lunedì 31 agosto 2009

L'antica alleanza ancora valida?

L’altro giorno l’agenzia Catholic News Agency (CNA) ha pubblicato una notizia che ha attirato la mia attenzione. Essendomi già occupato, nei primi giorni di vita di questo blog, del problema del rapporto fra antica e nuova alleanza (vedi qui), mi fa piacere notare che da qualche parte ci si sta incominciando a rendere conto dell’inopportunità di certo linguaggio theologically correct, che inevitabilmente porta alla professione di vere e proprie eresie. I Vescovi americani intanto hanno corretto il loro “Catechismo degli adulti”, dove si affermava senza mezzi termini che l’alleanza con gli ebrei “rimane eternamente valida per loro”. Il nuovo testo non è che mi piaccia granché, ma per lo meno si limita a citare San Paolo, senza fare affermazioni eretiche. Il comunicato della Conferenza episcopale poi non è che brilli per chiarezza, ma almeno dice esplicitamente che l'antica alleanza trova il suo compimento in Cristo. Riporto una mia traduzione della notizia.


Washington DC, 28 agosto 2009 (CNA). – I Vescovi americani hanno comunicato che il Vaticano ha concesso la recognitio a una modifica nel Catechismo cattolico per gli adulti statunitense, che chiarisce l’insegnamento cattolico sull’alleanza degli ebrei con Dio.

La prima versione del catechismo, nella sua trattazione dell'alleanza di Dio con gli ebrei, affermava: «L’alleanza che Dio concluse con il popolo ebraico attraverso Mosè rimane eternamente valida per loro».

Il testo modificato dice: «Il popolo ebraico, che Dio scelse per primo per ascoltare la sua Parola, ha “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne”». Nel passo riveduto si cita il capitolo 9 della lettera ai Romani e il paragrafo 839 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

La recognitio del Vaticano è una dichiarazione che un documento è in linea con l’insegnamento cattolico. La modifica era stata approvata nella riunione del giugno 2008 dei Vescovi americani a Orlando in Florida.

Un comunicato stampa della Conferenza episcopale degli Stati Uniti (USCCB) affermava: «Il chiarimento non è una modifica nell’insegnamento della Chiesa. Esso riflette l’insegnamento della Chiesa secondo cui tutte le precedenti alleanze che Dio aveva concluso con il popolo ebraico si sono compiute in Gesú Cristo attraverso la nuova alleanza, stabilita con la sua morte sacrificale sulla croce. I cattolici credono che il popolo ebraico continua a vivere entro la verità dell’alleanza che Dio stabilí con Abramo, e che Dio continua a essere a loro fedele». Il comunicato stampa dell’USCCB citava un passo della Costituzione del Concilio Vaticano II Lumen gentium, che insegna che il popolo ebraico «rimane molto caro a Dio; perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili».

In giugno [2008] i Vescovi statunitensi avevano chiarito anche un documento del 2002 dal titolo Alleanza e missione, dicendo che il documento erroneamente minimizzava l’importanza della diffusione del Vangelo.

L’Associated Press riferisce che la modifica ha portato i principali gruppi ebraici e i rabbini delle tre maggiori correnti del giudaismo americano a dire che le loro relazioni con i leader cattolici erano a rischio. Giovedí i rabbini del movimento ortodosso, di quello conservatore e di quello riformista si sono uniti all’Anti-Defamation League e al Comitato Ebraico Americano nell’affermare che il documento è “antitetico” all’essenza del dialogo interreligioso. Secondo loro, tale dialogo diventa “insostenibile”, se lo scopo dei partecipanti cristiani è quello di convincere gli ebrei ad accettare Cristo.

Il Vescovo di Bridgeport in Connecticut, William Lori, ha commentato la revisione di giugno [2008] dicendo: «Se da una parte la Chiesa cattolica non converte il popolo ebraico, essa non può d’altra parte rinunciare a testimoniare loro la propria fede in Cristo, né ad accoglierli nella condivisione di quella stessa fede quando necessario».

domenica 30 agosto 2009

XXII domenica "per annum"

«Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».

Per noi cattolici, la tradizione è un elemento fondamentale: è lo strumento attraverso cui giunge a noi la rivelazione divina. Siccome tale rivelazione è stata affidata agli apostoli, e da questi trasmessa ai loro successori fino a noi, la chiamiamo “tradizione apostolica”. La Chiesa cattolica vive di tale tradizione: è radicata in essa e da essa trae la sua linfa vitale. Interrompere la tradizione significherebbe per la Chiesa firmare la propria condanna. Abbiamo sotto gli occhi la situazione di quelle comunità ecclesiali che, nei secoli passati, avevano iniziato un nuovo corso, pensando di poter stabilire con Dio un rapporto di tipo diverso — personale, spirituale, immediato — che prescindesse totalmente dalla tradizione della Chiesa. È lo stesso destino che attende quei gruppi e quelle comunità, all’interno della Chiesa cattolica, che hanno considerato il Concilio Vaticano II come un nuovo inizio, come una rifondazione della Chiesa, che ignorava completamente venti secoli di storia.

Eppure Gesú, col vangelo odierno, ci mette in guardia dai pericoli che possono nascondersi anche dietro un formale rispetto della tradizione. I farisei erano attaccatissimi alla tradizione, tanto da scandalizzarsi dei discepoli di Gesú, che, secondo loro, non la rispettavano (non si lavavano le mani prima di mangiare!): «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?». La risposta di Gesú è durissima: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».

Tale risposta ci ricorda una grande verità: da una parte c’è il “comandamento di Dio” (piú in generale, potremmo dire: la “divina rivelazione”), dall’altra c’è la “tradizione degli uomini”. Tra queste due realtà esiste una profonda differenza: la prima è una realtà divina; la seconda, meramente umana. Non che, per questo, la tradizione non abbia alcun valore, sia inutile e da rigettare; ma il suo è un valore unicamente strumentale: la tradizione è, come abbiamo ricordato, il mezzo attraverso cui la rivelazione giunge a noi. Essa non può essere assolutizzata; essa non è fine a sé stessa; per sua natura, essa rinvia al “comandamento di Dio”. Nel momento in cui essa si chiude in sé stessa, si distacca dalla fonte che l’ha generata e pretende di essere punto di riferimento ultimo, essa perde tutto il suo valore e può essere tranquillamente abbandonata; diventa, semplicemente, “tradizione degli uomini”.

sabato 29 agosto 2009

Che cosa ci si guadagna?

Confesso che non mi piace per niente la piega che stanno prendendo le vicende politico-ecclesiastiche italiane.

Prima, il ventilato incontro fra Berlusconi e il Papa a Viterbo, successivamente smentito (ma era abbastanza evidente che si trattava di un rifiuto); poi le polemiche fra la Lega e Mons. Vegliò; ieri l’attacco di Feltri a Boffo (apertamente presentato come ritorsione alle critiche di Avvenire al Presidente del Consiglio); quindi l’annullamento della cena di Bertone e Berlusconi all’Aquila (l’evidente pariglia ecclesiastica al colpo basso del Giornale).

Certamente qualcuno in questo momento gongolerà: finalmente vede realizzarsi i sogni di rottura fra il Presidente del Consiglio e la sua maggioranza da una parte e la Santa Sede e la Chiesa italiana dall’altra. Io, personalmente, in tutta questa vicenda non ci trovo nulla di buono: non vedo a chi possa giovare e non vedo che cosa ci si guadagni. Pensate che ci guadagni qualcosa Berlusconi? È ovvio che il Presidente del Consiglio, che è un uomo astuto, sta giocando tutte le sue carte; ma non credo che alla fine abbia nulla da guadagnare, alienandosi le simpatie di buona parte del suo elettorato. Ci guadagna qualcosa la Chiesa, in termini di profezia, testimonianza e libertà (come vorrebbe Don Farinella)? Il caso Boffo dimostra dove si può arrivare, una volta imboccata la strada del moralismo.

Ieri ho letto l’articolo di Vito Mancuso sulla Repubblica, e confesso che mi ha fatto riflettere, soprattutto per aver tirato in ballo la testimonianza di Giovanni Battista, di cui oggi ricordiamo il martirio. Lí per lí mi sono detto: però è vero, Giovanni non ha avuto paura di denunciare i comportamenti immorali di Erode (si trattava della sua vita privata, non di reati pubblici), e per questo ha subito il martirio. Poi però ho pensato: sí, l’atteggiamento del Battista è ammirevole; ma Gesú (il quale, essendo galileo, avrebbe avuto un titolo in piú rispetto a Giovanni, che era giudeo, per accusare Erode, tetrarca della Galilea) non seguí quella strada; anzi, a chi gli chiedeva di condannare l’adultera rispose: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (Gv 8:7). Ora, fino a prova contraria, noi siamo discepoli di Gesú, e non di Giovanni Battista.

Raffaella in questi giorni si è rallegrata, prima, per la smentita dell’incontro fra il Papa e Berlusconi a Viterbo, poi per l’annullamento della cena all’Aquila, invitando gli ecclesiastici a stare alla larga dai politici e a imitare il Papa. Solitamente mi trovo d’accordo con i commenti di Raffaella, ma in questo caso mi permetto di dissentire. Convengo che il Santo Padre ci sta dando una splendida testimonianza; ma sono altrettanto convinto che non è possibile — e non è necessario — che tutti seguano il suo esempio: non tutti possono e devono essere aquile che volano alto; ci sono, e devono esserci, anche le galline che rimangono nel pollaio. Voglio dire, il Papa fa il suo mestiere (e lo sta facendo benissimo); ma non tutti sono il Papa; nella Chiesa c’è bisogno anche dei Cardinali e dei Monsignori che intrattengano i rapporti di buon vicinato con gli uomini di mondo, magari andando a cena con loro (del resto anche Gesú non disdegnava le cene con i peccatori...). Sinceramente, io in quella cena non ci vedevo niente di male; anzi, avrebbe potuto essere un’occasione per una chiacchierata a quattr’occhi, che avrebbe sistemato molte cose. E invece... ecco il risultato!

Capisco che ai cattolici duri e puri alla Don Farinella il mio discorso potrà apparire semplicemente scandaloso; io sarò ancora della vecchia scuola andreottiana, dove allo scontro si preferiva il compromesso. Che volete farci? Ma a me, ripeto, questa storia non piace affatto; e se non si troverà un modo di ricomporla (confido sulle inesauribili doti di mediazione di Gianni Letta), andrà a finir male per entrambe le parti.

venerdì 28 agosto 2009

Ancora sulla lettera a Mons. Fellay

Lo so che non è buona educazione parlare di sé; lo so che, soprattutto nella Chiesa d’oggi, c’è il rischio della “autoreferenzialità”; ma permettetemi di tornare ancora una volta sulla lettera aperta che ho scritto un mese fa a Mons. Fellay. Dirò con San Paolo: «Perdonatemi questa ingiustizia!» (2 Cor 12:13).

