domenica 31 luglio 2016

«Vanitas vanitatum»



Today’s liturgy is about the right attitude we should have towards material goods. Someone asks Jesus to arbitrate in the dispute between him and his brother over an inheritance. This kind of mediation was frequently requested from rabbis; and Jesus was a rabbi. So, there is nothing strange in this request. Moreover, it could be considered a good work to bring back peace in a family. And yet Jesus declines the invitation, “Who appointed me as your judge and arbitrator?” If ever there is a judge, that is exactly Jesus; but he refuses to play this role in connection with a quarrel about money. Why? Because money is not what matters in life: “Life does not consist in possessions.” Jesus came into the world to show us what really matters; not to do justice in issues of no account. Even because, behind the demand for justice, often there is hidden an inordinate desire for wealth: “Take care to guard against all greed.”

To show us that “life does not consist in possessions,” Jesus tells us the parable of the rich fool. Notice: the bountiful harvest is not the result of special efforts by the rich man; it just depends on nature. Therefore, the rich man is neither to praise nor to blame for this. Nor should he be blamed because he asks himself what to do with all these goods, and decides to build larger barns to store his grain. There is nothing wrong in doing that. Material goods are to be kept and managed correctly. It would be irresponsible to let all those goods be ruined. So where is the rich man wrong? His fault is in putting his trust exclusively in material possessions, as if life depended on them. One might also have vast riches, but if he realizes that they are not all in life, that they are just a means to live and to do good, that we could lose them suddenly and, in any case, we shall leave them when we die, there is no problem. The problem is when we are under the illusion that, with many material goods, we can rest easy, as if we should have problems no more, as if life depended on those goods. In my opinion, the great sin of the rich man is what he says to himself, “Now as for you, you have so many good things stored up for many years, rest, eat, drink, be merry!” The only concern of this man now is to rest, eat, drink and be merry. This last verb is the same we find in another parable of Luke’s gospel, the parable of the rich man and Lazarus: even in that case, the rich man has no other troubles than to eat, drink and enjoy life. Don’t you think that this is also our ideal? It seems that nowadays for most of people, especially for the youth, the only thing to which aspire is to enjoy themselves, to have fun, without worrying over problems around them. But God says to the rich man, “You fool, this night your life will be demanded of you.” It is terrible; but, once in a while, it can be useful to be put in front of the seriousness of life. Life is not a game; it is a gift given to us, so that we may get rich in what matters to God. All the rest is vanity of vanities (vanitas vanitatum), as the first reading says.

In the second reading maybe we find the deepest reason why we should not be attached to material goods. If you have noticed, Saint Paul tells us to put to death a series of vices present in our lives: “immorality, impurity, passion, evil desire,” and then he adds another vice, which would seem the worst: “and the greed that is idolatry.” You see? Greed is more serious than other vices; and the reason is because greed is a kind of idolatry. This means that material goods can take the place of God; they become an idol and we — maybe without realizing — worship them instead of the true God. May the Lord deliver us from this idolatry and teach us — as we prayed last Sunday — to “use the good things that pass in such a way as to hold fast even now to those that ever endure.”
Q

venerdì 29 luglio 2016

A proposito di discernimento



Nell’intervista rilasciata a La Civiltà Cattolica (n. 3918 del 19 settembre 2013) alla domanda di Padre Spadaro: «Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il ministero?», Papa Francesco risponde:
«Il discernimento. Il discernimento è una delle cose che piú ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo piú da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio piú grande, ma essere in grado di stare nello spazio piú ristretto. Questa virtú del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio».
«Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princípi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano piú efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi».
«Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare».
«Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi piú opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte» (pp. 453-454).
Chiosa Padre Spadaro: «Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica» (p. 454). In effetti, si tratta di un tema che ritorna nel successivo magistero di Papa Bergoglio: nell’esortazione apostolica “programmatica” Evangelii gaudium il tema ricorre una decina di volte (nn. 16; 30; 33; 43; 45; 50; 154; 166; 179; 181); nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia il discernimento risulta essere uno degli argomenti centrali: si contano una quarantina di ricorrenze del termine; ad esso è dedicato in particolare il capitolo 8 (“Accompagnare, discernere e integrare le fragilità”). E proprio al ruolo-chiave svolto dal discernimento in Amoris laetitia Padre Spadaro, insieme al teologo americano Louis J. Cameli, ha dedicato recentemente un articolo su La Civiltà Cattolica (n. 3985 del 9 luglio 2016, pp. 3-16) dal titolo “La sfida del discernimento in Amoris laetitia”. Purtroppo, in questo caso non posso darvi il link, dal momento che la consultazione online è permessa solo agli abbonati; mi limiterò perciò a fornirvi l’abstract dell’articolo:
«La parola “discernimento” occupa un posto determinante nell’impianto dell’Esortazione apostolica postsinodale di Papa Francesco sulla famiglia Amoris laetitia. Francesco usa parole molto forti al riguardo: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”. Alcune tra le incomprensioni riguardo a questo importante testo del Magistero nascono proprio dall’incapacità di comprendere che cosa sia il discernimento e di viverlo. L’articolo — scritto a quattro mani dal nostro direttore e da un sacerdote teologo dell’arcidiocesi di Chicago — intende aiutare il lettore a comprendere meglio che cosa sia il discernimento e la sfida seria e impegnativa che esso pone alla pastorale».
Posso inoltre rinviarvi a un paio di commenti: la breve recensione della Nuova Bussola Quotidiana e le recenti riflessioni, in due puntate (qui e qui) di Andrea Mondinelli su CulturaCattolica.it

Non si può inoltre ignorare che “discernimento” è una delle “sei parole talismaniche” di cui tratta Guido Vignelli nel suo Una rivoluzione pastorale, recentemente pubblicato da “Tradizione Famiglia Proprietà” (Roma, 2016, pp. 96), con la prefazione di S. E. Mons. Athanasius Schneider e, in appendice, una sintesi del saggio di Plinio Corrêa de Oliveira Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (in questo caso, chiunque può liberamente consultare online e scaricare il libro qui). Non posso che raccomandare a tutti la lettura di questo volumetto. Tuttavia non mi sembra soddisfacente la trattazione riguardante il discernimento. Pertanto, vediamo un po’ di raccapezzarci su una questione che sembra diventata particolarmente intricata e confusa.

1. Il discernimento degli spiriti

“Discernimento” deriva dal latino dis-cernere, che significa “distinguere, separare”. Come ricorda Padre Spadaro nel suo articolo, il discernimento è all’origine uno dei carismi elencati nella prima lettera ai Corinzi (12:10; 14:29): piú precisamente, Paolo parla di “discernimento degli spiriti” (διακρίσεις πνευμάτων, discretio spirituum). Un’idea che aveva già espresso nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate (δοκιμάζετε, probate) ogni cosa e tenete ciò che è buono» (5:19-21), e che ritroviamo nella prima lettera di Giovanni: «Non prestate fede a ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti (δοκιμάζετε τὰ πνεύματα, probate spiritus), per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo» (4:1). Da questi testi appare chiaro che ci troviamo in un contesto tutto “spirituale”. Come giustamente fa notare Padre Spadaro:
«Esistono diversi “spiriti” al lavoro nel mondo e nella nostra vita. Certo, lo Spirito Santo di Dio ci attira verso Dio, ma ci sono anche altri spiriti che possono ostacolare il nostro cammino. Il discernimento ci aiuta a determinare ciò che ci porta a Dio e ciò che ci conduce lontano da lui» (p. 5).
Come abbiamo visto in Paolo e Giovanni, questi “spiriti” — buoni e cattivi — si esprimono solitamente attraverso dei “profeti”. Non si tratta, ovviamente, dei profeti dell’Antico Testamento, ma dei “profeti” presenti nelle prime comunità cristiane. Paolo ci invita a non disprezzare tali profeti e quindi a essere aperti nei loro confronti; ma, allo stesso tempo, Giovanni ci mette in guardia dalle contraffazioni, essendoci in circolazione molti “falsi profeti”. Che fare allora? Entrambi ci raccomandano di vagliare, mettere alla prova, discernere gli spiriti, per saggiare se sono da Dio o no. Il discernimento sta esattamente in questo: verificare se un determinato spirito viene da Dio, e quindi è buono e da accogliere, o se proviene dal demonio, e quindi è cattivo e da respingere.

