cf Codex iuris canonici, can. 119, 3°).