A distanza di un mese, quella lettera continua a far discutere. Dopo il mio post del 1° agosto, dove riferivo della sua diffusione in Italia e delle sue traduzioni in francese e in portoghese, si sono aggiunte la traduzione in spagnolo (fatta da La Buhardilla de Jéronimo, ripresa da InfoCatólica, Radio Cristiandad, Hablando ya!!!, The Wanderer e segnalata da Una Voce Cordoba), quella in inglese (pubblicata in Benedetto XVI Forum) e quella... vietnamita (pubblicata su Hoi Dong Giam Muc Viet Nam e Thanh Nhac Ngay Nay).

Ieri è stata la volta del sito spagnolo Sector Católico, con un bel commento del direttore Juan Miguel Comas (che però non è piú possibile leggere, perché non rimane in rete il giorno successivo alla pubblicazione).

A questo punto, posso affermare tranquillamente che la lettera è stata letta da migliaia di persone in ogni parte del mondo. E posso anche dire che essa è giunta, sicuramente, a destinazione. Se era casuale l’intervista rilasciata da Mons. Fellay all’agenzia APCom, meno casuale mi sembra la (ri)pubblicazione, negli stessi giorni, sul sito del Distretto Francese della FSSPX (La Porte Latine), delle interviste ai Vescovi Alfonso de Gallareta e Tissier de Mallerais (riprese in Italia dal sito Una Vox).

Ancora una volta, ringraziamo il Signore. Siccome però non bisogna prendersi troppo sul serio, lasciate che riporti qualche perla dei commenti critici raccolti qua e là sui diversi siti:

«E questo p. Giovanni Scalese da dove salta fuori?»

«Mi ricorda una professione molto in voga fino a pochi anni fa, quella delle “comari”! Erano delle donne con buona favella che “elargivano” consigli a chiunque senza (a dir loro) nessuna pretesa, solo per la buona riuscita del... matrimonio o contratto di lavoro o compravendita di terreni, ecc. In genere venivano pagate da una delle parti per “addolcire” l’altra parte o per far conoscere cose... segrete che nessuno sapeva!»

«Ecco vede p. Scalese, come giustamente suggeriscono Uriel e Areki, lei farebbe bene anzi meglio se aderisse alla crociata dei 12.000.000 di S. Rosario!!! Non si perda in inutili appelli a chi certo ne sa piú e meglio di lei!!! Se lei tornasse a pregare come dovrebbe fare un santo sacerdote gioverebbe di piú alla Fede Tradizionalista ultimo baluardo di Santa Romana Chiesa!!! renderebbe un servizio alla Chiesa, ai fedeli e a NSGC, lasci stare internet, giornali e media vari, torni a fare il “prete”!!! La FSSPX non ha bisogno dei sui appelli ma delle preghiere di tutti!!! Chiaro!!!
PS: Si faccia un bell’esame di coscienza».

giovedì 27 agosto 2009

Don Villa e Paolo VI

Un caro lettore mi ha inviato un testo del sacerdote Don Luigi Villa a proposito di Paolo VI. Conoscendo la mia ammirazione per quel Papa, mi chiede un commento. Siccome non sono riuscito a rinvenire tale testo su internet, mi trovo costretto a riportarlo qui per intero, in modo che i lettori se ne facciano un’idea:


[1] Il 20 marzo 1965, Paolo VI ricevette in udienza un gruppo di dirigenti del “Rotary Club”, durante la quale disse che la forma associativa di quel gruppo para-massonico “era buona” e che “buono era il metodo” e, quindi, erano “buoni anche gli scopi”, come se non si sapesse che questa organizzazione era di origine massonica.

[2] Col Motu proprio “Apostolica sollicitudo”, il 15 settembre 1965, Paolo VI istituisce il “Sinodo dei Vescovi”, un organismo che era mai esistito nella Chiesa, ma che ora veniva istituito per abolire il Primato del Papa, rendendolo solo d’onore, in una confederazione di Chiese autonome.

[3] Il 4 ottobre 1965, Paolo VI parlò all’ONU, pur sapendo che esso è una istituzione massonica, come pure tutte le altre associazioni collegate con essa. Disse: “Signori, voi avete compiuto un’opera grande; voi insegnate agli uomini la pace. L’ONU è la grande scuola dove si riceve questa educazione”... Per Paolo VI, quindi, l’ONU è l’organismo che ci darà la pace attraverso l’umanesimo massonico!

[4] II 7 agosto 1965, Paolo VI, assieme al Patriarca scismatico Athenagoras, si tolsero, reciprocamente, le scomuniche (ancora valide!) che, nel 1054, S. Leone IX aveva emanate. Così, Paolo VI ammetteva la falsa dottrina delle “Chiese sorelle” (Cattolica e Ortodossa), nonostante sapesse che Gesù Cristo aveva fondato una sola Chiesa, senza dare possibilità di potersi dividere in parti. Forse, ignorava che già Pio XI, nella sua “Mortalium animos”, l’avesse condannata come “stoltezza” e, quindi, contraria alla Fede.

[5] Il 23 marzo 1966 Nella Basilica romana di “S. Paolo fuori le Mura”, fece benedire i fedeli (Cardinali e Vescovi compresi!) dall’eretico e scismatico “arcivescovo” (laico!) dott. Ramsey; nonostante fosse un insulto al Papa Leone XIII che, con la Bolla “Apostolicae curae” del 13 settembre 1896, aveva dichiarate invalide quelle ordinazioni anglicane.

[6] Il 14 giugno 1966, Paolo VI abolì l’Indice dei libri proibiti, con la “Notificazione” «Post Litteras apostolicas».

[7] Col Motu Proprio “Sacrum diaconatus ordinem”, stabilì che “possono essere chiamati al diaconato uomini di età matura, sia celibi che congiunti in matrimonio”. Fu un abile gesto papale per una desiderata futura Ordinazione Sacerdotale di uomini sposati.

[8] Il 3 aprile 1969 con la Costituzione “Missale Romanum” e poi con il “Novus Ordo Missae” Paolo VI sostituì l’antico Rito Romano della Santa Messa con una “nuova Messa” — quella d’oggi! — dove sopprime, o attenua, le espressioni e i gesti che esprimevano i dogmi, rifiutati dai protestanti.

[9] Col Motu proprio “Matrimonia mixta” tolse al coniuge non cattolico la solenne promessa di lasciar battezzare ed educare i figli nella Chiesa cattolica; il parroco dovrà solo essere “informato” dei nuovi impegni, assunti dalla parte cattolica. Fu una normativa che passò nel Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 1125). C’è solo da domandarsi, però, quanti di questi matrimoni siano veramente validi!

[10] Il 22 novembre 1970 con il Motu Proprio “Ingravescentem aetatem”, Paolo VI proibisce ai cardinali ultraottantenni di partecipare al Conclave; una mossa politica, questa, per poter eliminare dalle Diocesi, dalle Curie, dal Conclave, gli elementi ancora “tradizionali”, che ostacolavano l’inizio e lo sviluppo della “nuova Chiesa Conciliare” del Vaticano II.

[11] Nel 1969 Paolo Vl, con l’Istruzione “Fidei custos” autorizzava i laici a distribuire la Santa Comunione, col pretesto delle nuove “particolari circostanze o nuove necessità”. Fu un altro empio gesto ecumenico, contro il compito che Gesù aveva riservato agli Apostoli e al Clero!

[12] Con l’Istruzione “Memoriale Domini”, mentre, prima, si ribadiva l’opposizione della Chiesa di distribuire l’Eucarestia sulla mano, per il “pericolo di profanare le specie eucaristiche”, e per “il riverente rispetto dei fedeli verso l’Eucarestia”, poche righe dopo, autorizzava le Conferenze episcopali, in quelle Nazioni in cui la distribuzione sulla mano era già stata abusivamente e illegalmente introdotta, a deliberare loro, con voto segreto, sulla sua ammissibilità. Fu, invece, un altro gesto “sacrilego” che divenne, poi, quotidiano, con la permissione che diede a tutti i “Vescovi conciliari”!

[13] Approvando il nuovo “Rito delle Esequie”, Paolo VI concesse le esequie anche a coloro che avessero scelto la “cremazione del loro cadavere”, sia pure con la condizione che “la loro scelta non risultasse dettata da motivazione contraria alla dottrina cristiana”. Questo nuovo rito, contrario a tutta la Tradizione Apostolica , e regolato nel vecchio Codice dal can. 1203 §§ 1 e 2, era stato imposto dalle Logge massoniche; “in tal modo, il cammino della riconciliazione” (!!!) con la massoneria veniva facilitato e costituiva una ennesima correzione graduale della fede!

[14] L’abolizione dell’Indice” (giugno 1966), affidando alla libera responsabilità delle “cristiano adulto” (!!!) la decisione delle sue letture, ha portato nella Chiesa ogni eresia!

[15] La sua fu una vera inversione della battaglia di S. Pio X contro il Modernismo.

[16] Il filo-comunismo di Paolo VI portò alla vittoria del comunismo in Italia, con Pertini come Presidente, con Argan a sindaco di Roma.

[17] Indicativa è la sua visita all’ONU e la sua visita alla “Meditation Room” l’altare del “dio” senza volto, nel “Tempio della Compressione”.

[18] Si pensi alla donazione dell’Anello e della Croce pettorale al massone segretario generale dell’ONU. I due gioielli contenevano 404 diamanti, 140 smeraldi e 20 rubini. Il valore stimato era sui 100.000 dollari. Si pensi anche alla deposizione della Tiara. Questi due fatti meriterebbero ben tristi riflessioni!...

[19] Nella sua “Populorum Progressio”, si scagliò contro il sistema capitalistico, ma non si dice che Paolo VI, nel frattempo, con Sindona, faceva investimenti del Vaticano nel mondo industriale, a livello mondiale.

[20] Paolo VI firmò un editto nel quale si diceva che durante la comunione nelle due specie, chi voleva, poteva usare una cannuccia per il Sangue di Cristo!

[21] Si rifletta sul fatto della bara di Paolo VI che non aveva alcun simbolo cristiano!...

[22] Con Paolo VI, la Chiesa non doveva più accentrare le sue forze sull’evangelizzazione per guadagnare le anime a Cristo e condurle alla vita eterna, ma tutti i suoi sforzi dovevano, invece, essere impiegati alla promozione di un “umanesimo pieno”, e per questo non solo ingaggiarsi socialmente, ma porsi all’avanguardia di quella azione sociale! La sua enciclica “Populorum Progressio”, infatti, non è che un inno a questa mentalità pagana che Lui voleva inculcare alla sua Chiesa!

(Fonte: Chiesa Viva, aprile 2009, pp. 3-5)



Sapevo dell’esistenza di Don Villa, sapevo che era un tradizionalista; ma non avevo mai letto nulla di lui. Beh, devo dire che, dopo aver letto questa pagina, mi basta e mi avanza. Per principio, sono portato a dar credito a chiunque; anche quando non le condivido, cerco di prendere sul serio le opinioni altrui; in qualsiasi cosa leggo mi sforzo di cercare qualcosa di utile, per arricchire o correggere le mie convinzioni, o anche solo per metterle alla prova con argomentazioni di segno opposto. Scusate, ma in questo caso proprio non ci riesco. Nel sito della rivista da cui tale documento è ripreso (Chiesa viva) Don Villa è presentato come “dottore in teologia”; io devo accontentarmi di essere solo “licenziato” in quella disciplina, ma sinceramente mi aspetterei da un teologo ben diverse argomentazioni. Io non escludo che Paolo Vi possa essere criticato (io stesso quante volte l’ho fatto prima e dopo la sua morte...), ma le obiezioni devono essere serie. In questa lunga lista non ne trovo una che sia tale. Pertanto, non vale la pena perdere tempo a rispondere a ciascuno dei punti elencati.