La TOB, nella nota a 1Cor 12:10, fa notare che si tratta di «una capacità che ogni fedele deve possedere». Personalmente, penso che — senza escludere il possesso del dono della discretio spirituum, che è un carisma, da parte di singoli e senza mettere in discussione il dovere per ogni cristiano di discernere la verità dall’errore, il bene dal male — normalmente i fedeli esercitano il discernimento attraverso quello che viene chiamato sensus fidei o sensus fidelium (su cui si può utilmente consultare Lumen gentium, n. 12, il Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 91-93, e il recente documento della Commissione teologica internazionale Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa). Altrettanto normalmente il discernimento dei carismi viene compiuto da coloro ai quali, nella Chiesa, è stato affidato il compito di guidare, come Pastori, il popolo di Dio, vale a dire il Papa e i Vescovi in comunione con lui. Afferma in proposito il Catechismo:
«È in questo senso che si dimostra sempre necessario il discernimento dei carismi. Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, “ai quali spetta specialmente, non di estinguere, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” [LG 12], affinché tutti i carismi, nella loro diversità e complementarità, cooperino all’“utilità comune” [1Cor 12:7]» (n. 801).
Tale discernimento si verifica, per esempio, in occasione delle fondazione di un nuovo istituto religioso, un procedimento assai delicato, tanto che recentemente è stata resa obbligatoria ad validitatem la consultazione previa della Santa Sede per l’erezione di un istituto di diritto diocesano prevista dal can. 579 (vedi qui). Un discernimento simile va operato in altre situazioni, come, per esempio, nel caso delle apparizioni mariane. Sono trentacinque anni che esiste il fenomeno Medjugorje, eppure la Santa Sede non si è ancora pronunciata in maniera chiara e definitiva. Questo solo per dire che non è per nulla facile discernere certi fenomeni spirituali.

2. Il discernimento ecclesiale

Questo il significato originale di “discernimento degli spiriti”. Naturalmente esso si è andato via via estendendo. In senso lato, i Pastori della Chiesa sono chiamati a discernere se una determinata dottrina sia vera o falsa, o se un determinato comportamento sia buono o cattivo, o, su un piano disciplinare o pastorale, se determinate consuetudini siano ancora valide, e vadano quindi ritenute, o se siano superate, e vadano quindi abbandonate. Da questo punto di vista, il campione di questo tipo di discernimento nei nostri tempi, secondo me, è il Beato Paolo VI, il quale, in una situazione in cui tutto veniva messo in discussione, ha dovuto discernere che cosa bisognava conservare e che cosa si poteva lasciar cadere. Come ho avuto modo di rilevare (vedi qui), ritengo che lo stesso Concilio Vaticano II possa essere considerato come una forma di discernimento della Chiesa sulla modernità e il modernismo, in attuazione del precetto paolino: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono».

3. Il discernimento comunitario

In un senso ancora piú vasto, “discernimento” è diventato sinonimo (ma in effetti lo è sempre stato) di lettura dei “segni dei tempi” e di ricerca della volontà di Dio in una particolare situazione, sia a livello comunitario, sia a livello individuale. Nel primo caso abbiamo il “discernimento comunitario”, praticato oggi soprattutto nell’ambito della vita religiosa. Ne parlano ampiamente il documento La vita fraterna in comunità (2 febbraio 1994) e l’esortazione apostolica Vita consecrata (25 marzo 1996). Il primo di questi documenti descrive cosí il discernimento comunitario:
«Il discernimento comunitario è un procedimento assai utile, anche se non facile né automatico, perché coinvolge competenza umana, sapienza spirituale e distacco personale. Là dove è praticato con fede e serietà può offrire all’autorità le migliori condizioni per prendere le necessarie decisioni in vista del bene della vita fraterna e della missione» (n. 50).
Tale discernimento si realizza specialmente a livello capitolare. Anche se i capitoli, a cominciare da quelli generali, purtroppo sono spesso controllati dalle lobby, quando si dimenticano gli interessi umani e ci si abbandona senza riserve all’azione dello Spirito, il discernimento è molto efficace. Posso testimoniarlo per esperienza personale.

4. Il discernimento spirituale

Sempre in ambito monastico/religioso, si afferma progressivamente la pratica del discernimento spirituale individuale. Padre Spadaro, nel suo articolo, fa riferimento a «i padri e le madri del deserto» (beh, le madri poteva pure risparmiarsele…) per accennare poi all’esperienza di Sant’Ignazio di Loyola che troviamo descritta nei suoi Esercizi spirituali. L’esperienza del fondatore dei Gesuiti infatti è fondamentalmente una esperienza personale di discernimento, riversata poi negli Esercizi spirituali, perché altri potessero ripeterla. Si veda in proposito la lettura della liturgia delle ore del 31 luglio, in particolare la finale: 
«Fu la prima meditazione intorno alle cose spirituali. In seguito poi, addentratosi ormai negli esercizi spirituali, costatò che proprio da qui aveva cominciato a comprendere quello che insegnò ai suoi sulla diversità degli spiriti». 
Ritroviamo l’espressione “spiriti”, che avevamo incontrato nel Nuovo Testamento. In questo caso però non si tratta né di carismi né di profezie, ma della presenza e dell’azione dello spirito del bene e dello spirito del male dentro ciascuno di noi. Gli Esercizi spirituali vengono scritti «per vincere sé stesso e per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni in base ad alcuna affezione che sia disordinata» (n. 21). Fine degli esercizi è l’“elezione”, vale a dire la scelta, o la “riforma” dello stato di vita. Per poter arrivare a questo, occorre appunto fare discernimento. A tale proposito troviamo, alla fine degli Esercizi spirituali, due serie di “regole per riconoscere gli spiriti”, la prima piú adatta alla prima settimana (nn. 313-327) e la seconda indicata soprattutto per la seconda settimana (nn. 328-336). Si tratta di regole destinate a chi dirige gli esercizi, per aiutare l’esercitante a fare discernimento: il discernimento deve essere fatto dall’interessato; il direttore può guidarlo, ma non può sostituirsi a lui. Le regole servono a riconoscere gli spiriti buoni e quelli cattivi, a sapere come comportarsi nel tempo della “consolazione” e della “desolazione” spirituale, a prepararsi ad affrontare le tentazioni e gli inganni del demonio. Ebbene, si tratta di una procedura estremamente complessa e laboriosa che richiede, appunto, tutta una serie di “esercizi spirituali”: quattro settimane di completo ritiro, silenzio rigoroso, cinque ore di orazione ogni giorno, esame di coscienza (particolare e generale), confessione generale dei peccati, ecc. Un metodo severo, ma efficace (anche in questo caso, parlo per esperienza personale).

5. Il discernimento morale

Un’altra forma di discernimento individuale è quello che potremmo definire “morale”. Vi fa riferimento il Catechismo della Chiesa cattolica trattando del giudizio della coscienza (nn. 1777-1782):
«La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi), la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio» (n. 1780).
Come si può vedere da tale testo, il discernimento, in questo caso, è un momento previo al giudizio della coscienza: esso consiste nell’applicazione dei principi della moralità — in sé astratti, perché universali — alla situazione concreta in cui ci troviamo a vivere.

