Nei giorni scorsi Liberal ha pubblicato un commento di Michael Novak alla Caritas in veritate: “Tanta Caritas, meno Veritas”. Se devo essere sincero, non l’ho trovato cosí chiaro come mi sarei aspettato da un filosofo. Dice e non dice; un colpo al cerchio e uno alla botte: l’atteggiamento tipico di chi vorrebbe essere piú esplicito, ma… o non può, o non vuole esserlo. Su qualche osservazione si può anche essere d’accordo: p. es., “Il lavoro di redazione risulta alquanto scadente” (anche il sottoscritto, nel suo post del 9 luglio 2009, aveva rilevato una mancanza di organicità). Ma qualche giudizio appare decisamente eccessivo: p. es., “enciclica insolitamente blaterante e opaca”; “gergo burocratico”; “vi sono molte altre omissioni di fatti, insinuazioni discutibili ed errori involontari lungo tutta l’enciclica”.
Molto piú chiaro appare invece il commento di George Weigel, che era stato pubblicato il 9 luglio dal blog Fides et Forma col titolo “Caritas in veritate in oro e in rosso”. Piú che di un commento si trattava di una presentazione quanto mai interessante, perché rivelava tutti i retroscena della stesura dell’enciclica. Il titolo del post riprendeva l’idea di fondo dell’articolo di Weigel: sottolineare in oro i passi di sicura composizione ratzingeriana, e in rosso quelli dovuti alla penna della Commissione “Justitia et Pax”. Se ricordate, io stesso nel mio post avevo fatto notare l’intervento di piú mani nella composizione dell’enciclica: Weigel, che è un esperto di dottrina sociale della Chiesa, ci svela il criterio per distinguere i testi da attribuire all’una o all’altra fonte. Un articolo, ripeto, interessantissimo e in buona parte condivisibile. Come si può, per esempio, non convenire con Weigel nella critica ai passi su “gratuità” e “dono” (che si inserirebbero certamente bene in un contesto spirituale, meno in uno socio-economico) o a quelli sull’autorità politica mondiale (che potevano essere giustificati al tempo di Giovanni XXIII; oggi un po’ meno)? Anche qui però si incontrano espressioni un po’ forti: d’accordo che la Caritas in veritate sia un po’ ibrida; ma chiamarla un “ornitorinco” mi sembra sinceramente un po’ eccessivo. Che dire poi della Populorum progressio considerata il “brutto anatroccolo” delle encicliche sociali?
L’articolo di Weigel ci fa capire quale è il problema. Weigel e Novak sono due fra i maggiori esponenti del movimento cosiddetto “teocon” (si veda un veloce resoconto su tale movimento in questo post di www.chiesa). I teocon hanno avuto il loro momento di gloria durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Avete notato l’insistente riferimento all’enciclica Centesimus annus? Non escluderei che l’abbiano scritta loro: con quell’enciclica il capitalismo veniva non solo sdoganato, ma in qualche modo “santificato”. Potete immaginare perciò il loro giudizio sulla Populorum progressio e sulla Caritas in veritate, che commemora l’enciclica montiniana. Probabilmente non s’aspettavano un colpo del genere da Benedetto XVI (che passa per essere un Papa conservatore); ecco quindi il tentativo di attribuire l’enciclica a una specie di complotto della Commissione “Justitia et Pax” (“La vendetta di Giustizia e Pace”).
Da parte mia, dirò che mi sembra pienamente legittimo criticare un’enciclica sociale: non si tratta di una definizione dogmatica. In campo socio-economico-politico è possibile una pluralità di opinioni. Ma è altrettanto legittimo criticare la posizione dei teocon. Probabilmente non si sono ancora resi conto della gravità della crisi. Forse ancora pensano che il capitalismo sia il migliore dei sistemi possibili, e non si accorgono che la crisi in cui si agita il mondo attuale (a cominciare dall’America) è proprio un frutto del capitalismo. Che loro, teorici di quel sistema, non si rendano conto dei suoi limiti, può essere anche comprensibile; ma non possono pretendere che la Chiesa chiuda gli occhi di fronte alla realtà. L’enciclica è uscita con due anni di ritardo non solo per il “braccio di ferro” (che ci sarà pur stato) fra il Papa e “Giustizia e Pace”, ma soprattutto perché non si sapeva come affrontare la crisi in corso. E la crisi non è ancora terminata; non sappiamo minimamente come andrà a finire. Per questo mi sembra piú che comprensibile un atteggiamento prudente da parte della Chiesa. Non ci si può illudere che tutto vada bene semplicemente rilevando che negli ultimi anni, in Bangladesh, l’aspettativa di vita è aumentata e il tasso di mortalità infantile è diminuito (ci mancherebbe…). Forse sarebbe auspicabile, da parte dei teocon americani, un pizzico in piú di obiettività.