Da parte mia, mi limiterò a compilare un altro elenco (molto piú breve di quello di Don Villa), quello delle cose che Don Villa ha dimenticato (chiedo venia se ripeterò alcuni punti già toccati in precedenti interventi).


1. Paolo VI viene eletto durante il Concilio Vaticano II; decide di continuarlo, dando ad esso una svolta ecclesiologica. Allega alla Costituzione dogmatica Lumen gentium una “Nota praevia” sulla corretta interpretazione del concetto di collegialità. Avoca a sé alcune questioni scottanti quali il celibato sacerdotale e la contraccezione. Al termine della III sessione del Concilio (21 novembre 1964) proclama Maria “Madre della Chiesa”. Porta quindi a termine il Concilio raccogliendo l’unanimità dei consensi dei Padri su tutti i documenti emanati.

2. Il 3 settembre 1965, a Concilio ancora aperto, pubblica l’enciclica Misterium fidei sulla dottrina e il culto della SS. Eucaristia, nella quale riafferma l’insegnamento tradizionale della Chiesa a proposito della “transustanziazione”, contro le nuove proposte di “transignificazione” e “transfinalizzazione”.

3. Il 1° gennaio 1967 pubblica la Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina, in cui conferma la dottrina cattolica sulle indulgenze.

4. Il 24 giugno 1967 pubblica l’enciclica Sacerdotalis caelibatus, con cui ribadisce la tradizionale disciplina sul celibato dei sacerdoti nella Chiesa latina.

5. Al termine dell’Anno della fede (30 giugno 1968) pronuncia una solenne professione di fede (il “Credo del popolo di Dio”).

6. Il 25 luglio 1968 pubblica l’enciclica Humanae vitae, con cui riafferma la dottrina tradizionale della Chiesa a proposito della contraccezione.

7. Il 10 giugno 1969 si presenta al Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra dicendo: “Il Nostro nome è Pietro”.

8. L’8 dicembre 1975 pubblica l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, con cui ribadisce il dovere della Chiesa di annunziare il Vangelo.


Queste, insieme a tante altre, sono le cose che contano nel pontificato di Paolo VI. Il resto — permettetemi — è spazzatura. Che Paolo VI fosse massone o comunista è semplicemente ridicolo (vi pare che un massone-comunista faccia le cose che ho appena elencato?): sono accuse che non vanno neppure prese in considerazione (per avere un saggio delle “prove” che dimostrerebbero che Paolo VI fosse massone, lascio ai lettori che ne abbiano il coraggio e la pazienza di andarsi a leggere questa pagina nel sito di Chiesa viva;io mi rifiuto di riferirle).

Per concludere vorrei rammentare a Don Villa e a tutti coloro che, per difendere la tradizione e, in particolare, il primato pontificio, non riconoscono l’autorità dei legittimi Pontefici, quanto si legge nella bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII: “Subesse Romano Pontifici omni humanæ creaturæ declaramus, dicimus, diffinimus et pronunciamus omnino esse de necessitate salutis” (DS 875). Loro che si stracciano le vesti per il disordine che regna nella Chiesa attuale, non si rendono conto di essere fra i primi fomentatori di quel disordine; loro che lamentano una crisi di fede, non si rendono conto di essere i primi a mettere in crisi la fede; loro che denunciano il soggettivismo imperante, non si rendono conto di aver creato una fede a proprio uso e consumo; loro che dicono di difendere la tradizione, non si rendono conto di aver trasformato la tradizione in una ideologia. Spero che almeno la definizione dogmatica dell’Unam Sanctam li aiuti a riflettere e rinsavire; spero che almeno si rendano conto che stanno mettendo seriamente a rischio la salvezza della loro anima.

mercoledì 26 agosto 2009

Giustizia e misericordia di Dio

Un fedele lettore, Stefano Costa, mi ha scritto sottoponendomi una questione di non poco conto:


«Le scrivo per esporle un dubbio, che mi assilla ormai da tempo, riguardo alla giustizia divina (e qui traggo spunto dal suo post del 5 agosto 2009, circa “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”): davvero Dio “vendica” i peccati degli uomini castigando i peccatori, nel tempo e/o nell’eternità?

Io sono convinto di sí: anzi, a quanto ne so io, che Dio, giusto remuneratore, premi i buoni e punisca i malvagi dovrebbe essere verità di fede... Eppure, spesso mi sono sentito dire, anche da sacerdoti di cui ho grande stima, cose come queste:

“Dio non punisce il peccato con una qualche pena temporale o eterna. Dio è la bontà stessa: come potrebbe infliggere delle pene all’uomo peccatore? No, è l’uomo stesso che si punisce, subendo le conseguenze dei suoi errori, e l’inferno — se mai qualcuno vi si trova — l’inferno non è altro che l’esclusione, l’autoesclusione dall’amore divino. Dunque l’inferno non è una punizione inflitta da Dio. Dio non punisce”.

Insomma, non è Dio che punisce e manda all’Inferno, ma siamo noi ad auto-punirci e ad auto-relegarci all’Inferno. Beninteso, sono d’accordo con l’affermazione che il peccato danneggia il peccatore, ma non penso che i castighi divini si riducano a questo. Trovo che questa dottrina sia in contraddizione con innumerevoli passi della Scrittura (ad es. 2 Sam 12, 13-15; il diluvio universale; Sodoma e Gomorra; le piaghe d’Egitto; l’episodio di Anania e Saffira negli Atti, ecc...); che dire poi delle fiamme dell’Inferno? Anche quelle sono auto-inflitte?

Infine, riporto un paio di testi sulla questione.

I. Il primo è tratto dalla “Somma di Teologia Dogmatica” di padre Casali:

“TESI: Dio è infinitamente giusto.

È DI FEDE

La Tesi è contro Hermes che nega a Dio il diritto di dare pene vendicative.

SPIEGAZIONE. Giustizia, in senso stretto significa dare a ciascuno il suo. Con questo significato si chiama giustizia commutativa. È logico che la giustizia commutativa non è applicabile a Dio, poiché è Lui che dà tutto e non è debitore a nessuno. La giustizia che la Rivelazione attribuisce a Dio è la giustizia distributiva, che è quella con cui il capo di una comunità distribuisce uffici e doveri, premi e pene. In Dio c’è questa giustizia, sia nel dare una ricompensa (giustizia rimunerativa), sia nel dare castighi (giustizia vendicativa)”.

II. Il secondo è tratto dalla costituzione apostolica “Indulgentiarum doctrina” di S. S. Paolo VI, pontefice a lei tanto caro:

“2. È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite [faccio notare che nella traduzione pubblicata sul sito della Santa Sede c’è un evidente errore: non si tratta di pene “infinite”, ma “inflitte”; N.d.R.] dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Cosí come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.

3. È necessario, allora, per la piena remissione e riparazione dei peccati non solo che l’amicizia di Dio venga ristabilita con una sincera conversione della mente e che sia riparata l’offesa arrecata alla sua sapienza e bontà, ma anche che tutti i beni sia personali che sociali o dello stesso ordine universale, diminuiti o distrutti dal peccato, siano pienamente reintegrati o con la volontaria riparazione che non sarà senza pena o con l’accettazione delle pene stabilite dalla giusta e santissima sapienza di Dio, attraverso le quali risplendano in tutto il mondo la santità e lo splendore della sua gloria. Inoltre l’esistenza e la gravità delle pene fanno comprendere l’insipienza e la malizia del peccato e le sue cattive conseguenze”.

Mi sembra che la dottrina contenuta in questi testi e le affermazioni che ho riportato sopra siano inconciliabili: mi sbaglio? Mi sta sfuggendo qualcosa?».


Egregio Signor Costa, la spiegazione dataLe dai sacerdoti, a parte l’inciso (che riprende l’idea attribuita a Hans Urs von Balthassar, secondo cui l’inferno esiste, ma si spera che sia vuoto), non è una loro personale trovata, ma è l’attuale insegnamento ufficiale della Chiesa. Se prendiamo infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica vi troviamo scritto esattamente quanto ripetuto piú o meno fedelmente da molti di noi sacerdoti:

«Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).

Ritroviamo lo stesso insegnamento nel Compendio del medesimo Catechismo:

«Come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita bontà di Dio?
Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3:9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto, è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213).

Come si concilia tale insegnamento con gli esempi biblici e i testi da Lei riportati? Beh, penso che ci sia una importante distinzione da fare: sia i castighi narrati nella Scrittura sia la citazione di Paolo VI (il testo di Padre Casali ha un carattere piú generale) si riferiscono a “pene temporali”; mentre, quando parliamo di “inferno”, ci stiamo riferendo alla “pena eterna”. Penso che sia evidente a tutti la differenza: non possiamo mettere sullo stesso piano una punizione temporanea e un castigo eterno.

Ciò che fa problema alla nostra mentalità, e a cui il Catechismo cerca di dare una spiegazione, è come conciliare l’inferno con l’infinita bontà di Dio. Le pene temporali non pongono lo stesso problema, perché possono essere facilmente spiegate in altro modo. Per esempio, gli esegeti ci insegnano che i castighi di cui parla la Bibbia vanno considerati come un’espressione della pedagogia di Dio nei confronti del suo popolo. Anche i genitori, quando dànno punizioni, non lo fanno in applicazione della “giustizia vendicativa”, ma semplicemente per educare i loro figli. Lei capisce bene che tale ragionamento non si può applicare all’inferno.

Mi sembra che Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, esponga in maniera molto esauriente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in proposito. Purtroppo, ho l’impressione che tale insegnamento non sia stato ripreso con la stessa completezza dal Catechismo:

«Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa [= le indulgenze] bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiú, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensí come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, cosí che non sussista piú alcuna pena» (n. 1472).

«Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo”» (n. 1473).

Come si vede, nessun riferimento alla giustizia e alla necessità di reintegrare l’ordine perturbato dal peccato. Mi sembra invece piú equilibrata la descrizione, che il Catechismo fa, delle pene inflitte dalla legittima autorità pubblica (e che, secondo me, si potrebbe applicare, mutatis mutandis, anche alle pene inflitte da Dio):

«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole» (n. 2266).

Come si spiega tale incertezza? Beh, penso che dobbiamo ammettere che, pur rimanendo identica la dottrina, sia possibile, nel corso dei secoli, che la Chiesa affronti gli stessi problemi da diversi punti di vista, e sottolinei ora un aspetto ora un altro, secondo i bisogni del tempo in cui si trova a vivere.