6. Il discernimento pastorale

Ora, infine, ci viene proposto, come “chiave di un cristianesimo adulto” (Padre Spadaro), il “discernimento pastorale”. Di che cosa si tratta? Mah, nonostante i numerosi interventi in proposito, non mi sembra che sia poi cosí chiaro. Vediamo di capirci qualcosa. Innanzi tutto, sembrerebbe che non c’entri nulla col discernimento spirituale, né quello di carattere ecclesiale, né quello individuale di ignaziana memoria. Sembrerebbe piuttosto rientrare nell’ambito del discernimento morale. Con la differenza che non è l’individuo a farlo, nel contesto del giudizio morale, ma un’altra persona — un sacerdote, un confessore, un direttore spirituale — nell’ambito del cosiddetto “accompagnamento pastorale” (un’altra delle parole talismaniche, di cui al volume di Guido Vignelli). Almeno cosí mi par di capire. Amoris laetitia applica questo metodo pastorale alle situazioni matrimoniali “cosiddette” irregolari. Che cosa si tratta di fare? Non bisogna limitarsi a esprimere un giudizio, in base ai principi — astratti — della legge morale; occorre considerare (“discernere”) le situazioni concrete — diversissime tra loro — in cui ciascuna coppia si trova a vivere; e, in base a tale discernimento, verificare l’esistenza di circostanze che possono attenuare se non addirittura annullare la responsabilità morale di determinati comportamenti. Che dire? 

Beh, che la Chiesa abbia sempre fatto tale discernimento, in foro interno (nell’ambito della confessione sacramentale o in sede di direzione spirituale), è un dato di fatto; non è una novità. Ciò che mi crea problema è fare di tale discernimento una “tecnica pastorale”. Ho l’impressione che si stia banalizzando un procedimento estremamente complesso e delicato. Abbiamo visto quale rigida disciplina comporti il discernimento spirituale negli esercizi ignaziani; ora si ha l’impressione (sottolineo: “impressione”) che basti il colloquio con un sacerdote per risolvere situazioni estremamente complesse e ingarbugliate. È vero, si parla di “accompagnamento”. Ma che significa? 

Il bello è che, per risolvere certi problemi, ci si affida alla confessione, alla direzione spirituale, al foro interno, proprio ora che la gente non va piú in chiesa e, se ci va, non si confessa e, se si confessa, si guarda bene dal tirar fuori certe questioni. Figuriamoci poi se pratica la direzione spirituale! E questo tipo di soluzioni pastorali vengono proprio dai paesi dove negli ultimi anni si è registrato un crollo della pratica sacramentale (si vedano i dati riportati recentemente da Marco Tosatti a proposito della Germania). Senza dire poi che la confessione e la direzione spirituale sono pratiche individuali, mentre il matrimonio è una questione di coppia e, per sua natura, ha carattere pubblico: come si possono risolvere in foro interno questioni che dovrebbero essere affrontate in foro esterno (giudiziale o extragiudiziale)? Non sono un moralista né un canonista (e pertanto chiedo venia per eventuali inesattezze), ma ho l’impressione che qualcosa non torni. Lo scopo del discernimento non può essere la ricerca delle circostanze attenuanti del nostro comportamento, ma la ricerca della volontà di Dio su di noi. E, per far questo, la prima condizione è la conversione: riconoscere umilmente i propri peccati e impegnarsi a cambiare vita. Noi invece andiamo a cercare le scusanti. 

Non sarà il caso di fare un po’ di discernimento anche sulla nuova pastorale? L’ultima delle regole per il discernimento della prima settimana degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio recita:
«Quattordicesima regola. Cosí pure il demonio si comporta come un condottiero che vuole vincere e fare bottino. Infatti un capitano, che è capo di un esercito, pianta il campo ed esamina le difese o la disposizione di un castello, e poi lo attacca dalla parte piú debole. Allo stesso modo il nemico della natura umana ci gira attorno ed esamina tutte le nostre virtú teologali, cardinali e morali, e poi ci attacca e cerca di prenderci dove ci trova piú deboli e piú sprovveduti per la nostra salvezza eterna» (n. 327).
Non sarà, niente niente, che il “nemico della natura umana” ci stia ingannando con una delle sue astuzie?
Q

domenica 24 luglio 2016

«Domine, doce nos orare»



Today’s gospel opens with a detail we have already encountered other times in Luke: Jesus is praying. The prayer of the incarnate Son of God will remain always a mystery, but it is an example for us, as it was for the disciples at that time: looking at Jesus praying makes them want to pray themselves. But they do not know how. Hence the request, “Lord, teach us to pray” (Domine, doce nos orare).

Jesus’ answer is in three points. First of all, Jesus tells us what we should ask God for. He does it teaching us the “Our Father.” As you can see, the Lucan version of the Lord’s prayer is shorter than that we find in Matthew and regularly use in worship. We will not linger over this prayer, because we have many opportunities to meditate upon it. 

Instead, we will dwell for a while on the second point of Jesus’ catechesis on prayer—that is, how to pray—even because the first reading also is about this point. To teach us how to pray, Jesus tells us a short parable, the importunate friend. In the New American Bible translation we read, “I tell you, if he does not get up to give him the loaves because of their friendship, he will get up to give him whatever he needs because of his persistence.” Jesus invites us to be persistent in our prayer. But in the original text there is a word much stronger: instead of “persistence,” we find “impudence,” literally, “shamelessness.” Just like Abraham in the first reading: he does not scruple to keep asking God not to destroy Sodom. He realizes that he is “dust and ashes,” but he knows that God is just: he cannot allow that the innocent may die with the guilty. This is why he persists in his prayer that way, shamelessly.

The third point of Jesus’ lesson on prayer is a real command, “I tell you, ask and you will receive; seek and you will find; knock and the door will be opened to you.” Jesus does not just invite us to pray; he orders us to do it. Prayer is not only a right; it is a duty. But we should be first convinced of one thing, that every prayer is answered: maybe, not immediately (for this reason we have to be persistent); maybe, not in the way we would expect (but we do not really know what is good for us; while God knows). That is why Jesus adds, “What father among you would hand his son a snake when he asks for a fish? Or hand him a scorpion when he asks for an egg?” Actually, sometimes we have the impression that God gives us a snake, when we ask him for a fish; a scorpion, when we ask him for an egg. It seems as if God were deaf to our requests. Prayer presupposes faith: if we want our prayers to be answered, we have to believe that: 1. God is Father; 2. God is good; 3. God listens to our prayers. Most times the problem is not God; but we are the problem, because we do not know what to ask for and how to ask. Of course, if we ask for something not useful for our good, God will not answer that prayer. If we ask only for material things, it depends if those things are useful or not. We have to learn to ask for what we really need. Please listen to what Jesus tells us at the end of today’s gospel, “If you then, who are wicked, know how to give good gifts to your children, how much more will the Father in heaven give the Holy Spirit to those who ask him?” You see? We have to ask the Father for the Holy Spirit. He is the gift of gifts, the gift par excellence. Last Sunday, Jesus was saying that “there is need of only one thing.” Here is this only necessary thing: the Holy Spirit. This we have to learn to ask the Father for.
Q

lunedì 18 luglio 2016

Il “Patto delle Catacombe”



Ieri mi sono imbattuto casualmente in un articolo sul “Patto delle Catacombe”. Mi sono stropicciato gli occhi e mi son detto, alla toscana (un querciolino non rinnega mai le sue radici): oh icchegliè? Incomincio a leggere l’articolo e, man mano che procedo nella lettura, mi sento sempre piú smarrito. Scopro che il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, quaranta Padri Conciliari, nelle Catacombe di Domitilla, firmarono il “Patto delle Catacombe”. Cado dalle nuvole: in cinquant’anni, non avevo mai sentito parlare di simile patto. 

