Un fedele lettore, Stefano Costa, mi ha scritto sottoponendomi una questione di non poco conto:
«Le scrivo per esporle un dubbio, che mi assilla ormai da tempo, riguardo alla giustizia divina (e qui traggo spunto dal suo post del 5 agosto 2009, circa “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”): davvero Dio “vendica” i peccati degli uomini castigando i peccatori, nel tempo e/o nell’eternità?
Io sono convinto di sí: anzi, a quanto ne so io, che Dio, giusto remuneratore, premi i buoni e punisca i malvagi dovrebbe essere verità di fede... Eppure, spesso mi sono sentito dire, anche da sacerdoti di cui ho grande stima, cose come queste:
“Dio non punisce il peccato con una qualche pena temporale o eterna. Dio è la bontà stessa: come potrebbe infliggere delle pene all’uomo peccatore? No, è l’uomo stesso che si punisce, subendo le conseguenze dei suoi errori, e l’inferno — se mai qualcuno vi si trova — l’inferno non è altro che l’esclusione, l’autoesclusione dall’amore divino. Dunque l’inferno non è una punizione inflitta da Dio. Dio non punisce”.
Insomma, non è Dio che punisce e manda all’Inferno, ma siamo noi ad auto-punirci e ad auto-relegarci all’Inferno. Beninteso, sono d’accordo con l’affermazione che il peccato danneggia il peccatore, ma non penso che i castighi divini si riducano a questo. Trovo che questa dottrina sia in contraddizione con innumerevoli passi della Scrittura (ad es. 2 Sam 12, 13-15; il diluvio universale; Sodoma e Gomorra; le piaghe d’Egitto; l’episodio di Anania e Saffira negli Atti, ecc...); che dire poi delle fiamme dell’Inferno? Anche quelle sono auto-inflitte?
Infine, riporto un paio di testi sulla questione.
I. Il primo è tratto dalla “Somma di Teologia Dogmatica” di padre Casali:
“TESI: Dio è infinitamente giusto.
SPIEGAZIONE. Giustizia, in senso stretto significa dare a ciascuno il suo. Con questo significato si chiama giustizia commutativa. È logico che la giustizia commutativa non è applicabile a Dio, poiché è Lui che dà tutto e non è debitore a nessuno. La giustizia che la Rivelazione attribuisce a Dio è la giustizia distributiva, che è quella con cui il capo di una comunità distribuisce uffici e doveri, premi e pene. In Dio c’è questa giustizia, sia nel dare una ricompensa (giustizia rimunerativa), sia nel dare castighi (giustizia vendicativa)”.
II. Il secondo è tratto dalla costituzione apostolica “Indulgentiarum doctrina” di S. S. Paolo VI, pontefice a lei tanto caro:
“2. È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite [faccio notare che nella traduzione pubblicata sul sito della Santa Sede c’è un evidente errore: non si tratta di pene “infinite”, ma “inflitte”; N.d.R.] dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Cosí come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.
3. È necessario, allora, per la piena remissione e riparazione dei peccati non solo che l’amicizia di Dio venga ristabilita con una sincera conversione della mente e che sia riparata l’offesa arrecata alla sua sapienza e bontà, ma anche che tutti i beni sia personali che sociali o dello stesso ordine universale, diminuiti o distrutti dal peccato, siano pienamente reintegrati o con la volontaria riparazione che non sarà senza pena o con l’accettazione delle pene stabilite dalla giusta e santissima sapienza di Dio, attraverso le quali risplendano in tutto il mondo la santità e lo splendore della sua gloria. Inoltre l’esistenza e la gravità delle pene fanno comprendere l’insipienza e la malizia del peccato e le sue cattive conseguenze”.
Mi sembra che la dottrina contenuta in questi testi e le affermazioni che ho riportato sopra siano inconciliabili: mi sbaglio? Mi sta sfuggendo qualcosa?».