Che l’approccio odierno della teologia sia diverso da quello di un tempo, appare evidente. Basta confrontare il testo di Padre Casali, che risente di un certo modo di fare teologia (basato soprattutto sul ragionamento filosofico), con il Catechismo, che preferisce invece partire dalla Scrittura. Quando, per esempio, nella Bibbia si parla di “giustizia di Dio”, non ci si riferisce a nessuna delle forme della giustizia elencate dalla filosofia scolastica (commutativa, distributiva, remunerativa, vendicativa), ma alla sua “giustizia salvifica”. Il Concilio di Trento direbbe: «justitia, non qua Deus justus est, sed qua nos justos facit», vale a dire non la giustizia per cui Dio è giusto in sé stesso, ma quella per cui egli ci rende giusti (= ci giustifica, ci salva). Praticamente, tale giustizia di Dio, si identifica con la sua misericordia (ciò non esclude però che Dio sia infinitamente giusto anche nel senso come noi intendiamo comunemente la giustizia).

Che poi ogni tempo abbia la sua sensibilità, non può essere negato. Nel passato si preferiva presentare Dio come un giusto giudice, oggi si preferisce descriverlo come padre misericordioso. Non si tratta di una contraddizione, ma semplicemente di una diversa accentuazione, di un diverso punto di vista; i due aspetti sono entrambi veri; se si vuole, complementari. Spesso si dimentica che in Dio tutti gli attributi si identificano: in lui non può esserci contraddizione fra la giustizia e la misericordia (cosa che ben compresero i santi, come per esempio Santa Teresa, secondo la quale Dio non sarebbe davvero giusto, se non fosse misericordioso). Se è vero che in Dio (quoad se) non può esistere contraddizione e in lui tutti gli attributi si identificano, è altrettanto vero che da parte nostra (quoad nos) è bene continuare a distinguere, perché non possiamo comprendere con un unico atto mentale l’infinita giustizia e l’infinita misericordia di Dio. Per cui è opportuno affiancare sempre, come fa Paolo VI, giustizia e misericordia, e ricordare, oltre all’amore infinito di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2:4), anche la sua giustizia, che tende a reintegrare l’ordine universale perturbato dal peccato.

Rimane però il fatto, innegabile, che oggi si preferisce parlare di misericordia, piuttosto che di giustizia: non sarà un “segno dei tempi”? non sarà che, forse, oggi il mondo ha bisogno soprattutto di misericordia? Al tempo del giansenismo, che tanto insisteva sulla trascendenza divina e sull’abisso che separa Dio dall’uomo, incapace di avvicinarsi a lui, si diffuse nella Chiesa la devozione al sacratissimo Cuore di Gesú. Ai nostri giorni Santa Faustina ha promosso la devozione alla Divina Misericordia e Giovanni Paolo II se ne è fatto apostolo (sono convinto che Papa Wojtyla verrà ricordato nella storia non per lo “spirito di Assisi”, ma per questo, che considero il suo maggior merito: aver dischiuso all’umanità il mistero della Divina Misericordia). Non credo che si tratti di un caso. Evidentemente è proprio questo ciò di cui oggi il mondo ha piú bisogno: non tanto di temere un Dio giusto, ma confidare in un Dio misericordioso. E confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.

lunedì 24 agosto 2009

Liturgia e architettura

Lycopodium mi ha segnalato una sua lettera, inviata lo scorso anno al blog Labre, a proposito dell’altare versus populum. La trovo assai interessante, soprattutto per quanto riguarda i correttivi che vi vengono proposti:


«È forse venuto il momento propizio di necessari radicali correttivi (nella mentalità e nelle realizzazioni), che la tradizione — non tanto e non solo “tridentina” — conosce bene: tanto per iniziare, l’intima connessione con il Crocifisso (iconostasi latina, la definiva Ratzinger teologo), il rilancio del presbiterio e delle soglie di accesso… e, infine, il ritrovamento del ciborio/baldacchino e del suo simbolismo (l’effusione dello Spirito).

La presenza del ciborio/baldacchino consentirebbe di integrare le diverse visioni celebrative (anche di chi vorrebbe che, durante il canone, tutti pregassero con lo sguardo “rivolto verso l’alto”): dal ciborio il CROCIFISSO dovrebbe “discendere”, così sarebbe sospeso sopra l’altare, ma non direttamente a contatto, a modo di suppellettile».


Nel suo messaggio poi Lycopodium mi informa della posizione del liturgista-architetto Crispino Valenziano, il quale, nel suo volume Architetti di chiese, sarebbe fautore di “una innovativa articolazione dei poli celebrativi, incentrata su una distinzione tra luogo del sacrificio (santuario) e luogo della parola e della presidenza (aula)”.

Mi sembrano proposte di tutto rispetto, degne della massima attenzione, che non si riducono a un semplice “cancelliamo-tutto-ciò-che-è-avvenuto-dopo-il-Concilio-e-torniamo-a-celebrare-come-si-faceva-una-volta”, ma un tentativo di correggere gli innegabili errori e abusi che sono stati commessi in questi anni, e allo stesso tempo proseguire il cammino ricollegandosi a una tradizione piú antica di quella immediatamente precedente al Concilio.

I correttivi proposti, a me che sono romano, non appaiono affatto delle novità, ma semplicemente come la riscoperta di ciò che è comune nella basiliche romane. Per favore, non si lanci subito l’accusa di “archeologismo”, perché tali basiliche non sono dei ruderi, né dei musei, ma delle chiese pienamente funzionanti, nelle quali è sempre stata celebrata e si continua a celebrare la liturgia, e costituiscono una preziosa testimonianza della tradizione romana (visto che si sta parlando di rito romano, non trovo nulla di strano che esso possa recuperare elementi che gli sono propri).

Ho avuto sempre l’impressione che molte obiezioni mosse alla riforma liturgica (e alla disposizione delle chiese che ne è conseguita) provenga dal fatto che si ha in mente solo il modello della chiesa barocca, la quale naturalmente riflette il momento storico in cui essa è stata edificata (la Controriforma cattolica) con il suo rito liturgico (il Messale di San Pio V). Ma non si può ridurre la tradizione cattolica agli ultimi cinque secoli.

Ebbene, se guardiamo alle basiliche romane, ci accorgeremo che la riforma liturgica si è ispirata ampiamente a esse. Per esempio, non ho mai capito le obiezioni contro l’altare versus populum, quando nelle basiliche romane è sempre stato cosí (non si dica che vi si poteva celebrare da entrambe i lati, perché in certi casi ciò è semplicemente impossibile: vedasi San Paolo fuori le Mura o Santa Maria in Trastevere). Non ho mai capito le obiezioni contro la centralità della sede presidenziale, quando questa, nelle basiliche romane, è posta sempre in fondo all’abside (semmai si potrebbe discutere sull'uso invalso di porre la sede davanti all'altare...). Non ho mai capito le obiezioni contro lo spostamento della custodia eucaristica dall’altare maggiore a una cappella laterale, quando questa è sempre stata la norma nelle basiliche romane (si badi bene che anche le basiliche maggiori, che furono riedificate o rimaneggiate in epoca, diciamo cosí, “tridentina”, conservarono sempre l’antica struttura).

Per cui le proposte di Lycopodium e di Mons. Valenziano mi trovano molto favorevole (anche se naturalmente si può discutere sui particolari). Interessante l’idea di distinguere il luogo del sacrificio da quello della parola (si pensi, per esempio, a Santa Sabina o a Santa Maria in Cosmedin). Interessante pure la proposta di recuperare il baldacchino con la croce che scende dall’alto. Se avete letto l’articolo di Padre Falsini su Vita Pastorale dell’ottobre 2006, vi si faceva riferimento a una simile proposta emersa durante il convegno di Bose del giugno 2006. Padre Falsini commentava: “È un suggerimento conciliante e conclusivo del citato convegno di Bose, che merita rispetto ma non convince”. E invece mi pare che si tratti di una proposta da prendere in seria considerazione. Io stesso, come ho detto in altra occasione (post dell'11 marzo 2009), sono contrario alla croce-suppellettile, ma sono ben favorevole alla croce sospesa sull’altare, che potrebbe realmente costituire, insieme con l’altare, il punto di attrazione dello sguardo di tutti i presenti.

domenica 23 agosto 2009

XXI domenica "per annum"

«Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».

Questa la reazione dei discepoli (si noti, dei discepoli; non dei Giudei) all’insegnamento di Gesú: un insegnamento “duro”, incomprensibile, inaccettabile. E Gesú, anziché affrettarsi a spiegare il significato delle sue parole, a renderle piú dolci e accessibili, si limita a dire:

«Le parole che io vi ho detto sono Spirito e sono vita».

Quelle stesse parole, che appaiono “dure” all’orecchio umano, sono in realtà “Spirito” e “vita”. Saranno pur “dure” ad ascoltarsi, ma non sono parole vuote: esse hanno un contenuto, che non è solo un contenuto intellettuale (la comunicazione di un pensiero), ma un contenuto vitale. Esse sono parole efficaci: realizzano ciò che dicono, perché contengono in sé una potenza misteriosa — lo Spirito — capace di creare dal nulla tutte le cose. Gesú inoltre ci rammenta che «è lo Spirito che dà la vita»; pertanto quelle parole, che contengono lo Spirito, comunicano la vita.

Ma tutto ciò è possibile solo per coloro che credono: solo con la fede possiamo scoprire lo Spirito e la vita in parole che, altrimenti, rimarrebbero semplicemente “dure”. Esempio di persona che crede è Pietro, il quale avrà pure sperimentato, come gli altri discepoli, la durezza dell’insegnamento di Gesú; ma, allo stesso tempo, fu capace di percepire il mistero che si nascondeva in quelle parole:

«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna».

sabato 22 agosto 2009

Riforma della riforma

È di ieri lo scoop del Giornale e di Libero, che hanno pubblicato la lettera che il Card. Joseph Ratzinger aveva inviato, il 23 giugno 2003, al Dott. Heinz-Lothar Barth, esponente del tradizionalismo tedesco.

Va dato atto a Tornielli di essere stato molto preciso nel presentare tale scritto: «Una lettera che ora viene per la prima volta pubblicata in un volume (Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Davanti al Protagonista. Alle radici della liturgia, Edizioni Cantagalli, pagg. 232, euro 15) presentato in anteprima al Meeting di Rimini che inizia domenica, in libreria da settembre».

Non altrettanto preciso il titolo premesso alla pubblicazione del testo: «Inedito di Benedetto XVI “La Messa del futuro? Ecco come deve essere”». Per non parlare dell’articolo di Libero (a firma di Martino Cervo), dove si legge: «Cantagalli manda in stampa due inediti di Joseph Ratzinger ... L’inedito piú interessante e qui pubblicato è la lettera al tradizionalista Heinz-Lothar Barth».

Non si tratta affatto di un inedito: la lettera era piú che nota. Chi ne vuole avere una prova può andarsi a leggere il primo post di questo blog e la troverà citata (verso il termine dell’articolo Concilio e “spirito del Concilio”). Da dove l’avevo ripresa? Dal sito Una Vox, dove era stata pubblicata nel febbraio 2008.