Terminata la lettura, faccio una veloce ricerca su Google, e scopro che ci sono un’infinità di link, in genere risalenti all’anno scorso (novembre 2015), quando ricorreva il cinquantesimo anniversario del patto. In quell’occasione si tenne anche un seminario all’Urbaniana, a cui parteciparono Mons. Luigi Bettazzi (forse l’unico sopravvissuto dei firmatari), il gesuita Jon Sobrino e il Prof. Alberto Melloni (e noi che pensavamo che nel 2015 si dovesse celebrare il cinquantenario del Vaticano II...). Furono scritti anche diversi articoli. Riporto solo qualche titolo: «Con Papa Francesco rivive 50 anni dopo il “Patto delle catacombe”» (Agenzia SIR); «Catacombe: il Patto per una chiesa povera» (Avvenire); «Nel patto delle catacombe il seme della Chiesa di Francesco» (Aleteia); «A 50 anni del “Patto delle Catacombe”. Per una Chiesa “serva e povera”» (Zenit). Addirittura, nel giorno anniversario, a Napoli, nelle Catacombe di San Gennaro, al Rione Sanità, in trecento (la crème della “Chiesa dei poveri” italiana) rinnovarono il patto.

Nella mia ricerca su Google scopro anche che c’è un articolo di Wikipedia. Chiedo a persone di mia conoscenza, solitamente bene informate, se ne sanno nulla, e mi rispondono: “Sí, certo, ne parla anche il Prof. De Mattei nella sua storia del Concilio”. Un volume, questo, che avevo letto a suo tempo, ma evidentemente non avevo messo a fuoco l’evento. Eravamo ancora durante il pontificato di Benedetto XVI: certi fatti sembravano ormai consegnati alla storia. È chiaro che la percezione dei medesimi eventi varia a seconda della situazione in cui ci si trova a vivere.

Vi lascio immaginare il mio stato d’animo, ieri sera. Ho sentito il mondo crollarmi addosso: ma dove sono vissuto io in questi cinquant’anni? Pensavo che il grande evento della Chiesa del XX secolo fosse il Vaticano II; e ora scopro che, no, era il “Patto delle Catacombe”. Mi avevano sempre detto che il rinnovamento della Chiesa era stato avviato dal Concilio; e invece no, ora mi sento dire che il seme della “Chiesa di Francesco” si trova nel “Patto delle Catacombe”. Ma allora ho sbagliato tutto? Ditemi voi che cosa deve fare uno che, fin da giovane, ha scelto come programma di vita quello di “incarnare il Concilio” (vedi qui) e che, per questa sua scelta, è stato osteggiato ed emarginato, e ha dovuto sorbirsi gli epiteti di “lefebvriano” (da sinistra) e di “prete modernista” (da destra), ma che ha accettato tutto perché convinto che quella fosse la scelta giusta, perché persuaso che «nel Vaticano II si esprime ciò che Dio vuole oggi da noi» (vedi il precedente link). E ora, arrivato a sessant’anni, gli dicono: no, guarda, deve esserci stato un malinteso; il seme della vera Chiesa, quella evangelica, quella “povera per i poveri”, non sta nel Concilio, ma nel “Patto delle Catacombe”. Direte che sto esagerando. No, vi posso assicurare che ero davvero sconvolto. Comunque, andiamo con ordine. Cominciamo con la lettura del patto:
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesú Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli delle nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. [Mt 5:3; 6:33s; 8:20]
2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). [Mc 6:9; Mt 10:9s; At 3:6 Né oro né argento]
3. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. [Mt 6:19-21; Lc 12:33s]
4. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e piú pastori e apostoli. [Mt 10:8; At 6:1-7]
5. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore...). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. [Mt 20:25-28; 23:6-11; Gv 13:12-15]
6. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, precedenze, o anche di una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). [Lc 13:12-14; 1 Cor 9:14-19]
7. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. [Mt 6:2-4; Lc 15:9-13; 2 Cor 12:4]
8. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. [Lc 4:18s; Mc 6:4; Mt 11:4s; At 18:3s; 20:33-35; 1 Cor 4:12 e 9:1-27]
9. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. [Mt 25:31-46; Lc 13:12-14 e 33s]
10. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. [At 2:44s; 4:32-35; 5:4; 2 Cor 8 e 9 interi; 1 Tim 5:16]
11. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale — due terzi dell’umanità — ci impegniamo:
• a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
• a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; cosí:
• ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
• formeremo collaboratori che siano piú animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
• cercheremo di essere il piú umanamente presenti, accoglienti...;
• saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. [Mc 8:34s; At 6:1-7; 1 Tim 3:8-10]
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci, Dio, ad essere fedeli

Embè? potrebbe obiettare qualcuno alla romana. Che c’è di male in questa dichiarazione? Si tratta di un testo che trasuda vangelo (basta vedere i riferimenti che vengono riportati); un testo che solo dei santi prelati potevano sottoscrivere. Mi spiace, ma questo per me non è vangelo; è solo una interpretazione ideologica del vangelo. Il che è diverso. Vediamo perché. 
• Concedo che, a una lettura superficiale, si può rimanere affascinati da tanto amore per la povertà, tanto distacco, tanta semplicità, tanta generosità. Effettivamente solo dei santi sarebbero in grado di realizzare un simile programma. E non escludo che qualcuno dei firmatari lo fosse. Ma ciò non toglie al testo tutta la sua carica ideologica.
• Va apprezzata l’umiltà e la modestia che vi traspira: «un’iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione»; «nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza»; «aiutaci, Dio, ad essere fedeli». Ma non si può ignorare, allo stesso tempo, una punta di presunzione: «in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato». L’unione con i fratelli nell’episcopato, in quei giorni, si manifestava nell’aula conciliare, non nelle catacombe di Domitilla.
• Riconosco pure che diversi punti sarebbero pienamente condivisibili, se non fossero infettati dall’ideologia. Si vedano, per esempio i nn. 1 e 3: ci vuole molto a capire che si tratta di semplici utopie? A volte sarebbero sufficienti le tradizionali virtú (distacco, semplicità, onestà, correttezza, ecc.) per non cadere negli abusi a cui ci si illude di porre rimedio con certi vani propositi. Un po’ di sano realismo non guasterebbe!
• Non parliamo poi degli pseudo-problemi: vestiti, titoli, ecc. (nn. 2 e 5). Da quando in qua i “colori sgargianti” sono antievangelici? «Rifiutiamo di essere chiamati … Eminenza, Eccellenza, Monsignore. Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». Ma, veramente, nel vangelo è scritto: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23:9). E questa sarebbe fedeltà al vangelo?
• Evidentissimo è l’influsso del marxismo, tanto di moda in quegli anni: «Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro» (n. 8); «l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino piú nazioni proletarie in un mondo sempre piú ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria» (n. 11). 
• Emerge una mentalità subalterna alle istituzioni pubbliche, considerate le uniche legittime: «cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti» (n. 9). Perché questo rifiuto aprioristico della beneficenza? che male ha fatto? È evidente la priorità, tutta ideologica, del momento sociale e politico rispetto a quello puramente “assistenziale”.
• Vengono buttate lí proposte, che sanno tanto di massoneria: «l’avvento di un altro ordine sociale, nuovo» (n. 10). Forse, un “nuovo ordine mondiale”?
• Affermazioni giuste, ma che rischiano di rimanere dei semplici slogan: «meno amministratori e piú pastori e apostoli» (n. 4); «piú animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo» (n. 12).
• Alcuni passaggi poco chiari: «la collegialità dei vescovi trova la sua piú evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale»; «investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere» (n. 11). Che significa?

