L’altro giorno Giuliano Ferrara, prendendo spunto dalle recenti polemiche sull’ora di religione, ha lanciato da Il Foglio una interessante proposta. La Chiesa, dovrebbe, secondo lui, restituire allo Stato i “privilegi”, che le sono stati riconosciuti col Concordato, in cambio della piena libertà di educazione, sul modello americano: «Il Papa restituisce allo stato le sue prerogative concordatarie in materia di insegnamento religioso, o almeno quelle che oggi suonano come rendite di posizione anacronistiche, e lo stato spezza il monopolio culturale antiliberale costituito dalla scuola unica pubblica e dal suo mito».
La proposta mi sembra interessante per il suo carattere provocatorio, che ci induce a riflettere, ma difficilmente realizzabile, perché non si tratta di un “aggiustamento” dei vigenti accordi fra Chiesa e Stato, bensí di una vera e propria “rivoluzione” costituzionale. Oltre tutto, discutibile. Andiamo per ordine.
Che l’attuale ordinamento dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) sia il frutto di un compromesso, è stato evidente fin dal momento della firma dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense (1984). Che ci siano delle contraddizioni, non può essere negato da nessuno: si tratta di un insegnamento opzionale non confessionale, affidato a insegnanti pagati dallo Stato, ma nominati e controllati dalla Chiesa. Se l’insegnamento non è confessionale, ma culturale, non si capisce perché debba essere opzionale; si capirebbe la sua non obbligatorietà se si trattasse di una forma di catechesi (ma questa viene categoricamente esclusa). Se gli insegnanti (si badi bene, di un insegnamento non confessionale) sono pagati dallo Stato, non si vede perché debbano poi dipendere dall’autorità ecclesiastica, che ha la facoltà non solo di nominarli, ma anche di rimuoverli. Inoltre, non è stato mai chiarito l’inserimento di tale disciplina nel contesto scolastico: se ha la stessa dignità delle altre materie, dovrebbe essere in tutto equiparata a quelle (nella metodologia, nella valutazione, ecc.) e gli insegnanti dovrebbero godere degli stessi diritti-doveri degli altri docenti; ma sappiamo che tutto ciò non avviene.
Appare dunque evidente che ci sia bisogno di un riaggiustamento, che non è certo quello prospettato dal TAR del Lazio (secondo il quale “un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico”; lasciatemi dire, non hanno capito nulla). Secondo me si dovrebbe optare fra le due possibilità: o un insegnamento confessionale opzionale (una vera e propria catechesi), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (ma con il gradimento dell’autorità ecclesiastica); oppure un insegnamento non confessionale della religione cattolica, obbligatorio per tutti (tutti, anche i non credenti, hanno bisogno di conoscere la religione cattolica, se vogliono capire qualcosa della storia, della cultura e della civiltà italiana), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (senza alcun intervento dell’autorità ecclesiastica). Personalmente, non saprei che cosa sia preferibile: forse sono piú incline verso la seconda soluzione, dal momento che mi sembra piú confacente al contesto scolastico; la catechesi trova il suo ambiente naturale nella parrocchia. Sia ben chiaro che, quando parlo di insegnamento non confessionale delle religione cattolica, non mi riferisco in alcun modo a una vaga “storia delle religioni”, ma a una disciplina che abbia come oggetto la conoscenza oggettiva della religione cattolica, senza alcuna finalità si indottrinamento. In ogni caso, mi pare che la cosa piú importante sia fare chiarezza. Ma capisco che non sempre è possibile essere cosí drastici, e il piú delle volte ci si deve accontentare di soluzioni intermedie di compromesso.
Non mi entusiasma affatto invece la proposta Ferrara. Non perché non sia d’accordo con la piena libertà di educazione (potete immaginare che cosa pensi in proposito uno che ha trascorso buona parte della sua vita nella scuola cattolica); ma semplicemente perché non mi convince il modello di società che viene proposto, entro il quale tale libertà di educazione dovrebbe trovare posto.