Ma questo “scoop” ci dà l’occasione di riflettere ancora una volta sull’idea dell’allora Card. Ratzinger di una “riforma della riforma”. Mi pare che tale lettera sia un chiaro esempio di quel progetto, che mi trova assolutamente consenziente (anche se non mi nascondo i rischi, giustamente sottolineati dal Padre Augé: anziché avere un solo rito se ne potrebbero avere tre).

Quel che mi fa un po’ piú fatica capire è il modo in cui Benedetto XVI ha deciso di attuare tale progetto. Se posso essere sincero (non si tratta di una critica al Santo Padre, ma solo di una obiezione “accademica”), mi sembra che il m. p. Summorum Pontificum vada nella direzione opposta a quella indicata nella lettera al Dott. Barth. Si dirà: il motu proprio è solo la prima fase del progetto; alla riunificazione del rito romano si potrà giungere solo gradualmente e in tempi certamente lunghi. Sarà; ma io ho paura che in tal modo, anziché andare verso una “riforma della riforma”, si crei nel frattempo solo una gran confusione e si stabilizzino due specie di Chiese parallele. Anche perché sappiamo bene — e Tornielli lo sottolinea nel suo intervento — che i tradizionalisti considerano intoccabile il Vetus Ordo e i progressisti il Novus.

Non sono io il Papa, ma mi chiedo: anziché liberalizzare in maniera indiscriminata l’usus antiquior, non sarebbe stato meglio allargare le possibilità di usufruirne (ma sempre entro limiti ben precisi) e, contemporaneamente incominciare a intervenire sul Novus Ordo, non per abolirlo, ma per migliorarlo? Ripeto, non una critica, ma solo un’ipotesi accademica.

venerdì 21 agosto 2009

"Ad Orientem" o "ad Dominum"?

Ieri Papa Ratzinger blog [2] ha ripubblicato vari interventi di un dibattito intercorso negli anni passati fra Padre Uwe Michael Lang e Padre Rinaldo Falsini.

Tutto era cominciato nel 2003, quando Padre Lang, sacerdote dell’Oratorio di San Filippo Neri a Londra, pubblicò in tedesco il volume Conversi ad Dominum, tradotto l’anno successivo in inglese con una prefazione dell’allora Card. Ratzinger (edizione italiana: Rivolti al Signore, Cantagalli, Siena 2006, 2ª ed. 2008).

Sul numero di ottobre 2006 di Vita Pastorale Padre Falsini pubblicò l’articolo “L’altare verso il popolo è scelta conciliare”. Sulla stessa rivista (gennaio 2007) fu pubblicata una lettera del Padre Lang (“Una scelta imprudente?”) insieme con la replica di Padre Falsini (“Una recezione definitiva e totale”).

Nell’ottobre 2007 Padre Lang rilasciava un’ampia intervista all’agenzia ZENIT dal titolo “Riorientare la Messa”.

Sul numero di marzo-aprile 2008 della Rivista Liturgica, Padre Falsini tornava sull’argomento con l’articolo “Celebrare rivolti al popolo e pregare rivolti al Signore. Sull’orientamento della preghiera”.

Non si può ignorare, a questo riguardo, la notizia di questi giorni che l’Arcivescovo di Tulsa, in Oklahoma, ha deciso di celebrare, nella sua cattedrale, la liturgia eucaristica rivolto ad Orientem (se ne veda qui la notizia e qui la traduzione italiana).

È stata per me una piacevole occasione per aggiornarmi su una questione, della cui esistenza ero al corrente, ma che non avevo mai avuto modo di approfondire. E, per tale motivo, avevo sempre sospeso ogni giudizio in materia, non ritenendomi sufficientemente informato. Non che ora lo sia; ma per lo meno mi sono fatto un’idea. Da quanto detto dovrebbe risultare evidente che non ho letto il libro di Padre Lang Rivolti al Signore; ma pregherei il simpatico di turno di astenersi da facili ironie, come se volessi commentare un libro che non ho letto. Non è mia intenzione fare la recensione di un libro (anche perché un blog non sarebbe il luogo piú idoneo), ma semplicemente esprimere un parere sulla questione dell’orientamento della liturgia, un parere che si fonda sui testi sopra indicati, sull’esperienza pastorale accumulata in questi anni e sulla riflessione personale.

Dopo aver letto gli interventi pubblicati su Vita Pastorale, da lettore assolutamente non prevenuto, ho avuto l’impressione che la posizione di Padre Lang fosse un tantino debole rispetto a quella del Padre Falsini, che mi è apparsa piú documentata (se non altro, per essere stato personalmente coinvolto nella riforma liturgica). Il punto del dibattito era la questione se il Concilio avesse voluto o no la celebrazione versus populum. È vero, come fa notare il Card. Ratzinger nella prefazione al volume del Lang, che il Concilio non ne fa menzione; ma mi sembra che Padre Falsini dimostri sufficientemente che questa era la mens dei Padri conciliari.

È vero che la celebrazione versus populum non è mai stato un obbligo, ma solo una possibilità; ciò non toglie che le norme liturgiche prevedano, come piú adatta alla nuova liturgia, la celebrazione col sacerdote rivolto verso i fedeli. Non mi sembra un argomento stringente quello usato da Padre Lang, secondo cui le rubriche dell’ultima edizione del Messale Romano evidenziano che il sacerdote, in certi momenti deve essere rivolto al popolo, quasi che nel resto della celebrazione dovesse voltargli le spalle: tali rubriche si spiegano appunto perché non è escluso che si possa anche celebrare ad Orientem, per cui in quei momenti il sacerdote deve, in ogni modo, rivolgersi verso i fedeli.

Mi sembra molto significativo il riferimento del Padre Lang alla “prudenza” consigliata dalla Santa Sede, specialmente quando si trattava di adattare le chiese alle nuove norme liturgiche. Non si può negare che ci siano stati degli scempi. Io stesso sono testimone di confratelli che, dopo aver stravolto il presbiterio della loro chiesa, se ne sono amaramente pentiti (non solo per motivi di carattere teologico, ma anche e soprattutto per motivi di buon gusto). Ma, appunto per questo, la Chiesa ha sempre esortato alla cautela, consapevole che non si trattava di una questione di vita o di morte per la liturgia. Gli estremismi (in qualsiasi direzione) sono sempre pericolosi...

Se posso portare una esperienza personale, anche per dimostrare che non si tratta di una questione nuova, posso raccontare quanto avvenne negli anni Ottanta nella Basilica di San Paolo Maggiore a Bologna (una delle più belle chiese barocche della città), dove ero vicario parrocchiale. Nei giorni feriali celebravamo a una cappella laterale (la cappella della Madonna di Lourdes), voltando le spalle ai fedeli, ma senza alcun problema di partecipazione attiva da parte dei fedeli; nei giorni festivi, naturalmente, all’altare maggiore. Subito dopo il Concilio era stato aggiunto un altare posticcio verso il popolo, di nessun valore artistico, mentre l’antico altare in marmo rimaneva inutilizzato sullo sfondo. Fui io stesso a proporre al parroco di provare a rimuovere l’altare posticcio e usare il vecchio altare. Il parroco accettò di buon grado la proposta; trovammo una scusa qualsiasi con i fedeli, e per qualche tempo riprendemmo a celebrare sul vecchio altare. Io stesso mi resi conto che c’era una grossa difficoltà a celebrare la nuova liturgia in quel modo, per cui giungemmo alla conclusione che si doveva trovare una soluzione diversa. E la trovammo nella realizzazione in legno (ma con un certo gusto, riprendendo i motivi artistici del vecchio altare) di un nuovo presbiterio sotto la cupola della chiesa, completamente autonomo dal vecchio presbiterio (che diventava cosí luogo della custodia eucaristica). Una soluzione certo di compromesso, ma decorosa, che cercava di conciliare il rispetto per l’architettura della chiesa con le esigenze della riforma liturgica (ricordo che negli stessi anni anche il Card. Biffi si trovò ad affrontare il medesimo problema in cattedrale, e anche lui lo risolse con una soluzione altrettanto di compromesso e altrettanto decorosa).

Leggendo infine l’intervista che Padre Lang rilasciò a ZENIT nel 2007, mi sono fatto un’idea della sua posizione. Capisco che la questione andrebbe approfondita, per cui le mie considerazioni non vogliono in alcun modo essere definitive. Mi pare però che faccia un po’ di confusione tra conversio ad Dominum e conversio ad Orientem. Padre Lang afferma che per i primi cristiani era comune volgersi verso Oriente (come per gli ebrei lo è volgersi verso Gerusalemme e per i musulmani verso la Mecca). Ripeto, non ho letto il libro, ma dagli accenni che fa nell’intervista, mi pare che tale atteggiamento fosse piú diffuso in Oriente che non a Roma. Certamente può trattarsi di una rispettabile tradizione (e bene fanno i riti orientali a conservarla), ma non mi sembra opportuno assolutizzarla, perché, in tal caso (se assolutizzata), essa non sarebbe conforme al culto in spirito e verità (Gv 4:23-24).

Ammesso e non concesso che i primi cristiani pregassero rivolti a Oriente, non riesco a capire il passaggio logico da questo atteggiamento alla celebrazione con le spalle ai fedeli. Si dice: sacerdote e fedeli, tutti parte della medesima Chiesa, si rivolgono insieme al Signore. Sí, d’accordo; ma questo non c’entra niente col volgersi ad Orientem; è un altro problema. Un conto è rivolgersi a Oriente; un altro conto è assumere durante la liturgia tutti lo stesso orientamento.

Una volta chiarita concettualmente la distinzione fra i due atteggiamenti, mi pare che, anche a proposito dell’orientamento di sacerdote e fedeli durante la liturgia, ci sia qualche considerazione da fare.

Innanzi tutto, vorrei notare che l’espressione “Conversi ad Dominum”, a quanto mi risulta, non appartiene al linguaggio tradizionale. Essa è una ritraduzione in latino di una espressione usata nella traduzione italiana (e forse in qualche altra lingua) della Messa: “In alto i nostri cuori” – “Sono rivolti al Signore” (di qui il titolo italiano del libro). Ma in latino il dialogo è: “Sursum corda” – “Habemus ad Dominum”, dove il concetto di conversio fisica è assente; si tratta di una conversio tutta spirituale, tanto è vero che si sta parlando di cuori e non di corpi. Per cui già questo la dice lunga sulla necessità di assumere tutti lo stesso orientamento fisico.