Ma, a parte il contenuto del patto, quel che mi ha maggiormente turbato è la sua stessa esistenza. Notate, esso viene concluso il 16 novembre 1965, a pochi giorni dalla chiusura del Concilio. Perché? Che bisogno c’era? I firmatari erano Padri Conciliari («Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II...»); avevano partecipato a tutte le sedute conciliari; certamente avevano proposto all’attenzione degli altri Padri anche i punti che che sono oggetto del patto, ma evidentemente l’assemblea non aveva ritenuto opportuno farli propri. Ora, se teniamo conto che i sottoscrittori del patto erano 40 e i Padri Conciliari 2500, umiltà e buon senso avrebbero voluto che i 40 si arrendessero alla volontà della maggioranza. Le Costituzioni del mio Ordine, approvate nel Cinquecento, disponevano, a proposito delle decisioni capitolari: «Si eviterà, quando verrà deciso qualcosa contro il proprio parere, di continuare a opporsi o a ripetere che non si condivide quella decisione; bisogna infatti persuadersi che è giusto quanto è stato approvato dalla maggioranza» (l. IV, c. 7). A quanto pare, invece, i piú spirituali dei Padri Conciliari non si rassegnarono, non videro nelle decisioni della maggioranza il risultato del “discernimento” del Concilio, “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”; a loro non bastava quanto era stato approvato; evidentemente ritenevano di essere portatori di una ispirazione speciale, esclusiva, e sentirono il bisogno di riproporla con un gesto a parte, riservato a pochi eletti: il “Patto delle Catacombe”. E il bello è che questo patto non è rimasto un accordo privato fra quei pochi che lo hanno sottoscritto, ma ha costituito la fonte di ispirazione per quanti in questi cinquant’anni non si riconoscevano nella Chiesa istituzionale. Si ha l’impressione che ci siano stati due concili: uno “essoterico”, destinato al vasto pubblico, fatto dei sedici lunghi documenti approvati dai Padri, e uno “esoterico”, riservato a pochi “illuminati”, fatto di dodici paragrafetti (per altro, scritti con una certa approssimazione), che però avrebbero condizionato la Chiesa nei decenni a venire. E sembrerebbe quasi che il Concilio ufficiale sia servito solo da paravento per coprire quello “reale”, rimasto sotto la cenere per cinquant’anni, per manifestarsi infine ai nostri giorni. Che ci fossero delle lobby, lo si sapeva; che queste, prima e durante il Concilio, si riunissero separatamente per decidere e organizzare le modalità dei loro interventi, sarà pure poco corretto, ma è comprensibile, rientra nella normalità. Ma che quaranta Padri, alla vigilia della conclusione del Concilio, abbiano sentito il bisogno di stringere un “Patto delle Catacombe”, supplementare al Concilio, quasi suo momento supremo, a me sembra semplicemente inconcepibile. Dà l’impressione di una specie di Carboneria. Non bastava la “Mafia di San Gallo”; ora viene fuori (almeno per me, che in questi cinquant’anni sono stato un po’ ingenuo e un po’ distratto) il “Patto delle Catacombe”. Questa nuova Chiesa, a quanto pare, nasce sotto il segno della cospirazione. Ma non erano state aperte le finestre per fare entrare aria fresca? Non doveva sentirsi profumo di primavera? Io, per il momento, sento solo puzza di zolfo.
Q

domenica 17 luglio 2016

«Excepit illum»



Today’s gospel immediately follows last Sunday’s passage (do you remember? The parable of the good Samaritan), and maybe it serves to “balance” that parable: the story of Martha and Mary could be considered as a completion of what the parable of the good Samaritan taught us: we have to become neighbor of others, yes; but, first of all, we have to stay at the Lord’s feet listening to his word. 

Commentators usually stress the opposition between the two sisters: Martha, all busy in her service; Mary, quiet and attentive to Jesus’ word. The Holy Fathers see in this episode the superiority of the contemplative life over the active one. Actually, Jesus rebukes, though mildly, Martha for her anxiety, and praises Mary’s attitude. He says: “Mary has chosen the better part and it will not be taken from her.” It is clear that, if we had to make out a list, we should put at the first place the “contemplative life” and only at the second place the “active life,” just as, between the two commandments of love, the first is “You shall love the Lord your God,” and the second, “You shall love your neighbor as yourself.” But we are not required to draw up lists. And I have the impression that today’s liturgy does not emphasize this opposition.

If you have noticed, in the first reading we have heard the story of Abraham visited by God at the Oak of Mamre. Usually, at least during the Ordinary Time, the first reading is linked with the gospel. The connection is quite clear: in both cases we have an act of hospitality. It would seem that the liturgy prefers Martha to Mary. Certainly, hospitality has always been one of the most important duties for a Christian. The letter to the Hebrews, referring to the episode of Abraham, says, “Do not neglect hospitality, for through it some have unknowingly entertained angels” (Heb 13:1). I think that exactly in this text we can find the key to understand today’s liturgy.

Just as Abraham received God under the tree and Martha welcomed Jesus (excepit illum) into her house, so we are invited to receive the Lord into our life. There are two ways—complementary, not incompatible—to do it. We can receive Jesus welcoming our brothers and sisters. Do you remember what the King will say in the last judgment? “I was a stranger and you welcomed me … When did we see you a stranger and welcome you? … Amen, I say to you, whatever you did for one of these least brothers of mine, you did for me” (Mt 25:36.38.40).

But there is another way to receive Jesus. Nobody points it out, but in the gospel it is not only Martha that welcomes Jesus; even Mary receives him; just in a different way. A guest needs not only food, but also attention; if every one of his hosts were busy with the housework and left him alone, he would not feel at his ease. So, on the pretext of having to serve our neighbor, we cannot neglect the Lord, who orders us to do it. Even because, if we stop staying on hearing him, in the end we risk forgetting why we are doing it. That is why today’s world has become so inhumane, in the face of ages of humanitarian ideologies: because we have stopped spending our time with God. Even many who consider themselves Christian do not feel the need of spending just one hour a week with their Lord. We thought that there was no need of God to help others, but now we do not know anymore why we should do it. Only putting ourselves again at the Lord’s feet listening to his word, we will rediscover the reason for serving our neighbor and we will experience the joy of encountering him in them.
Q

martedì 12 luglio 2016

Quod erat demonstrandum



Non credo che vadano spese molte parole per commentare la dichiarazione rilasciata ieri da Padre Lombardi (l’ultima nella sua veste di Direttore della Sala stampa vaticana...) a proposito dell’intervento del Card. Sarah alla conferenza “Sacra Liturgia UK”, di cui ci eravamo occupati nel post della settimana scorsa. Come volevasi dimostrare. In quel post, accennando agli sforzi, senza effetto, di Benedetto XVI e del Card. Cañizares per una “riforma della riforma”, avevamo concluso dicendo che la montagna aveva partorito il topolino. In questo caso la gravidanza non è durata neppure una settimana: si è fatto ricorso alla pillola del giorno dopo per interromperla immediatamente. E, per scoraggiare, non dico gli entusiasmi (quelli erano svaniti ormai da tempo), ma anche solo le residue speranze di un qualche ritocco alla riforma liturgica, Padre Lombardi si è affrettato a precisare che «è meglio evitare di usare l’espressione “riforma della riforma”, riferendosi alla liturgia, dato che talvolta è stata fonte di equivoci». Capito? Anche la Chiesa aperta al cambiamento e alle sorprese dello Spirito, dove sono non solo possibili, ma necessari mutamenti della prassi pastorale e sviluppi della dottrina, anche questa Chiesa ha i suoi punti fermi, i suoi principi non negoziabili, i suoi dogmi che non possono essere messi in discussione. Uno di questi è la riforma liturgica: non solo non si può metterla in discussione (e infatti nessuno, tanto meno il povero Card. Sarah, lo aveva fatto), ma non si può neppure ipotizzarne una qualsiasi revisione. Si può riformare tutto, ma non la riforma stessa. Questo fa capire fino a che punto la Chiesa sia divenuta ormai preda dell’ideologia: la riforma liturgica non vale in quanto tentativo — piú o meno riuscito e quindi perfettibile — di restaurare un antico affresco (per usare la bella immagine del Card. Ratzinger nella premessa all’Introduzione allo spirito della liturgia), ma solo come “bandiera” di una rivoluzione che non può e non deve essere messa in discussione. C’è qualcuno che non è d’accordo? “Avete avuto il motu proprio Summorum Pontificum — questo il senso della dichiarazione di Padre Lombardi — che altro andate cercando?”.