Egregio Signor Costa, la spiegazione dataLe dai sacerdoti, a parte l’inciso (che riprende l’idea attribuita a Hans Urs von Balthassar, secondo cui l’inferno esiste, ma si spera che sia vuoto), non è una loro personale trovata, ma è l’attuale insegnamento ufficiale della Chiesa. Se prendiamo infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica vi troviamo scritto esattamente quanto ripetuto piú o meno fedelmente da molti di noi sacerdoti:
«Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).
Ritroviamo lo stesso insegnamento nel Compendio del medesimo Catechismo:
«Come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita bontà di Dio?
Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3:9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto, è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213).
Come si concilia tale insegnamento con gli esempi biblici e i testi da Lei riportati? Beh, penso che ci sia una importante distinzione da fare: sia i castighi narrati nella Scrittura sia la citazione di Paolo VI (il testo di Padre Casali ha un carattere piú generale) si riferiscono a “pene temporali”; mentre, quando parliamo di “inferno”, ci stiamo riferendo alla “pena eterna”. Penso che sia evidente a tutti la differenza: non possiamo mettere sullo stesso piano una punizione temporanea e un castigo eterno.
Ciò che fa problema alla nostra mentalità, e a cui il Catechismo cerca di dare una spiegazione, è come conciliare l’inferno con l’infinita bontà di Dio. Le pene temporali non pongono lo stesso problema, perché possono essere facilmente spiegate in altro modo. Per esempio, gli esegeti ci insegnano che i castighi di cui parla la Bibbia vanno considerati come un’espressione della pedagogia di Dio nei confronti del suo popolo. Anche i genitori, quando dànno punizioni, non lo fanno in applicazione della “giustizia vendicativa”, ma semplicemente per educare i loro figli. Lei capisce bene che tale ragionamento non si può applicare all’inferno.
Mi sembra che Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, esponga in maniera molto esauriente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in proposito. Purtroppo, ho l’impressione che tale insegnamento non sia stato ripreso con la stessa completezza dal Catechismo:
«Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa [= le indulgenze] bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiú, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensí come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, cosí che non sussista piú alcuna pena» (n. 1472).
«Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo”» (n. 1473).
Come si vede, nessun riferimento alla giustizia e alla necessità di reintegrare l’ordine perturbato dal peccato. Mi sembra invece piú equilibrata la descrizione, che il Catechismo fa, delle pene inflitte dalla legittima autorità pubblica (e che, secondo me, si potrebbe applicare, mutatis mutandis, anche alle pene inflitte da Dio):
«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole» (n. 2266).
Come si spiega tale incertezza? Beh, penso che dobbiamo ammettere che, pur rimanendo identica la dottrina, sia possibile, nel corso dei secoli, che la Chiesa affronti gli stessi problemi da diversi punti di vista, e sottolinei ora un aspetto ora un altro, secondo i bisogni del tempo in cui si trova a vivere.
Che l’approccio odierno della teologia sia diverso da quello di un tempo, appare evidente. Basta confrontare il testo di Padre Casali, che risente di un certo modo di fare teologia (basato soprattutto sul ragionamento filosofico), con il Catechismo, che preferisce invece partire dalla Scrittura. Quando, per esempio, nella Bibbia si parla di “giustizia di Dio”, non ci si riferisce a nessuna delle forme della giustizia elencate dalla filosofia scolastica (commutativa, distributiva, remunerativa, vendicativa), ma alla sua “giustizia salvifica”. Il Concilio di Trento direbbe: «justitia, non qua Deus justus est, sed qua nos justos facit», vale a dire non la giustizia per cui Dio è giusto in sé stesso, ma quella per cui egli ci rende giusti (= ci giustifica, ci salva). Praticamente, tale giustizia di Dio, si identifica con la sua misericordia (ciò non esclude però che Dio sia infinitamente giusto anche nel senso come noi intendiamo comunemente la giustizia).