Ma, in ogni caso, chi ha detto che tale orientamento, anche fisico, di tutti i partecipanti alla Messa (sacerdoti e fedeli) sia assente nella nuova liturgia? Solitamente si sottolinea l’aspetto che, nella liturgia riformata, sacerdote e fedeli “si guardano in faccia”. Se permettete, questa è una banalizzazione che ha lo stesso valore di quella che riduce la vecchia liturgia a “voltare le spalle ai fedeli”. A me sembra che il vero intento della riforma liturgica sia stato quello di rimettere il mistero al centro della celebrazione. Innanzi tutto, con il distacco dell’altare dalla parete (dove molto spesso praticamente scompariva) e il suo posizionamento al centro del presbiterio; in secondo luogo, grazie a questo riposizionamento dell’altare, dando ai fedeli la possibilità di fissare lo sguardo sul mistero che su quell’altare si compie. Il fatto che il sacerdote stia da una parte dell’altare e i fedeli dall’altra non impedisce che tutti siano “rivolti al Signore”, presente in mezzo a loro (prima simbolicamente, attraverso il segno dell’altare; poi sacramentalmente, attraverso l’Eucaristia). Anzi, mi pare che, da un punto di vista cattolico, la nuova liturgia evidenzi meglio il ruolo del sacerdozio ministeriale: tutti sono parte dell’unico popolo di Dio, certo, ma con ruoli distinti. Ciò non toglie che in altri momenti sacerdote e fedeli possano avere tutti lo stesso orientamento; ma non mi sembra che questo sia il caso della Messa, perché dando eccessiva importanza all’orientamento verso un luogo, si rischia di svalutare l’Eucaristia: ebrei e musulmani possono pure avere bisogno di pregare rivolti verso un luogo; noi cristiani non ne abbiamo alcun bisogno, perché dovunque ci troviamo abbiamo l’Eucaristia, che rende presente il Signore in mezzo a noi.

giovedì 20 agosto 2009

Ancora su Ferrara e IRC

Un ex-alunno, David, mi ha scritto a proposito della proposta Ferrara. Vorrei condividere con voi il suo messaggio:


«Confesso che l’idea dello scambio proposto da Ferrara mi fa molta paura: parlo come un cittadino che dai 6 ai 14 anni ha frequentato la scuola pubblica, dai 14 ai 19 la scuola cattolica e dai 19 ai 24 un’università non statale.

Il pericolo è una vera e propria “ispanicizzazione” della società, con una minoranza (magari pure corposa), che è stata formata da Opus Dei, Legionari di Cristo, Gesuiti, Barnabiti ecc., e una grande maggioranza completamente priva di formazione religiosa. L’idea che gli insegnanti di religione giochino ad armi spuntate solo perché non danno voti “pesanti” è contraria allo spirito di questi programmi: ci sono migliaia di docenti di religione che stimolano i loro studenti a una ricerca seria su sé stessi e sulla religione cattolica e certamente non ottengono migliori risultati perché i loro insegnamenti sono accreditati. Il problema non sono i crediti: è un’illusione pensare che gli studenti seguano meglio perché il corso porta profitto. Non scherziamo: potremmo fare un elenco infinito di corsi seguiti poco o male indipendentemente dai crediti!

Mi pare invece che i corsi di religione cattolica abbiano un solo limite: sono al limite della filosofia, come contenuti, mentre in realtà un vero corso di Catholic Studies deve riguardare la storia, la storia dell’arte, l’architettura, le scienze sociali ecc. Come possiamo parlare del cattolicesimo in Italia senza pensare alla sua eccezionale influenza artistica, per esempio? Ogni cattolico dovrebbe alzarsi in piedi col petto pieno di orgoglio perché in fondo i vari Caravaggio e Bernini, Michelangelo e Leonardo, Giotto e Cimabue sono “cosa sua”. La Chiesa non sarà “povera”, come certi sessantottini — ormai grassi e incanutiti — volevano ad ogni costo, ma offre a ognuno dei suoi figli lo spettacolo gratuito delle piú belle architetture barocche e gotiche, dei capolavori d’arte e degli organi piú possenti. E senza pagare il biglietto!»


La lettera su riportata non solo mi riempie di soddisfazione, perché David è stato, appunto, uno degli alunni, a cui ho insegnato religione per svariati anni (allora mi sembrava di perdere tempo; ma, a quanto pare, non è stato tempo sprecato), ma, oltre tutto, mi trova pienamente d’accordo.

Ferrara propone il modello americano, illudendosi che questo possa migliorare la situazione. In realtà, non farebbe che peggiorarla, portando alla polarizzazione ben descritta da David. Forse è per questo motivo che la Chiesa, edotta dalla sua esperienza plurisecolare e sempre con i piedi per terra, in certi casi accetta dei compromessi, che potranno pure lasciare a desiderare, ma che sono sempre meglio di altre soluzioni piú radicali.

È perfettamente vero che il seme gettato da tanti “disarmati” insegnanti di religione è un seme che, alla lunga, dà il suo frutto. Ed è forse proprio per questo motivo che gli anticlericali continuano a combattere l’IRC, nonostante la sua opzionalità: evidentemente si rendono conto della sua “pericolosità”.

Condivido l’osservazione di David circa il limite oggettivo dell’IRC cosí come esso è oggi impostato: lui dice che esso è “al limite della filosofia”. Ciò non è da disprezzare del tutto, in quanto, pur non essendo una forma di catechesi, esso stimola gli studenti alla riflessione sul significato dell’esistenza. Tale aspetto non può essere considerato estraneo alla formazione scolastica; anche altre discipline, quali la filosofia o la letteratura, perseguono la medesima finalità. Il problema è, dal mio punto di vista, la modalità di tale riflessione. Personalmente ritengo che la scuola non possa essere confusa con un centro di esercizi spirituali; essa deve, sí, stimolare i giovani alla riflessione; ma la peculiarità della scuola è di fare questo trasmettendo la cultura. Penso che anche l’insegnamento della religione cattolica non possa sottrarsi a tale legge fondamentale della scuola. Esso dovrebbe, dal mio punto di vista, svolgere un ruolo “ancillare” di supporto alle altre discipline: se si vuole capire la storia, la filosofia, la letteratura, l’arte, in una parola la cultura e la civiltà italiana, non si può prescindere dalla religione cattolica. Non è questione di essere credenti o non-credenti — questo non c’entra nulla — è questione di essere colti o ignoranti. Per questo dicevo, secondo me, la religione cattolica dovrebbe essere un insegnamento non-confessionale obbligatorio per tutti.

mercoledì 19 agosto 2009

IRC ed ecumenismo

Ho dato un’occhiata alla sentenza del TAR del Lazio su “Insegnamento della religione cattolica ed attribuzione dei crediti formativi” (17 luglio 2009). Si tratta della risposta del tribunale amministrativo a due ricorsi (4297/2007 e 5712/2008) presentati da vari enti e associazioni contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana.

Non meraviglia rinvenire, fra le associazioni ricorrenti, la Consulta romana per la laicità delle istituzioni, l’Associazione XXXI ottobre per una scuola laica e pluralista, l’Associazione nazionale del libero pensiero Giordano Bruno, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, ecc. E neppure meraviglia piú di tanto trovare nell’elenco l’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Fanno il loro mestiere.

Ciò che meraviglia è leggere il nome di associazioni quali l’Alleanza evangelica italiana, la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, l’Unione italiana delle Chiese avventiste del 7° giorno, l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, la Tavola valdese, la Federazione delle Chiese pentecostali, la Chiesa evangelica luterana in Italia, il Comitato insegnanti evangelici italiani.

Se devo essere sincero, sembra di essere tornati a fine Ottocento, quando si fece di tutto per cancellare dal volto dell’Italia ogni traccia di cattolicesimo. A quell’epoca tutto veniva buono: non solo si cercò di diffondere il “libero pensiero” innalzando monumenti a Giordano Bruno, ma si tentò anche di fare dell’Italia un paese protestante disseminando nella penisola ogni sorta di chiese evangeliche.

Da allora ne è scorsa di acqua sotto i ponti: c’è stata la conciliazione fra lo Stato e la Chiesa; c’è stato il Concilio Vaticano II; la Chiesa cattolica si è impegnata in un sincero sforzo ecumenico, che sembrava corrisposto dalle altre comunità cristiane. Ci si sarebbe aspettati un atteggiamento piú costruttivo da parte delle Comunità evangeliche nei confronti della Chiesa cattolica. E invece, a stare ai ricorsi presentati al TAR, sembrerebbe che non sia cambiato proprio nulla: l’alleanza anticlericale rimane piú o meno la stessa. A quanto pare, per i nostri fratelli separati, ciò che conta non è il fatto di essere tutti cristiani (pur se con alcune, certo non irrilevanti, differenze); ciò che conta non è unire le forze per contrastare la secolarizzazione dilagante e cercare di diffondere il Vangelo; ciò che conta è dare addosso alla Chiesa cattolica; se necessario, anche alleandosi con gli atei e gli agnostici. Sembra che per loro sia piú quel che li unisce ai non-credenti (la lotta contro la Chiesa cattolica) che non ciò che li unisce alla Chiesa cattolica (la stessa fede cristiana). Ne prendo atto con un senso di profonda amarezza. Non voglio andare oltre. Ma non posso evitare di pormi una domanda: ha ancora senso continuare a insistere in un “dialogo ecumenico”, che sembra non produrre alcun risultato?

lunedì 17 agosto 2009

Ferrara, l'IRC e l'America

L’altro giorno Giuliano Ferrara, prendendo spunto dalle recenti polemiche sull’ora di religione, ha lanciato da Il Foglio una interessante proposta. La Chiesa, dovrebbe, secondo lui, restituire allo Stato i “privilegi”, che le sono stati riconosciuti col Concordato, in cambio della piena libertà di educazione, sul modello americano: «Il Papa restituisce allo stato le sue prerogative concordatarie in materia di insegnamento religioso, o almeno quelle che oggi suonano come rendite di posizione anacronistiche, e lo stato spezza il monopolio culturale antiliberale costituito dalla scuola unica pubblica e dal suo mito».

La proposta mi sembra interessante per il suo carattere provocatorio, che ci induce a riflettere, ma difficilmente realizzabile, perché non si tratta di un “aggiustamento” dei vigenti accordi fra Chiesa e Stato, bensí di una vera e propria “rivoluzione” costituzionale. Oltre tutto, discutibile. Andiamo per ordine.

Che l’attuale ordinamento dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) sia il frutto di un compromesso, è stato evidente fin dal momento della firma dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense (1984). Che ci siano delle contraddizioni, non può essere negato da nessuno: si tratta di un insegnamento opzionale non confessionale, affidato a insegnanti pagati dallo Stato, ma nominati e controllati dalla Chiesa. Se l’insegnamento non è confessionale, ma culturale, non si capisce perché debba essere opzionale; si capirebbe la sua non obbligatorietà se si trattasse di una forma di catechesi (ma questa viene categoricamente esclusa). Se gli insegnanti (si badi bene, di un insegnamento non confessionale) sono pagati dallo Stato, non si vede perché debbano poi dipendere dall’autorità ecclesiastica, che ha la facoltà non solo di nominarli, ma anche di rimuoverli. Inoltre, non è stato mai chiarito l’inserimento di tale disciplina nel contesto scolastico: se ha la stessa dignità delle altre materie, dovrebbe essere in tutto equiparata a quelle (nella metodologia, nella valutazione, ecc.) e gli insegnanti dovrebbero godere degli stessi diritti-doveri degli altri docenti; ma sappiamo che tutto ciò non avviene.