Lasciamo perdere queste tristi questioni e interessiamoci invece di qualcosa di positivo proveniente dalla Congregazione del culto divino. Come forse saprete, il 3 giugno scorso è stato emanato un decreto con cui, per volere di Papa Francesco, la celebrazione della memoria liturgica di Santa Maria Maddalena (22 luglio) è stata elevata al grado di “festa”. I testi della Messa e della Liturgia delle ore rimangono gli stessi, con l’aggiunta di un nuovo prefazio, allegato al decreto:
Vere dignum et iustum est,
æquum et salutáre,
nos te, Pater omnípotens,
cuius non minor est misericórdia quam potéstas,
in ómnibus prædicáre per Christum Dóminum nostrum.
Qui in horto maniféstus appáruit Maríæ Magdalénæ,
quippe quæ eum diléxerat vivéntem,
in cruce víderat moriéntem,
quæsíerat in sepúlcro iacéntem,
ac prima adoráverat a mórtuis resurgéntem,
et eam apostolátus offício coram apóstolis honorávit
ut bonum novæ vitæ núntium
ad mundi fines perveníret.
Unde et nos, Dómine, cum Angelis et Sanctis univérsis
tibi confitémur, in exsultatióne dicéntes.
Il decreto è accompagnato da un articolo dell’Arcivescovo Arthur Roche, Segretario del Dicastero, in cui si espongono le ragioni che hanno portato al mutamento di grado della celebrazione. Le motivazioni sono fondamentalmente tre: il ruolo che la donna è chiamata a svolgere nella Chiesa, l’impegno per una nuova evangelizzazione, la grandezza del mistero della misericordia divina. Si accenna alla tradizionale identificazione (oggi superata) di Maria di Magdala con la peccatrice perdonata (Lc 8:36-50) e con Maria di Betania, sorella di Marta e Lazzaro. Vengono quindi citate alcune belle espressioni di importanti scrittori ecclesiastici: “dilectrix Christi et a Christo plurimum dilecta” (Rabano Mauro), “electa dilectrix et dilecta electrix Dei” (Anselmo di Canterbury), “testis divinae misericordiae” (Gregorio Magno), “apostolorum apostola” (Rabano Mauro e Tommaso d’Aquino). Quest’ultima espressione è stata utilizzata anche come titolo del nuovo prefazio e spiega il motivo per cui la celebrazione di questa santa sia stata equiparata a quella degli apostoli (i greci attribuiscono alla Maddalena il glorioso titolo di ἰσαπόστολος, “uguale gli apostoli”).

Lo stesso Arcivescovo Segretario firma inoltre la presentazione del nuovo prefazio. Viene ripresa e approfondita, da un punto di vista storico, la questione dell’identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice perdonata e con Maria di Betania, che caratterizzava l’antica liturgia. Con la riforma liturgica l’identificazione delle tre donne è stata, come detto, abbandonata e i testi liturgici (letture, orazioni e antifone) sono stati  conseguentemente riveduti. Si passa quindi a illustrare il nuovo testo, evidenziandone le caratteristiche e indicandone le fonti (Rabano Mauro).

Anche se il decreto demanda alle conferenze episcopali la traduzione del prefazio, in modo che, dopo la necessaria approvazione della Santa Sede, possa essere inserito nelle ristampe del Messale, mi permetto di anticiparne una mia personale traduzione, in modo che si possa apprezzare la bellezza del nuovo testo. Un solo appunto: l’aggiunta del quarto piucchepperfetto (adoraverat), assente nella fonte, che si fa meccanicamente concordare coi tre verbi precedenti, senza accorgersi che, quando Gesú apparve alla Maddalena, questa non lo aveva ancora adorato.
È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
glorificarti in tutte le cose, o Padre,
misericordioso non meno che onnipotente,
per Cristo nostro Signore.
Nel giardino egli si manifestò visibilmente a Maria Maddalena,
a colei che lo aveva amato da vivo,
lo aveva visto morire in croce,
lo aveva cercato deposto nel sepolcro,
e per prima lo adorò risorto dai morti.
Di fronte agli apostoli egli le accordò l’onore e l’onere dell’apostolato,
perché la buona notizia della vita nuova
giungesse ai confini del mondo.
E noi,
uniti agli angeli e ai santi,
cantiamo con gioia
l’inno della tua lode.
Aggiornamento: Mons. Andrea Caniato gentilmente mi segnala che è già disponibile la traduzione ufficiale italiana del prefazio, curata dalla Conferenza episcopale italiana, approvata dalla Santa Sede il 1° luglio scorso e pubblicata sul sito della CEI.
Q

domenica 10 luglio 2016

«Misericordia motus est»



We are reading the second part of Luke’s gospel, where the evangelist relates Jesus’ journey to Jerusalem. In this part Luke draws some elements from other gospels and adds some elements of his own. Like in today’s passage: the question about the two most important commandments of the law is common to the three synoptic gospels, even though in this case the question is formulated in a different way (instead of asking, in abstract terms, “Which is the first of all commandments?”, the scholar of the law asks more concretely, “What must I do to inherit eternal life?”) and Jesus replies with another question, so that the lawyer is forced to give he himself the answer. He gives a correct answer, so much so that Jesus says to him, “Do this and you will live.” As if Jesus said, “You see? You already know what to do to inherit eternal life. Why are you bothering me?” Evidently, Jesus has understood that the lawyer is just putting him to the test. 

The scholar of the law, maybe realizing that he has been discovered, tries to justify himself; and at this point he asks another question, this time an abstract one, typical of scholars, “And who is my neighbor?” If the commandment orders me to love my neighbor, I need to know who are those I should love. I cannot love everyone. Actually, the commandment does not say to love everybody, but just my neighbor. So, who is my neighbor? That question was totally useless, because the scholars of the law, at that time, had already settled the dispute: neighbor were all the Jews; foreigners were all excluded. After all, what does “neighbor” mean? “Neighbor” is a person who lives next to me or near me. So... 

Jesus does not answer the question; he replies with a parable, one of the most famous and beautiful parables, the parable of the good Samaritan (and this is the element peculiar to Luke). The story is known: a man falls victim to robbers; the Jews, according to the commandment, should help him; instead, even a priest and a Levite ignore him. On the contrary, a Samaritan, that is, an enemy (do you remember the rejection of Jesus by Samaritans when he crossed their region?), takes care of the poor man. Please notice a detail: when the Samaritan sees the victim, he approaches him, that is, comes near to him. That man was not his neighbor, because they were enemies; but, approaching him, he becomes neighbor to him. That is why, at the end of the parable, Jesus reverses the question: the lawyer had asked, “Who is my neighbor?” and now Jesus asks him, “Which of these three was neighbor to the robbers’ victim?” That is to say: the problem is not to know who is my neighbor to love; but to become neighbor to those in need, so that I am bound to love them. 