Non meraviglia che la proposta venga da Ferrara. Il suo punto di riferimento ideale (in questo momento) è il modello americano, un modello che viene considerato pressoché perfetto e al quale tutti dovranno, prima o poi, conformarsi. Non ci si accorge che si tratta di una posizione squisitamente ideologica, che oltre tutto non tiene conto della crisi in cui quel modello versa attualmente. Quel che piú meraviglia è che l’opinione di Ferrara è largamente condivisa, non solo nel mondo laico, ma anche in quello cattolico. Avevamo già fatto notare, in altra occasione, come lo stesso Pontefice non ne sia immune. Provenendo dall’ambiente accademico, dove è data per appurata la distinzione fra la rivoluzione francese e quella americana, lui stesso ha fatto eco a tale tesi nel discorso rivolto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005: «... Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» (anche Ferrara non poteva non notare questa simpatia per il «modello americano, abbracciato e lodato da Benedetto XVI nel suo recente e profetico viaggio in America»). Ora però un gesuita americano, Padre John Navone, ci fa notare che, in realtà, «la Rivoluzione americana ebbe una notevole influenza sulla successiva Rivoluzione francese, la quale, a sua volta, esercitò un forte influsso sulle rivoluzioni latinoamericane del XIX secolo e sulla nascita delle Repubbliche a cui esse diedero vita» (“Il nazionalismo americano”: La Civiltà Cattolica, 16 febbraio 2008; un articolo che va letto per intero per la sua valutazione inedita del sistema americano, con un solo difetto: limita la sua analisi fino agli anni Novanta del secolo scorso, ignorando i successivi, certo non irrilevanti, sviluppi).
Che il sistema americano sia l’ideale di società autenticamente laica (e non laicista) è pura mitologia. Corrisponde a realtà la descrizione che fa Ferrara di tale sistema: «Quel paese costruitosi nella fuga dall’Europa delle guerre di religione, quello spirito repubblicano, quella forma del moderno, nascono come sappiamo da Toqueville all’insegna della libertà di credere, dell’autonomia dei culti, del riconoscimento pubblico dello spazio religioso, ma nella divisione piú rigorosa del campo dello stato e quello delle chiese. Lí Dio non è bandito dalla società o oscurato dall’oblio di massa, la società è ultrasecolarizzata come quella europea, ma il Creatore che legittima ogni diritto è anzi un invitato istituzionale permanente al banchetto delle idee, dei giuramenti, delle questioni non negoziabili che riguardano la cultura della legge naturale». Il problema è: di quale Creatore si tratta? Del Dio dei nostri padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe... e di Gesú Cristo, o del Grande Architetto dell’Universo (che, a quanto mi consta, non è stretto parente del Dio vivente rivelatosi in Gesú Cristo)? Ferrara critica, forse a ragione, la «strana religione repubblicana, religione della Costituzione, buona per il laicismo parrocchiale di serie B che sommerge la cultura italiana»; ma non si accorge che la presenza del Creatore al banchetto americano delle idee, dei giuramenti, ecc. fa parte di una altrettanto strana religione civica, forse meno provinciale di quella italiana, ma pur sempre estranea alla vera religione. Con una differenza: che lí vige una assoluta separazione fra Chiesa e Stato (cosa che non mi sembra poi un ideale da perseguire da parte di un cattolico), mentre in Italia, pur fra mille contraddizioni, ci si sforza di stabilire un rapporto di reciproco riconoscimento e valorizzazione, nel rispetto della distinzione dei rispettivi ruoli. E questo non mi pare poco, considerata la storia che abbiamo alle spalle (e che Ferrara descrive molto bene).