Appare dunque evidente che ci sia bisogno di un riaggiustamento, che non è certo quello prospettato dal TAR del Lazio (secondo il quale “un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico”; lasciatemi dire, non hanno capito nulla). Secondo me si dovrebbe optare fra le due possibilità: o un insegnamento confessionale opzionale (una vera e propria catechesi), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (ma con il gradimento dell’autorità ecclesiastica); oppure un insegnamento non confessionale della religione cattolica, obbligatorio per tutti (tutti, anche i non credenti, hanno bisogno di conoscere la religione cattolica, se vogliono capire qualcosa della storia, della cultura e della civiltà italiana), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (senza alcun intervento dell’autorità ecclesiastica). Personalmente, non saprei che cosa sia preferibile: forse sono piú incline verso la seconda soluzione, dal momento che mi sembra piú confacente al contesto scolastico; la catechesi trova il suo ambiente naturale nella parrocchia. Sia ben chiaro che, quando parlo di insegnamento non confessionale delle religione cattolica, non mi riferisco in alcun modo a una vaga “storia delle religioni”, ma a una disciplina che abbia come oggetto la conoscenza oggettiva della religione cattolica, senza alcuna finalità si indottrinamento. In ogni caso, mi pare che la cosa piú importante sia fare chiarezza. Ma capisco che non sempre è possibile essere cosí drastici, e il piú delle volte ci si deve accontentare di soluzioni intermedie di compromesso.

Non mi entusiasma affatto invece la proposta Ferrara. Non perché non sia d’accordo con la piena libertà di educazione (potete immaginare che cosa pensi in proposito uno che ha trascorso buona parte della sua vita nella scuola cattolica); ma semplicemente perché non mi convince il modello di società che viene proposto, entro il quale tale libertà di educazione dovrebbe trovare posto.

Non meraviglia che la proposta venga da Ferrara. Il suo punto di riferimento ideale (in questo momento) è il modello americano, un modello che viene considerato pressoché perfetto e al quale tutti dovranno, prima o poi, conformarsi. Non ci si accorge che si tratta di una posizione squisitamente ideologica, che oltre tutto non tiene conto della crisi in cui quel modello versa attualmente. Quel che piú meraviglia è che l’opinione di Ferrara è largamente condivisa, non solo nel mondo laico, ma anche in quello cattolico. Avevamo già fatto notare, in altra occasione, come lo stesso Pontefice non ne sia immune. Provenendo dall’ambiente accademico, dove è data per appurata la distinzione fra la rivoluzione francese e quella americana, lui stesso ha fatto eco a tale tesi nel discorso rivolto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005: «... Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» (anche Ferrara non poteva non notare questa simpatia per il «modello americano, abbracciato e lodato da Benedetto XVI nel suo recente e profetico viaggio in America»). Ora però un gesuita americano, Padre John Navone, ci fa notare che, in realtà, «la Rivoluzione americana ebbe una notevole influenza sulla successiva Rivoluzione francese, la quale, a sua volta, esercitò un forte influsso sulle rivoluzioni latinoamericane del XIX secolo e sulla nascita delle Repubbliche a cui esse diedero vita» (“Il nazionalismo americano”: La Civiltà Cattolica, 16 febbraio 2008; un articolo che va letto per intero per la sua valutazione inedita del sistema americano, con un solo difetto: limita la sua analisi fino agli anni Novanta del secolo scorso, ignorando i successivi, certo non irrilevanti, sviluppi).

Che il sistema americano sia l’ideale di società autenticamente laica (e non laicista) è pura mitologia. Corrisponde a realtà la descrizione che fa Ferrara di tale sistema: «Quel paese costruitosi nella fuga dall’Europa delle guerre di religione, quello spirito repubblicano, quella forma del moderno, nascono come sappiamo da Toqueville all’insegna della libertà di credere, dell’autonomia dei culti, del riconoscimento pubblico dello spazio religioso, ma nella divisione piú rigorosa del campo dello stato e quello delle chiese. Lí Dio non è bandito dalla società o oscurato dall’oblio di massa, la società è ultrasecolarizzata come quella europea, ma il Creatore che legittima ogni diritto è anzi un invitato istituzionale permanente al banchetto delle idee, dei giuramenti, delle questioni non negoziabili che riguardano la cultura della legge naturale». Il problema è: di quale Creatore si tratta? Del Dio dei nostri padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe... e di Gesú Cristo, o del Grande Architetto dell’Universo (che, a quanto mi consta, non è stretto parente del Dio vivente rivelatosi in Gesú Cristo)? Ferrara critica, forse a ragione, la «strana religione repubblicana, religione della Costituzione, buona per il laicismo parrocchiale di serie B che sommerge la cultura italiana»; ma non si accorge che la presenza del Creatore al banchetto americano delle idee, dei giuramenti, ecc. fa parte di una altrettanto strana religione civica, forse meno provinciale di quella italiana, ma pur sempre estranea alla vera religione. Con una differenza: che lí vige una assoluta separazione fra Chiesa e Stato (cosa che non mi sembra poi un ideale da perseguire da parte di un cattolico), mentre in Italia, pur fra mille contraddizioni, ci si sforza di stabilire un rapporto di reciproco riconoscimento e valorizzazione, nel rispetto della distinzione dei rispettivi ruoli. E questo non mi pare poco, considerata la storia che abbiamo alle spalle (e che Ferrara descrive molto bene).

Questo non significa che allora tutto va bene, che possiamo dirci soddisfatti dei risultati raggiunti e riposare sugli allori. È evidente — come si faceva notare a proposito dell’IRC o della libertà di educazione — che ci sono problemi ancora aperti; è ovvio che c’è qualcosa da correggere nel nostro modello “concordatario”. Ma questo non significa che l’unico modello valido alternativo sia quello americano. Ci potrebbero essere altri modelli, forse piú validi di quello americano. Per esempio, io ho avuto la fortuna di sperimentare, negli ultimi anni, un modello che mi sembra migliore sia quello italiano che di quello americano, il modello filippino. Ovviamente non verrà mai in mente a nessuno di rifarsi a un paese “del terzo mondo”, che si trova oltretutto a fronteggiare gravissimi problemi di carattere sociale, politico, economico e morale. Eppure, io sono rimasto ammirato per la naturalezza con cui, in quel paese, è vissuto il rapporto fra Stato e Chiesa (pur fra inevitabili tensioni). Forse perché i filippini non hanno alle spalle tutte le vicende esaurientemente elencate da Ferrara, ma per loro la presenza del fatto religioso nella società non costituisce alcun problema: il “riconoscimento pubblico dello spazio religioso” — per dirla alla Ferrara — è pacifico, non solo per la Chiesa cattolica (che pure svolge un ruolo di grande autorevolezza, per essere la religione della stragrande maggioranza dei cittadini), ma per qualsiasi altra confessione religiosa. Quello filippino non è uno Stato confessionale; è uno Stato laico nel piú positivo significato del termine; ma in esso le Chiese hanno pieno diritto di cittadinanza, e il loro ruolo è non solo riconosciuto, ma valorizzato e apprezzato dall’autorità civile.

Per quanto riguarda il problema specifico dell’insegnamento della religione cattolica e della libertà di educazione, non mi sembra che sia necessario procedere a una sorta di baratto: rinunciare all’IRC per avere in cambio la piena libertà di educazione, con conseguente scomparsa della scuola di Stato. Sinceramente, non vedo che cosa guadagnerebbero tanto la Chiesa quanto la società civile da tale soluzione. Il riconoscimento della effettiva parità per la scuola cattolica non comporta di per sé la scomparsa della scuola di Stato: le due realtà possono tranquillamente coesistere in un regime di libera concorrenza. Personalmente non credo che la scuola di Stato abbia fatto il suo tempo, e che si debba dare spazio unicamente alla libera iniziativa: questa è pura ideologia; è l’applicazione del liberalismo al campo educativo. La crisi in cui si dibatte il sistema capitalistico, che su quell’ideologia si fonda, dovrebbe farci capire che un intervento dello Stato, non solo in campo economico, ma anche educativo, non solo è possibile, ma forse, in qualche caso, auspicabile.

Meraviglia pertanto che una simile proposta giunga proprio in un momento in cui quel sistema è in piena crisi, sta mostrando tutte le sue debolezze e, diciamolo pure, sta rivelando il suo vero volto.

domenica 16 agosto 2009

XX domenica "per annum"

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

Cosí leggiamo nel vangelo odierno (Gv 6:54). Gesú aveva già affermato qualcosa di simile poco prima nel medesimo discorso:

«Chiunque vede il Figlio e crede in lui [ha] la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6:40).

Il risultato è lo stesso; cambiano solo le condizioni per ottenerlo: prima, Gesú dice che, per avere la vita eterna (ed essere risuscitati nell’ultimo giorno), occorre “vedere” il Figlio e credere in lui; poi, afferma che bisogna mangiare la sua carne e bere il suo sangue.

I protestanti, ai quali non piace dare una interpretazione “eucaristica” del discorso nella sinagoga di Cafarnao, si basano su tale parallelismo per dimostrare, appunto, che nel secondo caso Gesú non si sta tanto riferendo all’Eucaristia, quanto piuttosto, ancora una volta, a sé stesso: “mangiare la sua carne” non significherebbe altro che accettare la sua persona (il “Verbo fatto carne”), credere in lui — esattamente come nel primo caso (“vedere” il Figlio e credere in lui).

Personalmente concordo che, quando in un testo incontriamo un parallelismo, esso ci aiuta a dare la corretta interpretazione di quel testo. Non mi sembra però necessario, per questo motivo, annacquare o addirittura dissolvere le specificità di uno dei passi paralleli nell’altro; è possibile che uno dei passaggi aggiunga qualcosa di nuovo rispetto all’altro.

Mi sembra questo il caso presente: non c’è dubbio che per avere la vita eterna (ed essere risuscitati nell’ultimo giorno) sia necessario “vedere” il Figlio e credere in lui; ma ciò non toglie che Gesú, dopo aver richiesto la fede nella sua persona, per ottenere il medesimo effetto, chieda pure di mangiare la sua carne e bere il suo sangue — un chiaro riferimento all’Eucaristia.

Del resto, qual è il senso dei sacramenti secondo la dottrina cattolica? Non sono essi forse “segni della fede”. Senza la fede, i sacramenti avrebbero qualche senso? E questa fede non deve forse necessariamente esprimersi attraverso i sacramenti?

Accostarsi all’Eucaristia (mangiare la carne di Cristo e bere il suo sangue) significa esattamente “vedere” il Figlio di Dio e credere in lui. Quando ci accostiamo all’altare, il sacerdote ci mostra un pezzo di pane e ci dice: “Il Corpo di Cristo”. E noi rispondiamo: “Amen”. Sí, ci credo; credo che questo non è semplicemente pane, ma è il Corpo di Cristo; credo che questo è davvero il Figlio di Dio; sí, “vedo” il Figlio e credo in lui.

sabato 15 agosto 2009

Santa Maria 2009

Ricordo che, quando ero a Firenze, le persone di una certa età chiamavano la solennità odierna, molto semplicemente, «Santa Maria». La nonna di alcuni nostri alunni ogni anno, il 15 agosto, mi mandava uno splendido mazzo di fiori da mettere davanti alla statua dell’Immacolata nella cappella del Collegio, datando il biglietto di accompagnamento con un sobrio «Santa Maria», seguito dall’indicazione dell’anno. È una consuetudine che altrove ho ritrovato solo fra i Servi di Maria (non a caso fondati a Firenze). Ufficialmente ormai ci si riferisce alla festività odierna come all’«Assunzione della Beata Vergine Maria» (l’espressione che incontriamo nei libri liturgici) o, piú popolarmente, all’«Assunta» o, piú laicamente, a «Ferragosto». Eppure quel «Santa Maria», col suo sapore antico e austero, dice tutto.