Che poi ogni tempo abbia la sua sensibilità, non può essere negato. Nel passato si preferiva presentare Dio come un giusto giudice, oggi si preferisce descriverlo come padre misericordioso. Non si tratta di una contraddizione, ma semplicemente di una diversa accentuazione, di un diverso punto di vista; i due aspetti sono entrambi veri; se si vuole, complementari. Spesso si dimentica che in Dio tutti gli attributi si identificano: in lui non può esserci contraddizione fra la giustizia e la misericordia (cosa che ben compresero i santi, come per esempio Santa Teresa, secondo la quale Dio non sarebbe davvero giusto, se non fosse misericordioso). Se è vero che in Dio (quoad se) non può esistere contraddizione e in lui tutti gli attributi si identificano, è altrettanto vero che da parte nostra (quoad nos) è bene continuare a distinguere, perché non possiamo comprendere con un unico atto mentale l’infinita giustizia e l’infinita misericordia di Dio. Per cui è opportuno affiancare sempre, come fa Paolo VI, giustizia e misericordia, e ricordare, oltre all’amore infinito di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2:4), anche la sua giustizia, che tende a reintegrare l’ordine universale perturbato dal peccato.
Rimane però il fatto, innegabile, che oggi si preferisce parlare di misericordia, piuttosto che di giustizia: non sarà un “segno dei tempi”? non sarà che, forse, oggi il mondo ha bisogno soprattutto di misericordia? Al tempo del giansenismo, che tanto insisteva sulla trascendenza divina e sull’abisso che separa Dio dall’uomo, incapace di avvicinarsi a lui, si diffuse nella Chiesa la devozione al sacratissimo Cuore di Gesú. Ai nostri giorni Santa Faustina ha promosso la devozione alla Divina Misericordia e Giovanni Paolo II se ne è fatto apostolo (sono convinto che Papa Wojtyla verrà ricordato nella storia non per lo “spirito di Assisi”, ma per questo, che considero il suo maggior merito: aver dischiuso all’umanità il mistero della Divina Misericordia). Non credo che si tratti di un caso. Evidentemente è proprio questo ciò di cui oggi il mondo ha piú bisogno: non tanto di temere un Dio giusto, ma confidare in un Dio misericordioso. E confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.
«Le scrivo per esporle un dubbio, che mi assilla ormai da tempo, riguardo alla giustizia divina (e qui traggo spunto dal suo post del 5 agosto 2009, circa “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”): davvero Dio “vendica” i peccati degli uomini castigando i peccatori, nel tempo e/o nell’eternità?
Io sono convinto di sí: anzi, a quanto ne so io, che Dio, giusto remuneratore, premi i buoni e punisca i malvagi dovrebbe essere verità di fede... Eppure, spesso mi sono sentito dire, anche da sacerdoti di cui ho grande stima, cose come queste:
“Dio non punisce il peccato con una qualche pena temporale o eterna. Dio è la bontà stessa: come potrebbe infliggere delle pene all’uomo peccatore? No, è l’uomo stesso che si punisce, subendo le conseguenze dei suoi errori, e l’inferno — se mai qualcuno vi si trova — l’inferno non è altro che l’esclusione, l’autoesclusione dall’amore divino. Dunque l’inferno non è una punizione inflitta da Dio. Dio non punisce”.
Insomma, non è Dio che punisce e manda all’Inferno, ma siamo noi ad auto-punirci e ad auto-relegarci all’Inferno. Beninteso, sono d’accordo con l’affermazione che il peccato danneggia il peccatore, ma non penso che i castighi divini si riducano a questo. Trovo che questa dottrina sia in contraddizione con innumerevoli passi della Scrittura (ad es. 2 Sam 12, 13-15; il diluvio universale; Sodoma e Gomorra; le piaghe d’Egitto; l’episodio di Anania e Saffira negli Atti, ecc...); che dire poi delle fiamme dell’Inferno? Anche quelle sono auto-inflitte?
Infine, riporto un paio di testi sulla questione.
I. Il primo è tratto dalla “Somma di Teologia Dogmatica” di padre Casali:
“TESI: Dio è infinitamente giusto.