Questo non significa che allora tutto va bene, che possiamo dirci soddisfatti dei risultati raggiunti e riposare sugli allori. È evidente — come si faceva notare a proposito dell’IRC o della libertà di educazione — che ci sono problemi ancora aperti; è ovvio che c’è qualcosa da correggere nel nostro modello “concordatario”. Ma questo non significa che l’unico modello valido alternativo sia quello americano. Ci potrebbero essere altri modelli, forse piú validi di quello americano. Per esempio, io ho avuto la fortuna di sperimentare, negli ultimi anni, un modello che mi sembra migliore sia quello italiano che di quello americano, il modello filippino. Ovviamente non verrà mai in mente a nessuno di rifarsi a un paese “del terzo mondo”, che si trova oltretutto a fronteggiare gravissimi problemi di carattere sociale, politico, economico e morale. Eppure, io sono rimasto ammirato per la naturalezza con cui, in quel paese, è vissuto il rapporto fra Stato e Chiesa (pur fra inevitabili tensioni). Forse perché i filippini non hanno alle spalle tutte le vicende esaurientemente elencate da Ferrara, ma per loro la presenza del fatto religioso nella società non costituisce alcun problema: il “riconoscimento pubblico dello spazio religioso” — per dirla alla Ferrara — è pacifico, non solo per la Chiesa cattolica (che pure svolge un ruolo di grande autorevolezza, per essere la religione della stragrande maggioranza dei cittadini), ma per qualsiasi altra confessione religiosa. Quello filippino non è uno Stato confessionale; è uno Stato laico nel piú positivo significato del termine; ma in esso le Chiese hanno pieno diritto di cittadinanza, e il loro ruolo è non solo riconosciuto, ma valorizzato e apprezzato dall’autorità civile.
Per quanto riguarda il problema specifico dell’insegnamento della religione cattolica e della libertà di educazione, non mi sembra che sia necessario procedere a una sorta di baratto: rinunciare all’IRC per avere in cambio la piena libertà di educazione, con conseguente scomparsa della scuola di Stato. Sinceramente, non vedo che cosa guadagnerebbero tanto la Chiesa quanto la società civile da tale soluzione. Il riconoscimento della effettiva parità per la scuola cattolica non comporta di per sé la scomparsa della scuola di Stato: le due realtà possono tranquillamente coesistere in un regime di libera concorrenza. Personalmente non credo che la scuola di Stato abbia fatto il suo tempo, e che si debba dare spazio unicamente alla libera iniziativa: questa è pura ideologia; è l’applicazione del liberalismo al campo educativo. La crisi in cui si dibatte il sistema capitalistico, che su quell’ideologia si fonda, dovrebbe farci capire che un intervento dello Stato, non solo in campo economico, ma anche educativo, non solo è possibile, ma forse, in qualche caso, auspicabile.
Meraviglia pertanto che una simile proposta giunga proprio in un momento in cui quel sistema è in piena crisi, sta mostrando tutte le sue debolezze e, diciamolo pure, sta rivelando il suo vero volto.
La proposta mi sembra interessante per il suo carattere provocatorio, che ci induce a riflettere, ma difficilmente realizzabile, perché non si tratta di un “aggiustamento” dei vigenti accordi fra Chiesa e Stato, bensí di una vera e propria “rivoluzione” costituzionale. Oltre tutto, discutibile. Andiamo per ordine.
Che l’attuale ordinamento dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) sia il frutto di un compromesso, è stato evidente fin dal momento della firma dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense (1984). Che ci siano delle contraddizioni, non può essere negato da nessuno: si tratta di un insegnamento opzionale non confessionale, affidato a insegnanti pagati dallo Stato, ma nominati e controllati dalla Chiesa. Se l’insegnamento non è confessionale, ma culturale, non si capisce perché debba essere opzionale; si capirebbe la sua non obbligatorietà se si trattasse di una forma di catechesi (ma questa viene categoricamente esclusa). Se gli insegnanti (si badi bene, di un insegnamento non confessionale) sono pagati dallo Stato, non si vede perché debbano poi dipendere dall’autorità ecclesiastica, che ha la facoltà non solo di nominarli, ma anche di rimuoverli. Inoltre, non è stato mai chiarito l’inserimento di tale disciplina nel contesto scolastico: se ha la stessa dignità delle altre materie, dovrebbe essere in tutto equiparata a quelle (nella metodologia, nella valutazione, ecc.) e gli insegnanti dovrebbero godere degli stessi diritti-doveri degli altri docenti; ma sappiamo che tutto ciò non avviene.