È sufficiente usare tale espressione, perché il 15 agosto è la festa mariana per eccellenza. È vero che nel calendario liturgico abbiamo una buona dozzina di celebrazioni mariane, ma l’Assunzione è quella che le supera e le riassume tutte. Se l’Immacolata Concezione segna l’inizio dell’esistenza umana di Maria, e la sua Divina Maternità costituisce il mistero centrale della sua esperienza terrena, la sua Assunzione al cielo rappresenta il compimento ultimo verso cui quell’esperienza converge. Non è un caso che, secondo le norme ecclesiastiche, le chiese dedicate alla Vergine, che non hanno una specifica festa titolare, celebrano tale ricorrenza il 15 agosto. I nostri fratelli orientali dànno una grandissima importanza alla celebrazione della «Dormizione» di Maria (come loro la chiamano), facendola precedere da due settimane di digiuno.

Se ci badate bene, tutte le chiese, un tempo, erano intitolate a «Santa Maria», magari con l’aggiunta di qualche specificazione (teologica, topografica, ecc.), a cominciare dal primo santuario mariano, la basilica romana di «Santa Maria Maggiore». Oggi sembra quasi che non sia piú sufficiente invocare la Madre di Dio con questo semplice titolo «Santa Maria», sembra quasi una mancanza di rispetto; ed ecco quindi i vari «Maria Santissima», «Beata Vergine Maria», «Nostra Signora», ecc. E invece quel titolo è il primo e il piú semplice di tutti: non a caso, nelle litania lauretane, iniziamo la sequela di invocazioni proprio con «Santa Maria».

Purtroppo l’estate e la secolarizzazione galoppante stanno gradualmente attenuando il valore religioso del 15 agosto, facendone semplicemente la festa di mezza estate. Ma per noi tale data continuerà a essere la piú importante festa mariana dell’anno, la «Festa di Santa Maria». Auguri a tutti!

venerdì 14 agosto 2009

L'esempio di Mons. Nichols

Ieri ho definito “significativo” l’intervento di Mons. Vincent Nichols, Arcivescovo di Westminster e Presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e del Galles, a proposito della Messa tradizionale. Perché “significativo”?

1. Mons. Nichols, a differenza di altri confratelli nell’episcopato, non proibisce i convegni sull’antica liturgia, ma se ne fa promotore (il corso estivo per sacerdoti finalizzato all’apprendimento del modo di celebrare la Messa tridentina è stato organizzato dall’Arcidiocesi di Westminster d’intesa con la “Latin Mass Society”). E spiega il motivo di tale scelta: il Vescovo è il responsabile della liturgia nella sua Diocesi. Tale principio continua a valere anche dopo il motu proprio Summorum Pontificum: sarebbe totalmente erroneo pensare che, siccome non c’è piú bisogno del permesso del Vescovo per celebrare secondo l’antico uso, sacerdoti e fedeli siano, in questo campo, in qualche modo sottratti alla sua giurisdizione (una specie di impossibile “esenzione”). Certo, il Vescovo non può proibire la celebrazione della Messa secondo il Messale del 1962 (perché non è piú nelle sue facoltà), ma continua ad avere il diritto/dovere di vigilare su qualunque celebrazione liturgica che si svolge nella sua Diocesi, e in tale vigilanza rientra anche la verifica della corretta applicazione del motu proprio.

2. L’Arcivescovo di Westminster, inoltre, ci rammenta che esiste un solo rito romano. Novus Ordo e Vetus Ordo sono solo due forme del medesimo rito: il NO, la sua “forma ordinaria”; e il VO, la sua “forma straordinaria”. Ciò significa che le due forme godono della medesima dignità, ed entrambe hanno diritto di cittadinanza nella Chiesa. Se sarebbe sbagliato considerare, per qualsiasi motivo, illecita la celebrazione della Messa secondo l’usus antiquior (che è stato la forma ordinaria del rito romano per secoli), a maggior ragione è assolutamente inammissibile anche solo pensare che il Novus Ordo “sia in qualche modo carente”. Una simile opinione non solo è contraria al motu proprio, ma — e ciò va sottolineato — rappresenta un serio pericolo per quanti la professano: “Questi tali si stanno inesorabilmente allontanando dalla Chiesa”.

3. Un’altra verità che ci viene ricordata da Mons. Nichols è che l’Eucaristia è la sorgente e l’espressione dell’unità della Chiesa; un’unità che è, innanzi tutto, un dono che ci viene accordato. L’unità della Chiesa non si fonda sui gusti, le preferenze e le sensibilità personali, ma è qualcosa di oggettivo, che ci precede e a cui dobbiamo conformarci. Ciò che dobbiamo assolutamente evitare è qualsiasi opinione, parola o gesto che potrebbe distruggere tale unità. Una norma pratica infallibile per salvaguardare l’unità è quella di uniformarsi a quanto la Chiesa insegna e pratica. In particolare, un sacerdote dovrebbe sempre ricordare di essere un ministro della Chiesa: in campo dottrinale, non gli viene chiesto di esprimere le proprie personali opinioni, ma l’insegnamento della Chiesa; in campo liturgico, non gli viene chiesto di offrire ai fedeli i propri gusti personali, ma di celebrare la liturgia della Chiesa.

4. A questo proposito, il nuovo Arcivescovo di Westminster fa notare le conseguenze della natura ecclesiale della liturgia. Essa non è una devozione privata né, tanto meno, uno spettacolo a cui si assiste per sperimentare una sorta di piacere estetico. Essendo azione della Chiesa, essa richiede l’attiva partecipazione dei fedeli. Non si tratta di una novità della riforma liturgica, ma di una esigenza intrinseca della liturgia in quanto tale. Qualunque sia la forma di Messa che si celebra, sacerdote e ministri devono preoccuparsi di favorire tale partecipazione attiva.

Mi sembra che Mons. Nichols, a pochi mesi dalla sua nomina alla prima sede cattolica inglese, stia dando ai suoi confratelli Vescovi e a tutti noi un esempio di che cosa deve fare un Vescovo nei confronti della liturgia tradizionale: nessun ostracismo; nessun subdolo boicottaggio; nessuna indifferenza (“Sono stato esautorato: ora si arrangino!”); ma piena assunzione delle proprie responsabilità e pieno esercizio delle proprie prerogative episcopali. Fra tali responsabilità e prerogative c’è la vigilanza sulla celebrazione della liturgia (in qualsiasi forma) e, soprattutto, c’è la preoccupazione per l’unità della Chiesa. Non rimane che sperare che si possa trovare in tutti i Vescovi la stessa attenzione e premura e in tutti i sacerdoti e fedeli una corrispondente sensibilità e disponibilità.

giovedì 13 agosto 2009

Nichols e "usus antiquior"

In questi giorni sta facendo discutere nel mondo anglosassone il messaggio di Mons. Vincent Nichols, nuovo Arcivescovo di Westminster, pubblicato come prefazione a un opuscolo che verrà distribuito ai sacerdoti partecipanti al Corso residenziale di addestramento, organizzato dalla "Latin Mass Society of England and Wales" per i giorni 24-28 agosto prossimi congiuntamente all'Arcidiocesi di Westminster.

The Tablet ha salutato con entusiasmo l'intervento del nuovo Arcivescovo e Presidente della locale Conferenza episcopale. L'editoriale del suo ultimo numero titola: "The Old Rite put in its place". Personalmente, trovo estremamente significative sia la presa di posizione di Mons. Nichols, sia la reazione del periodico cattolico progressista. Mi meraviglia che finora, in Italia, nessuno abbia fatto cenno a tale dibattito, che potrebbe destare un notevole interesse. Pertanto, senza per il momento voler entrare nel merito (spero di poterlo fare nei prossimi giorni), per il momento mi limito a pubblicare una mia traduzione del messaggio in questione. Potete trovare il testo originale del messaggio, insieme con il link all'editoriale del Tablet, nel sito del New Liturgical Movement.


Corso residenziale di addestramento per sacerdoti, 24-28 agosto 2009
Centro pastorale “All Saints”, London Colney, Herts

Messaggio di Sua Ecc. Mons. Vincent Nichols
Arcivescovo di Westminster

Saluto con favore questo breve corso di addestramento promosso dalla Diocesi di Westminster d’intesa con la “Latin Mass Society”. Questa è la corretta descrizione dell’evento. Sia nell’insegnamento che nel diritto della Chiesa è il vescovo che ha la responsabilità della promozione e della vigilanza sulla Liturgia.

Nel motu proprio Summorum Pontificum Papa Benedetto ha permesso l’uso della forma della Messa del 1962, in casi chiaramente definiti. Ciò facendo, egli ha insistito che esiste un solo rito della Messa nella Chiesa Latina. Questo chiarisce che la forma ordinaria della Messa e quella straordinaria sono a servizio di un unico e medesimo rito. Entrambe, perciò, trovano spazio in questa Scuola Estiva, e i partecipanti celebreranno volentieri la Messa in ciascuna di queste forme. Qui non c’è spazio per l’idea che la forma ordinaria della Messa, in sé stessa, sia in qualche modo carente. In verità, quanti possiedono una simile idea non rientrano nella generosa disposizione del Summorum Pontificum. Questi tali si stanno inesorabilmente allontanando dalla Chiesa.

La Messa è fonte ed espressione dell’unità della Chiesa; quell’unità infatti deriva da Cristo. Non ne abbiamo un’altra. La nostra unità non consiste in un’uniformità di uso o preferenza personale. In verità, certe questioni dovrebbero avere una parte assolutamente secondaria nella nostra liturgia, in particolare nel ministero del sacerdote. Ciò che noi sacerdoti dobbiamo provvedere, come elemento-chiave del nostro ministero, è la Liturgia della Chiesa.

Un principio dimostrato di buona liturgia, quale è quello della “partecipazione attiva” di tutti i partecipanti alla Messa, sia nella Liturgia della parola che in quella eucaristica, si applica a qualsiasi forma della Messa si usi. Tale principio richiede attenta considerazione e applicazione da parte di ogni celebrante e di chiunque aiuti nella preparazione della liturgia. Spero che gli sia dato sufficiente spazio in questa Scuola Estiva.

Papa Benedetto ha dato un ulteriore e delicato compito a sacerdoti e vescovi: di provvedere la forma straordinaria della Messa in risposta ai bisogni genuini descritti nel motu proprio. Sono grato a tutti voi per l’aiuto che ci darete a rispondere a questo compito, perseverando nello sforzo di difendere e alimentare l’unità della Chiesa.

+ Vincent Nichols
17 luglio 2009