Ieri ho definito “significativo” l’intervento di Mons. Vincent Nichols, Arcivescovo di Westminster e Presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e del Galles, a proposito della Messa tradizionale. Perché “significativo”?
1. Mons. Nichols, a differenza di altri confratelli nell’episcopato, non proibisce i convegni sull’antica liturgia, ma se ne fa promotore (il corso estivo per sacerdoti finalizzato all’apprendimento del modo di celebrare la Messa tridentina è stato organizzato dall’Arcidiocesi di Westminster d’intesa con la “Latin Mass Society”). E spiega il motivo di tale scelta: il Vescovo è il responsabile della liturgia nella sua Diocesi. Tale principio continua a valere anche dopo il motu proprio Summorum Pontificum: sarebbe totalmente erroneo pensare che, siccome non c’è piú bisogno del permesso del Vescovo per celebrare secondo l’antico uso, sacerdoti e fedeli siano, in questo campo, in qualche modo sottratti alla sua giurisdizione (una specie di impossibile “esenzione”). Certo, il Vescovo non può proibire la celebrazione della Messa secondo il Messale del 1962 (perché non è piú nelle sue facoltà), ma continua ad avere il diritto/dovere di vigilare su qualunque celebrazione liturgica che si svolge nella sua Diocesi, e in tale vigilanza rientra anche la verifica della corretta applicazione del motu proprio.
2. L’Arcivescovo di Westminster, inoltre, ci rammenta che esiste un solo rito romano. Novus Ordo e Vetus Ordo sono solo due forme del medesimo rito: il NO, la sua “forma ordinaria”; e il VO, la sua “forma straordinaria”. Ciò significa che le due forme godono della medesima dignità, ed entrambe hanno diritto di cittadinanza nella Chiesa. Se sarebbe sbagliato considerare, per qualsiasi motivo, illecita la celebrazione della Messa secondo l’usus antiquior (che è stato la forma ordinaria del rito romano per secoli), a maggior ragione è assolutamente inammissibile anche solo pensare che il Novus Ordo “sia in qualche modo carente”. Una simile opinione non solo è contraria al motu proprio, ma — e ciò va sottolineato — rappresenta un serio pericolo per quanti la professano: “Questi tali si stanno inesorabilmente allontanando dalla Chiesa”.
3. Un’altra verità che ci viene ricordata da Mons. Nichols è che l’Eucaristia è la sorgente e l’espressione dell’unità della Chiesa; un’unità che è, innanzi tutto, un dono che ci viene accordato. L’unità della Chiesa non si fonda sui gusti, le preferenze e le sensibilità personali, ma è qualcosa di oggettivo, che ci precede e a cui dobbiamo conformarci. Ciò che dobbiamo assolutamente evitare è qualsiasi opinione, parola o gesto che potrebbe distruggere tale unità. Una norma pratica infallibile per salvaguardare l’unità è quella di uniformarsi a quanto la Chiesa insegna e pratica. In particolare, un sacerdote dovrebbe sempre ricordare di essere un ministro della Chiesa: in campo dottrinale, non gli viene chiesto di esprimere le proprie personali opinioni, ma l’insegnamento della Chiesa; in campo liturgico, non gli viene chiesto di offrire ai fedeli i propri gusti personali, ma di celebrare la liturgia della Chiesa.
4. A questo proposito, il nuovo Arcivescovo di Westminster fa notare le conseguenze della natura ecclesiale della liturgia. Essa non è una devozione privata né, tanto meno, uno spettacolo a cui si assiste per sperimentare una sorta di piacere estetico. Essendo azione della Chiesa, essa richiede l’attiva partecipazione dei fedeli. Non si tratta di una novità della riforma liturgica, ma di una esigenza intrinseca della liturgia in quanto tale. Qualunque sia la forma di Messa che si celebra, sacerdote e ministri devono preoccuparsi di favorire tale partecipazione attiva.
Mi sembra che Mons. Nichols, a pochi mesi dalla sua nomina alla prima sede cattolica inglese, stia dando ai suoi confratelli Vescovi e a tutti noi un esempio di che cosa deve fare un Vescovo nei confronti della liturgia tradizionale: nessun ostracismo; nessun subdolo boicottaggio; nessuna indifferenza (“Sono stato esautorato: ora si arrangino!”); ma piena assunzione delle proprie responsabilità e pieno esercizio delle proprie prerogative episcopali. Fra tali responsabilità e prerogative c’è la vigilanza sulla celebrazione della liturgia (in qualsiasi forma) e, soprattutto, c’è la preoccupazione per l’unità della Chiesa. Non rimane che sperare che si possa trovare in tutti i Vescovi la stessa attenzione e premura e in tutti i sacerdoti e fedeli una corrispondente sensibilità e disponibilità.