Molto piú chiaro appare invece il commento di George Weigel, che era stato pubblicato il 9 luglio dal blog Fides et Forma col titolo “Caritas in veritate in oro e in rosso”. Piú che di un commento si trattava di una presentazione quanto mai interessante, perché rivelava tutti i retroscena della stesura dell’enciclica. Il titolo del post riprendeva l’idea di fondo dell’articolo di Weigel: sottolineare in oro i passi di sicura composizione ratzingeriana, e in rosso quelli dovuti alla penna della Commissione “Justitia et Pax”. Se ricordate, io stesso nel mio post avevo fatto notare l’intervento di piú mani nella composizione dell’enciclica: Weigel, che è un esperto di dottrina sociale della Chiesa, ci svela il criterio per distinguere i testi da attribuire all’una o all’altra fonte. Un articolo, ripeto, interessantissimo e in buona parte condivisibile. Come si può, per esempio, non convenire con Weigel nella critica ai passi su “gratuità” e “dono” (che si inserirebbero certamente bene in un contesto spirituale, meno in uno socio-economico) o a quelli sull’autorità politica mondiale (che potevano essere giustificati al tempo di Giovanni XXIII; oggi un po’ meno)? Anche qui però si incontrano espressioni un po’ forti: d’accordo che la Caritas in veritate sia un po’ ibrida; ma chiamarla un “ornitorinco” mi sembra sinceramente un po’ eccessivo. Che dire poi della Populorum progressio considerata il “brutto anatroccolo” delle encicliche sociali?
L’articolo di Weigel ci fa capire quale è il problema. Weigel e Novak sono due fra i maggiori esponenti del movimento cosiddetto “teocon” (si veda un veloce resoconto su tale movimento in questo post di www.chiesa). I teocon hanno avuto il loro momento di gloria durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Avete notato l’insistente riferimento all’enciclica Centesimus annus? Non escluderei che l’abbiano scritta loro: con quell’enciclica il capitalismo veniva non solo sdoganato, ma in qualche modo “santificato”. Potete immaginare perciò il loro giudizio sulla Populorum progressio e sulla Caritas in veritate, che commemora l’enciclica montiniana. Probabilmente non s’aspettavano un colpo del genere da Benedetto XVI (che passa per essere un Papa conservatore); ecco quindi il tentativo di attribuire l’enciclica a una specie di complotto della Commissione “Justitia et Pax” (“La vendetta di Giustizia e Pace”).
Da parte mia, dirò che mi sembra pienamente legittimo criticare un’enciclica sociale: non si tratta di una definizione dogmatica. In campo socio-economico-politico è possibile una pluralità di opinioni. Ma è altrettanto legittimo criticare la posizione dei teocon. Probabilmente non si sono ancora resi conto della gravità della crisi. Forse ancora pensano che il capitalismo sia il migliore dei sistemi possibili, e non si accorgono che la crisi in cui si agita il mondo attuale (a cominciare dall’America) è proprio un frutto del capitalismo. Che loro, teorici di quel sistema, non si rendano conto dei suoi limiti, può essere anche comprensibile; ma non possono pretendere che la Chiesa chiuda gli occhi di fronte alla realtà. L’enciclica è uscita con due anni di ritardo non solo per il “braccio di ferro” (che ci sarà pur stato) fra il Papa e “Giustizia e Pace”, ma soprattutto perché non si sapeva come affrontare la crisi in corso. E la crisi non è ancora terminata; non sappiamo minimamente come andrà a finire. Per questo mi sembra piú che comprensibile un atteggiamento prudente da parte della Chiesa. Non ci si può illudere che tutto vada bene semplicemente rilevando che negli ultimi anni, in Bangladesh, l’aspettativa di vita è aumentata e il tasso di mortalità infantile è diminuito (ci mancherebbe…). Forse sarebbe auspicabile, da parte dei teocon americani, un pizzico in piú di obiettività.