This is the meaning, quite clear, of the parable. And Jesus invites us to do the same: “Go and do likewise.” But the Church has always seen another, deeper meaning in this parable. Practically, while telling the story of the good Samaritan, Jesus is talking of himself: he is the Good Samaritan of the world. That man who falls victim to robbers portrays the whole humanity: man, when was created, with his sin, fell victim to the devil. Nobody took care of him. It took a “foreigner” to come to his aid: One who was far from him—God—was moved with compassion (misericordia motus est) and became neighbor to him, becoming man he himself. Once on earth, he poured oil and wine over his wounds and bandaged them. Then, before leaving the world, he entrusted the poor man to the Church (the innkeeper of the parable) saying, “Take care of him. If you spend more than what I have given you, I shall repay you on my way back.” So, we have a reason more to help our brethren in need: not only because there is the old commandment “You shall love your neighbor as yourself,” but also and above all because Jesus himself entrusted them to us, asking us to take care of them. Whatever we spend for them—never fear!—he will repay us on his return.
Q

mercoledì 6 luglio 2016

Nero su bianco



Da quando il blog ha ripreso a vivere, non mi sono mai occupato di liturgia, nonostante essa fosse una delle tematiche di cui Senza peli sulla lingua si occupava con maggior frequenza fin dai suoi inizi. Ora mi dà occasione di farlo una notizia fresca fresca. Si è appena aperto a Londra il convegno “Sacra Liturgia UK” con la prolusione del Card. Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Non abbiamo ancora a disposizione il testo completo dell’intervento né la sua traduzione italiana; ma vari siti di lingua inglese se ne sono occupati: New Liturgical Movement, Catholic Herald, Life Site

Ha fatto scalpore fra i partecipanti al convegno la notizia, riferita da Sua Eminenza, secondo la quale Papa Francesco gli avrebbe chiesto di studiare la questione della “riforma della riforma” e il mutuo arricchimento delle due forme — ordinaria e straordinaria — del rito romano. Che il Papa avesse chiesto al Card. Sarah di continuare a operare in campo liturgico sulla linea intrapresa da Benedetto XVI, era noto; che gli avesse chiesto addirittura di studiare la questione della “riforma della riforma”, è sicuramente una piacevole novità.

Sua Eminenza ha inoltre riproposto un’idea che aveva già espresso in precedenti occasioni:
«Contrariamente a quanto è stato a volte sostenuto, è del tutto conforme alla costituzione conciliare, è addirittura opportuno che, durante il rito della penitenza, il canto del Gloria, le orazioni e la preghiera eucaristica, tutti, sacerdote e fedeli, si voltino insieme verso Oriente, per esprimere la loro volontà di partecipare all’opera di culto e di redenzione compiuta da Cristo» (L’Osservatore Romano, 12 giugno 2015).
Ciò che ha colpito in questa circostanza, a parte l’insistenza, è stata l’indicazione di una data, a partire dalla quale tale cambiamento andrebbe attuato: la prima domenica di Avvento (27 novembre 2016).

L’appello del Cardinale è stato accolto naturalmente con grande soddisfazione da quanti amano la liturgia tradizionale. Personalmente, dopo lunga riflessione, sono giunto anch’io alla conclusione che alcuni aspetti dell’antica liturgia vadano recuperati nel Novus Ordo, senza con ciò mettere in discussione la validità della riforma liturgica (nell’articolo su L’Osservatore Romano appena citato il Card. Sarah insiste proprio sul fatto che certi aspetti dell’attuale liturgia non corrispondono alla mente dei Padri conciliari). Permettetemi però di fare un paio osservazioni.

1. È stato il Card. Ratzinger a parlare per primo di una “riforma della riforma”. Me ne sono occupato anche su questo blog (9 settembre 2009 e 27 luglio 2010). Sembrava che questa dovesse essere una delle priorità del suo pontificato, ma poi, non so per quali motivi, non se n’è fatto nulla. L’unico provvedimento riguardante il rito della Messa è stato l’aggiunta di alcune formule alternative di congedo nella terza edizione del Messale Romano. Va detto che Benedetto XVI ha introdotto un diverso stile nelle celebrazioni pontificie, ma senza mai imporre ad altri quello stile. C’è stato infine il motu proprio Summorum Pontificum, che ha liberalizzato l’usus antiquior (“forma straordinaria del rito romano”), senza però toccare direttamente la “forma ordinaria” (limitandosi ad auspicare un reciproco influsso tra le due forme). È vero che Papa Benedetto, durante il suo pontificato, non ha avuto la possibilità di realizzare il suo programma, essendo stato costretto ad affrontare un’agenda decisa da altri. Rimane il fatto che uno dei principali punti del suo programma non è stato realizzato. Sembrava che il Card. Antonio Cañizares Llovera (il “piccolo Ratzinger”), al quale il Papa aveva affidato la Congregazione del culto divino, avesse ricevuto il mandato di attuare la “riforma della riforma”; ma quando si diffusero le prime voci su alcuni possibili cambiamenti da apportare ai riti liturgici, ci si affrettò a smentire tutto. Il Card. Cañizares si limitò a dire che la liturgia doveva essere riposizionata al centro della vita della Chiesa. La montagna aveva partorito il topolino! Ebbene, quello che non è riuscito a Ratzinger e Cañizares riuscirà a Bergoglio e Sarah? Ce lo auguriamo di cuore, anche se però non si ha l’impressione che la liturgia rientri fra le priorità di Papa Francesco (il quale, non dimentichiamolo, è un gesuita che nec rubricat, nec cantat).

2. È legittimo, anche per un uomo di governo, pubblicare libri e scrivere articoli, fare conferenze e rilasciare interviste: sono cose che possono servire per preparare il terreno e per creare consenso. Ma non sono strumenti di governo. Si governa legiferando. Un uomo di governo non può limitarsi a fare inviti, a lanciare appelli; deve prendere provvedimenti. La riforma liturgica, oltre che con la pubblicazione dei nuovi libri liturgici, è stata fatta attraverso una serie di istruzioni “per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II”: cinque per l’esattezza (l’ultima, Liturgiam authenticam, risale al 2001); sei, se si considera anche l’istruzione Redemptionis Sacramentum del 2004. Beh, chi vieta che, dopo quindici anni, si faccia una sesta istruzione “per la retta applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II”, visto che il problema sembra essere proprio questo, la corretta interpretazione della Sacrosanctum Concilium? Non è necessario che in questa nuova istruzione si imponga a tutti di riprendere a celebrare ad Orientem; ci si può limitare semplicemente a proporlo come una possibilità. Ma un conto è che questa “proposta” la si trovi scritta, nero su bianco, in una istruzione della Congregazione del culto divino; un altro conto è che essa venga fatta, a titolo personale, dal Cardinale Prefetto di quella Congregazione, correndo il rischio che essa passi per una sua idea stravagante. Di parole e di belle idee ne abbiamo avute e continuiamo ad averne abbastanza; è giunto il momento, forse, di passare dalle parole ai fatti.
Q

domenica 3 luglio 2016

«Pax huic domui»



There is a word recurring today in all readings: “peace.” We find it in the gospel: “Into whatever house you enter, first say, ‘Peace to this household.’” We encounter the same word in the second reading also: “Peace and mercy be to all who follow this rule and to the Israel of God.” It could seem that the word “peace” is absent from the first reading, but in this case the translation is to blame. Where we read: “Lo, I will spread prosperity over Jerusalem like a river,” in reality, in the original text there is written: “Behold, I will extend peace to her like a river.” Modern versions of the Scripture think to do us a favor, when they explain the meaning of a word instead of translating it literally; but they do not realize that, doing so, they impoverish the text; like in this case: the New American Bible renders the original Hebrew shalom (= peace) as “prosperity,” but this is only one of the numerous meanings of the biblical concept of shalom. In the Bible, “peace,” in addition to its ordinary meaning of absence of war, also means: health, riches, well-being, wholeness, happiness, prosperity, safety, salvation, harmony between God and man, life lived in its fullness. As you can see, it is a very rich term: practically, it summarizes all the goods one can desire. It is the gift that the Messiah will bring when he comes. In fact, when the angels appear to the shepherds at the birth of Jesus, they say: “Glory to God in the highest and on earth peace to those on whom his favor rests.” Meaning: the Messiah has come, and has brought the gift of peace to all. “Peace” is still now the usual greeting among Jews, Christians and Muslims: “Shālôm ‘alêkhem”; “Peace be with you”; “As-salām ‘alaykum.”