1. Mons. Nichols, a differenza di altri confratelli nell’episcopato, non proibisce i convegni sull’antica liturgia, ma se ne fa promotore (il corso estivo per sacerdoti finalizzato all’apprendimento del modo di celebrare la Messa tridentina è stato organizzato dall’Arcidiocesi di Westminster d’intesa con la “Latin Mass Society”). E spiega il motivo di tale scelta: il Vescovo è il responsabile della liturgia nella sua Diocesi. Tale principio continua a valere anche dopo il motu proprio Summorum Pontificum: sarebbe totalmente erroneo pensare che, siccome non c’è piú bisogno del permesso del Vescovo per celebrare secondo l’antico uso, sacerdoti e fedeli siano, in questo campo, in qualche modo sottratti alla sua giurisdizione (una specie di impossibile “esenzione”). Certo, il Vescovo non può proibire la celebrazione della Messa secondo il Messale del 1962 (perché non è piú nelle sue facoltà), ma continua ad avere il diritto/dovere di vigilare su qualunque celebrazione liturgica che si svolge nella sua Diocesi, e in tale vigilanza rientra anche la verifica della corretta applicazione del motu proprio.
2. L’Arcivescovo di Westminster, inoltre, ci rammenta che esiste un solo rito romano. Novus Ordo e Vetus Ordo sono solo due forme del medesimo rito: il NO, la sua “forma ordinaria”; e il VO, la sua “forma straordinaria”. Ciò significa che le due forme godono della medesima dignità, ed entrambe hanno diritto di cittadinanza nella Chiesa. Se sarebbe sbagliato considerare, per qualsiasi motivo, illecita la celebrazione della Messa secondo l’usus antiquior (che è stato la forma ordinaria del rito romano per secoli), a maggior ragione è assolutamente inammissibile anche solo pensare che il Novus Ordo “sia in qualche modo carente”. Una simile opinione non solo è contraria al motu proprio, ma — e ciò va sottolineato — rappresenta un serio pericolo per quanti la professano: “Questi tali si stanno inesorabilmente allontanando dalla Chiesa”.
3. Un’altra verità che ci viene ricordata da Mons. Nichols è che l’Eucaristia è la sorgente e l’espressione dell’unità della Chiesa; un’unità che è, innanzi tutto, un dono che ci viene accordato. L’unità della Chiesa non si fonda sui gusti, le preferenze e le sensibilità personali, ma è qualcosa di oggettivo, che ci precede e a cui dobbiamo conformarci. Ciò che dobbiamo assolutamente evitare è qualsiasi opinione, parola o gesto che potrebbe distruggere tale unità. Una norma pratica infallibile per salvaguardare l’unità è quella di uniformarsi a quanto la Chiesa insegna e pratica. In particolare, un sacerdote dovrebbe sempre ricordare di essere un ministro della Chiesa: in campo dottrinale, non gli viene chiesto di esprimere le proprie personali opinioni, ma l’insegnamento della Chiesa; in campo liturgico, non gli viene chiesto di offrire ai fedeli i propri gusti personali, ma di celebrare la liturgia della Chiesa.
4. A questo proposito, il nuovo Arcivescovo di Westminster fa notare le conseguenze della natura ecclesiale della liturgia. Essa non è una devozione privata né, tanto meno, uno spettacolo a cui si assiste per sperimentare una sorta di piacere estetico. Essendo azione della Chiesa, essa richiede l’attiva partecipazione dei fedeli. Non si tratta di una novità della riforma liturgica, ma di una esigenza intrinseca della liturgia in quanto tale. Qualunque sia la forma di Messa che si celebra, sacerdote e ministri devono preoccuparsi di favorire tale partecipazione attiva.
Mi sembra che Mons. Nichols, a pochi mesi dalla sua nomina alla prima sede cattolica inglese, stia dando ai suoi confratelli Vescovi e a tutti noi un esempio di che cosa deve fare un Vescovo nei confronti della liturgia tradizionale: nessun ostracismo; nessun subdolo boicottaggio; nessuna indifferenza (“Sono stato esautorato: ora si arrangino!”); ma piena assunzione delle proprie responsabilità e pieno esercizio delle proprie prerogative episcopali. Fra tali responsabilità e prerogative c’è la vigilanza sulla celebrazione della liturgia (in qualsiasi forma) e, soprattutto, c’è la preoccupazione per l’unità della Chiesa. Non rimane che sperare che si possa trovare in tutti i Vescovi la stessa attenzione e premura e in tutti i sacerdoti e fedeli una corrispondente sensibilità e disponibilità.