Appare dunque evidente che ci sia bisogno di un riaggiustamento, che non è certo quello prospettato dal TAR del Lazio (secondo il quale “un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico”; lasciatemi dire, non hanno capito nulla). Secondo me si dovrebbe optare fra le due possibilità: o un insegnamento confessionale opzionale (una vera e propria catechesi), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (ma con il gradimento dell’autorità ecclesiastica); oppure un insegnamento non confessionale della religione cattolica, obbligatorio per tutti (tutti, anche i non credenti, hanno bisogno di conoscere la religione cattolica, se vogliono capire qualcosa della storia, della cultura e della civiltà italiana), con insegnanti pagati e nominati dallo Stato (senza alcun intervento dell’autorità ecclesiastica). Personalmente, non saprei che cosa sia preferibile: forse sono piú incline verso la seconda soluzione, dal momento che mi sembra piú confacente al contesto scolastico; la catechesi trova il suo ambiente naturale nella parrocchia. Sia ben chiaro che, quando parlo di insegnamento non confessionale delle religione cattolica, non mi riferisco in alcun modo a una vaga “storia delle religioni”, ma a una disciplina che abbia come oggetto la conoscenza oggettiva della religione cattolica, senza alcuna finalità si indottrinamento. In ogni caso, mi pare che la cosa piú importante sia fare chiarezza. Ma capisco che non sempre è possibile essere cosí drastici, e il piú delle volte ci si deve accontentare di soluzioni intermedie di compromesso.
Non mi entusiasma affatto invece la proposta Ferrara. Non perché non sia d’accordo con la piena libertà di educazione (potete immaginare che cosa pensi in proposito uno che ha trascorso buona parte della sua vita nella scuola cattolica); ma semplicemente perché non mi convince il modello di società che viene proposto, entro il quale tale libertà di educazione dovrebbe trovare posto.
Non meraviglia che la proposta venga da Ferrara. Il suo punto di riferimento ideale (in questo momento) è il modello americano, un modello che viene considerato pressoché perfetto e al quale tutti dovranno, prima o poi, conformarsi. Non ci si accorge che si tratta di una posizione squisitamente ideologica, che oltre tutto non tiene conto della crisi in cui quel modello versa attualmente. Quel che piú meraviglia è che l’opinione di Ferrara è largamente condivisa, non solo nel mondo laico, ma anche in quello cattolico. Avevamo già fatto notare, in altra occasione, come lo stesso Pontefice non ne sia immune. Provenendo dall’ambiente accademico, dove è data per appurata la distinzione fra la rivoluzione francese e quella americana, lui stesso ha fatto eco a tale tesi nel discorso rivolto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005: «... Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» (anche Ferrara non poteva non notare questa simpatia per il «modello americano, abbracciato e lodato da Benedetto XVI nel suo recente e profetico viaggio in America»). Ora però un gesuita americano, Padre John Navone, ci fa notare che, in realtà, «la Rivoluzione americana ebbe una notevole influenza sulla successiva Rivoluzione francese, la quale, a sua volta, esercitò un forte influsso sulle rivoluzioni latinoamericane del XIX secolo e sulla nascita delle Repubbliche a cui esse diedero vita» (“Il nazionalismo americano”: La Civiltà Cattolica, 16 febbraio 2008; un articolo che va letto per intero per la sua valutazione inedita del sistema americano, con un solo difetto: limita la sua analisi fino agli anni Novanta del secolo scorso, ignorando i successivi, certo non irrilevanti, sviluppi).