Jesus is sending seventy-two disciples on mission. He had already sent the twelve apostles: he had sent them to proclaim the kingdom of God and to heal the sick (Lk 9:11-6). Now he sends other disciples, seventy-two to be precise. Just as twelve is the number of the tribes of Israel, so seventy-two, according to the Bible, is the number of pagan nations. This second mission means two things: firstly, apostolate in not a privilege of the apostles, but a duty of all disciples; secondly, salvation is reserved not only for the Jews, but for all peoples. The mission of the seventy-two is a foreshadowing of the mission to pagans, which will start after Pentecost. The gospel points out that Jesus sends his disciples “ahead of him in pairs to every town and place he intended to visit.” This detail makes us understand the real meaning of the mission: missionaries have just to precede Jesus, that is, to pave the way for him, like John the Baptist. A missionary cannot take the place of Jesus; he can just be his forerunner.

The instructions Jesus gives to his disciples are very similar to those he had given to the apostles. But there are two aspects emphasized in this case. Firstly, when they enter a house, they have to wish peace. Since they are missionaries of the Messiah, they bring with themselves the Messiah’s gift, peace. Secondly, they have to proclaim the coming of God’s kingdom: “The kingdom of God is at hand for you.” Here is the good news they have to announce. It is not a simple desire or hope; it is the proclamation of an event. Even when they are rejected, they have to shake off the dust from their feet, but they have to confirm that, in any case, “the kingdom of God is at hand.”

Very nice is the account of the return of the seventy-two. They are full of joy for the success of their mission: “Lord, even the demons are subject to us because of your name.” Their satisfaction is understandable. But Jesus reminds them that it should not be that the reason for rejoicing, but another one: “Rejoice because your names are written in heaven.” We should always rejoice only for one reason: because God loves us, he has chosen us and wants us to be with him in heaven.
Q

venerdì 1 luglio 2016

Obiettivo raggiunto



È dei giorni scorsi la notizia che nella diocesi di Montreal in Canada, da settembre, i sacerdoti non potranno piú avvicinarsi da soli ai bambini: potranno farlo solo alla presenza di un testimone (qui). Si tratta di una decisione ecclesiastica, non civile: la diocesi, evidentemente stremata per i risarcimenti milionari pagati per le cause di abusi, cerca ora di coprirsi le spalle. Si può quindi anche comprendere il provvedimento; ma ciò non toglie che esso provochi ugualmente una grande tristezza. Praticamente, la grande campagna mediatica contro i preti pedofili — che ebbe il suo culmine nel 2010, proprio durante l’Anno sacerdotale, e che sembrava essersi attenuata con l’avvento del nuovo pontificato — ha conseguito il risultato che si proponeva, quello di screditare in maniera generalizzata e definitiva il clero cattolico. Ormai, diciamocelo chiaramente, tutti — e sottolineo tutti, anche i cattolici piú tradizionalisti — sono convinti che i preti — tutti, senza eccezione — sono dei pedofili. Per carità, si può anche nutrire stima e rispetto per alcuni preti, specialmente per quelli che si conoscono personalmente; ma nel fondo rimane la convinzione, o perlomeno il sospetto, che anche quei preti, che tu conosci e stimi, sotto sotto siano dei pedofili come gli altri. Ora, finché si tratta del giudizio, per quanto ingiusto, che la gente nutre sul nostro conto, può dispiacere; ma possiamo anche accettarlo, in spirito di penitenza, come la croce che ci tocca portare in questo tempo in cui viviamo. Il vero problema è un altro. Il problema è che in questo modo nessun prete oserà piú avvicinarsi ai bambini e ai giovani in generale; si limiterà a fare un lavoro d’ufficio, molto meno rischioso. Lo accuseranno forse di essersi ridotto a fare il burocrate; ma almeno non potranno piú accusarlo di essere un pedofilo. Voi capite però che questa sarà (o meglio, in molti luoghi, è già stata) la fine di tutte le attività giovanili della Chiesa. Il problema non è tanto il sacramento delle Penitenza: per questo, basta tornare all’uso dei vecchi confessionali, con tanto di grata (se li avevano inventati, ci sarà pure stato un motivo...) in chiesa, sotto gli occhi di tutti; e il problema è risolto. Il problema sono tutte le attività pastorali che vedevano il prete in mezzo ai giovani. Magari potevano essere anche considerate attività poco qualificate, una perdita di tempo; ma avevano comunque un profondo valore educativo e costituivano pur sempre una presenza capillare della Chiesa nella società. E chi si sognerà piú di avere il gruppo dei chierichetti o degli scout, o di fare l’oratorio, o di organizzare una gita, una vacanza o un campo-scuola? D’ora in poi, il prete si limiterà a celebrare la Messa; il catechismo per la prima Comunione lo farà fare alle mamme; i giovani, una volta terminato il catechismo, non metteranno piú piede in parrocchia e non avranno piú alcuna occasione di incontrare un prete nella loro vita. E poi ci si lamenterà (sta già avvenendo) che i giovani sono abbandonati, che non hanno piú punti di riferimento, che crescono senza valori, ecc. ecc. È esattamente quel che volevano quanti hanno promosso la martellante campagna contro gli abusi del clero. Credete che avessero a cuore le vittime? Se cosí fosse stato, si sarebbero interessati anche alla pedofilia diffusa in altre confessioni religiose, nella famiglia, nella scuola, nello sport e, soprattutto, alla pedofilia d’alto bordo (rock star, registi, musicisti, parlamentari, ministri, capi di stato e di governo…); e invece no, di quella pedofilia non interessava niente a nessuno. In quei casi non c’erano vittime da difendere; in quei casi si poteva tranquillamente coprire, occultare, insabbiare (basti pensare alla BBC...). Al massimo, quando la notizia veniva a galla e non poteva piú essere ignorata, si trattava del caso singolo (come è giusto che sia); nessuno si sognava di criminalizzare la categoria. Quel che fa riflettere poi è che, contemporaneamente alla campagna contro gli abusi del clero, è stata portata avanti un’altra campagna, quella per i “diritti civili”, tra i quali prima o poi si arriverà a comprendere anche la pedofilia. Ha già iniziato a farsi sentire qualche voce sommessa per rivendicare il diritto dei minori ad avere una propria sessualità… In alcuni paesi sono stati addirittura fondati dei partiti politici che si propongono la legalizzazione della pedofilia. C’è qualcosa che non torna: si va verso lo sdoganamento della pedofilia e, allo stesso tempo, essa costituisce un motivo di criminalizzazione per il clero. C’è una sola spiegazione: evidentemente la pedofilia era solo una scusa: l’obiettivo vero era colpire la Chiesa, impedirle di svolgere liberamente la sua missione e cosí scristianizzare la società. Obiettivo raggiunto. 
Q