È DI FEDE
La Tesi è contro Hermes che nega a Dio il diritto di dare pene vendicative.SPIEGAZIONE. Giustizia, in senso stretto significa dare a ciascuno il suo. Con questo significato si chiama giustizia commutativa. È logico che la giustizia commutativa non è applicabile a Dio, poiché è Lui che dà tutto e non è debitore a nessuno. La giustizia che la Rivelazione attribuisce a Dio è la giustizia distributiva, che è quella con cui il capo di una comunità distribuisce uffici e doveri, premi e pene. In Dio c’è questa giustizia, sia nel dare una ricompensa (giustizia rimunerativa), sia nel dare castighi (giustizia vendicativa)”.
II. Il secondo è tratto dalla costituzione apostolica “Indulgentiarum doctrina” di S. S. Paolo VI, pontefice a lei tanto caro:
“2. È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene infinite [faccio notare che nella traduzione pubblicata sul sito della Santa Sede c’è un evidente errore: non si tratta di pene “infinite”, ma “inflitte”; N.d.R.] dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Cosí come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.
3. È necessario, allora, per la piena remissione e riparazione dei peccati non solo che l’amicizia di Dio venga ristabilita con una sincera conversione della mente e che sia riparata l’offesa arrecata alla sua sapienza e bontà, ma anche che tutti i beni sia personali che sociali o dello stesso ordine universale, diminuiti o distrutti dal peccato, siano pienamente reintegrati o con la volontaria riparazione che non sarà senza pena o con l’accettazione delle pene stabilite dalla giusta e santissima sapienza di Dio, attraverso le quali risplendano in tutto il mondo la santità e lo splendore della sua gloria. Inoltre l’esistenza e la gravità delle pene fanno comprendere l’insipienza e la malizia del peccato e le sue cattive conseguenze”.
Mi sembra che la dottrina contenuta in questi testi e le affermazioni che ho riportato sopra siano inconciliabili: mi sbaglio? Mi sta sfuggendo qualcosa?».
Egregio Signor Costa, la spiegazione dataLe dai sacerdoti, a parte l’inciso (che riprende l’idea attribuita a Hans Urs von Balthassar, secondo cui l’inferno esiste, ma si spera che sia vuoto), non è una loro personale trovata, ma è l’attuale insegnamento ufficiale della Chiesa. Se prendiamo infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica vi troviamo scritto esattamente quanto ripetuto piú o meno fedelmente da molti di noi sacerdoti:
«Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).
Ritroviamo lo stesso insegnamento nel Compendio del medesimo Catechismo:
«Come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita bontà di Dio?
Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3:9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto, è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213).
Come si concilia tale insegnamento con gli esempi biblici e i testi da Lei riportati? Beh, penso che ci sia una importante distinzione da fare: sia i castighi narrati nella Scrittura sia la citazione di Paolo VI (il testo di Padre Casali ha un carattere piú generale) si riferiscono a “pene temporali”; mentre, quando parliamo di “inferno”, ci stiamo riferendo alla “pena eterna”. Penso che sia evidente a tutti la differenza: non possiamo mettere sullo stesso piano una punizione temporanea e un castigo eterno.
Ciò che fa problema alla nostra mentalità, e a cui il Catechismo cerca di dare una spiegazione, è come conciliare l’inferno con l’infinita bontà di Dio. Le pene temporali non pongono lo stesso problema, perché possono essere facilmente spiegate in altro modo. Per esempio, gli esegeti ci insegnano che i castighi di cui parla la Bibbia vanno considerati come un’espressione della pedagogia di Dio nei confronti del suo popolo. Anche i genitori, quando dànno punizioni, non lo fanno in applicazione della “giustizia vendicativa”, ma semplicemente per educare i loro figli. Lei capisce bene che tale ragionamento non si può applicare all’inferno.
Mi sembra che Paolo VI, nella Indulgentiarum doctrina, esponga in maniera molto esauriente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in proposito. Purtroppo, ho l’impressione che tale insegnamento non sia stato ripreso con la stessa completezza dal Catechismo:
«Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa [= le indulgenze] bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiú, sia dopo la morte, nello stato chiamato Purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensí come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, cosí che non sussista piú alcuna pena» (n. 1472).
«Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo”» (n. 1473).
Come si vede, nessun riferimento alla giustizia e alla necessità di reintegrare l’ordine perturbato dal peccato. Mi sembra invece piú equilibrata la descrizione, che il Catechismo fa, delle pene inflitte dalla legittima autorità pubblica (e che, secondo me, si potrebbe applicare, mutatis mutandis, anche alle pene inflitte da Dio):
«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole» (n. 2266).
Come si spiega tale incertezza? Beh, penso che dobbiamo ammettere che, pur rimanendo identica la dottrina, sia possibile, nel corso dei secoli, che la Chiesa affronti gli stessi problemi da diversi punti di vista, e sottolinei ora un aspetto ora un altro, secondo i bisogni del tempo in cui si trova a vivere.
Che l’approccio odierno della teologia sia diverso da quello di un tempo, appare evidente. Basta confrontare il testo di Padre Casali, che risente di un certo modo di fare teologia (basato soprattutto sul ragionamento filosofico), con il Catechismo, che preferisce invece partire dalla Scrittura. Quando, per esempio, nella Bibbia si parla di “giustizia di Dio”, non ci si riferisce a nessuna delle forme della giustizia elencate dalla filosofia scolastica (commutativa, distributiva, remunerativa, vendicativa), ma alla sua “giustizia salvifica”. Il Concilio di Trento direbbe: «justitia, non qua Deus justus est, sed qua nos justos facit», vale a dire non la giustizia per cui Dio è giusto in sé stesso, ma quella per cui egli ci rende giusti (= ci giustifica, ci salva). Praticamente, tale giustizia di Dio, si identifica con la sua misericordia (ciò non esclude però che Dio sia infinitamente giusto anche nel senso come noi intendiamo comunemente la giustizia).
Che poi ogni tempo abbia la sua sensibilità, non può essere negato. Nel passato si preferiva presentare Dio come un giusto giudice, oggi si preferisce descriverlo come padre misericordioso. Non si tratta di una contraddizione, ma semplicemente di una diversa accentuazione, di un diverso punto di vista; i due aspetti sono entrambi veri; se si vuole, complementari. Spesso si dimentica che in Dio tutti gli attributi si identificano: in lui non può esserci contraddizione fra la giustizia e la misericordia (cosa che ben compresero i santi, come per esempio Santa Teresa, secondo la quale Dio non sarebbe davvero giusto, se non fosse misericordioso). Se è vero che in Dio (quoad se) non può esistere contraddizione e in lui tutti gli attributi si identificano, è altrettanto vero che da parte nostra (quoad nos) è bene continuare a distinguere, perché non possiamo comprendere con un unico atto mentale l’infinita giustizia e l’infinita misericordia di Dio. Per cui è opportuno affiancare sempre, come fa Paolo VI, giustizia e misericordia, e ricordare, oltre all’amore infinito di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2:4), anche la sua giustizia, che tende a reintegrare l’ordine universale perturbato dal peccato.
Rimane però il fatto, innegabile, che oggi si preferisce parlare di misericordia, piuttosto che di giustizia: non sarà un “segno dei tempi”? non sarà che, forse, oggi il mondo ha bisogno soprattutto di misericordia? Al tempo del giansenismo, che tanto insisteva sulla trascendenza divina e sull’abisso che separa Dio dall’uomo, incapace di avvicinarsi a lui, si diffuse nella Chiesa la devozione al sacratissimo Cuore di Gesú. Ai nostri giorni Santa Faustina ha promosso la devozione alla Divina Misericordia e Giovanni Paolo II se ne è fatto apostolo (sono convinto che Papa Wojtyla verrà ricordato nella storia non per lo “spirito di Assisi”, ma per questo, che considero il suo maggior merito: aver dischiuso all’umanità il mistero della Divina Misericordia). Non credo che si tratti di un caso. Evidentemente è proprio questo ciò di cui oggi il mondo ha piú bisogno: non tanto di temere un Dio giusto, ma confidare in un Dio misericordioso. E confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.