Che il sistema americano sia l’ideale di società autenticamente laica (e non laicista) è pura mitologia. Corrisponde a realtà la descrizione che fa Ferrara di tale sistema: «Quel paese costruitosi nella fuga dall’Europa delle guerre di religione, quello spirito repubblicano, quella forma del moderno, nascono come sappiamo da Toqueville all’insegna della libertà di credere, dell’autonomia dei culti, del riconoscimento pubblico dello spazio religioso, ma nella divisione piú rigorosa del campo dello stato e quello delle chiese. Lí Dio non è bandito dalla società o oscurato dall’oblio di massa, la società è ultrasecolarizzata come quella europea, ma il Creatore che legittima ogni diritto è anzi un invitato istituzionale permanente al banchetto delle idee, dei giuramenti, delle questioni non negoziabili che riguardano la cultura della legge naturale». Il problema è: di quale Creatore si tratta? Del Dio dei nostri padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe... e di Gesú Cristo, o del Grande Architetto dell’Universo (che, a quanto mi consta, non è stretto parente del Dio vivente rivelatosi in Gesú Cristo)? Ferrara critica, forse a ragione, la «strana religione repubblicana, religione della Costituzione, buona per il laicismo parrocchiale di serie B che sommerge la cultura italiana»; ma non si accorge che la presenza del Creatore al banchetto americano delle idee, dei giuramenti, ecc. fa parte di una altrettanto strana religione civica, forse meno provinciale di quella italiana, ma pur sempre estranea alla vera religione. Con una differenza: che lí vige una assoluta separazione fra Chiesa e Stato (cosa che non mi sembra poi un ideale da perseguire da parte di un cattolico), mentre in Italia, pur fra mille contraddizioni, ci si sforza di stabilire un rapporto di reciproco riconoscimento e valorizzazione, nel rispetto della distinzione dei rispettivi ruoli. E questo non mi pare poco, considerata la storia che abbiamo alle spalle (e che Ferrara descrive molto bene).
Questo non significa che allora tutto va bene, che possiamo dirci soddisfatti dei risultati raggiunti e riposare sugli allori. È evidente — come si faceva notare a proposito dell’IRC o della libertà di educazione — che ci sono problemi ancora aperti; è ovvio che c’è qualcosa da correggere nel nostro modello “concordatario”. Ma questo non significa che l’unico modello valido alternativo sia quello americano. Ci potrebbero essere altri modelli, forse piú validi di quello americano. Per esempio, io ho avuto la fortuna di sperimentare, negli ultimi anni, un modello che mi sembra migliore sia quello italiano che di quello americano, il modello filippino. Ovviamente non verrà mai in mente a nessuno di rifarsi a un paese “del terzo mondo”, che si trova oltretutto a fronteggiare gravissimi problemi di carattere sociale, politico, economico e morale. Eppure, io sono rimasto ammirato per la naturalezza con cui, in quel paese, è vissuto il rapporto fra Stato e Chiesa (pur fra inevitabili tensioni). Forse perché i filippini non hanno alle spalle tutte le vicende esaurientemente elencate da Ferrara, ma per loro la presenza del fatto religioso nella società non costituisce alcun problema: il “riconoscimento pubblico dello spazio religioso” — per dirla alla Ferrara — è pacifico, non solo per la Chiesa cattolica (che pure svolge un ruolo di grande autorevolezza, per essere la religione della stragrande maggioranza dei cittadini), ma per qualsiasi altra confessione religiosa. Quello filippino non è uno Stato confessionale; è uno Stato laico nel piú positivo significato del termine; ma in esso le Chiese hanno pieno diritto di cittadinanza, e il loro ruolo è non solo riconosciuto, ma valorizzato e apprezzato dall’autorità civile.
Per quanto riguarda il problema specifico dell’insegnamento della religione cattolica e della libertà di educazione, non mi sembra che sia necessario procedere a una sorta di baratto: rinunciare all’IRC per avere in cambio la piena libertà di educazione, con conseguente scomparsa della scuola di Stato. Sinceramente, non vedo che cosa guadagnerebbero tanto la Chiesa quanto la società civile da tale soluzione. Il riconoscimento della effettiva parità per la scuola cattolica non comporta di per sé la scomparsa della scuola di Stato: le due realtà possono tranquillamente coesistere in un regime di libera concorrenza. Personalmente non credo che la scuola di Stato abbia fatto il suo tempo, e che si debba dare spazio unicamente alla libera iniziativa: questa è pura ideologia; è l’applicazione del liberalismo al campo educativo. La crisi in cui si dibatte il sistema capitalistico, che su quell’ideologia si fonda, dovrebbe farci capire che un intervento dello Stato, non solo in campo economico, ma anche educativo, non solo è possibile, ma forse, in qualche caso, auspicabile.
Meraviglia pertanto che una simile proposta giunga proprio in un momento in cui quel sistema è in piena crisi, sta mostrando tutte le sue debolezze e, diciamolo pure, sta rivelando il suo vero volto.