mercoledì 30 giugno 2010

Magistero "autentico"

Lorenzo Bertocchi mi ha inviato alcune riflessioni a proposito della discussione innescata dal mio post dell’11 giugno “Gesú al centro”:

«“… Fate del Vangelo la vostra stella polare, mettete Gesú al centro della vita!”. Parole sante con cui spesso si concludono omelie, scritti spirituali, esortazioni morali e tirate giornalistiche di stampo cattolico. Purtroppo c’è il forte rischio di interpretazioni un po’ semplicistiche o soggettive. Anche il nobile “cristocentrismo” — tanto caro ad esempio a Don Giussani o Don Divo Barsotti — si riferisce all’incontro con Lui come evento che illumina e guida la vita.

Certamente riconoscere Gesú vivo e confidarsi a Lui è già azione di grazia e non può che spalancare la porta alla conversione del cuore, però di fronte alla quotidianità restiamo sempre liberi e lí occorre tradurre in pratica cosa significa “mettere Gesú al centro”. Se questo dono non ci conduce ad amare la Chiesa cattolica e con essa la sua dottrina, a riconoscere la legge come atto d’amore che ci aiuta nell’esercizio della libertà, allora questo incontro non è avvenuto, ma si riduce appunto al classico fervorino.

Il “fervorino” solitamente può essere sottoscritto da varie personalità che poi hanno idee molto diverse rispetto alla legge morale. Hans Küng, ad esempio, in un testo di qualche anno fa (Visione di una Chiesa futura, Colonia 1987) diceva che “la Chiesa ha un futuro solo se tiene presenti le sue origini e continua a prendere come norma il Vangelo, Gesú Cristo stesso”. Lo stesso Hans Küng fa poi richieste di rinuncia al celibato sacerdotale, aperture nel campo della morale sessuale, collegialità nel governo della Chiesa, ecc., tutte indicazioni che sono in contrasto con quanto proposto dalla dottrina della Chiesa cattolica. Purtroppo non mancano ecclesiastici di rango che si trovano in una situazione simile all’esempio di Küng. Da un certo punto di vista anche tutta la pubblicistica che si conclude con la Parola che “deve farsi carne” — di per sé concetto santo — se non è calato nella Chiesa mater et magistra conduce di fatto verso il soggettivismo spirituale e di conseguenza al relativismo etico.

In poche parole, è vero che bisogna diffidare dal predicozzo moralista, ma allo stesso tempo c’è da fare attenzione anche al fervorino spiritualeggiante. Senza l’autorità che interpreta la Parola in modo veritativo resta ben poco dell’incontro con Lui, o meglio resta molto difficile — a causa della ferita del peccato originale — ri-amarLo nella nostra quotidianità che ci interpella incessantemente. Primato petrino, pietà eucaristica, prassi liturgica, sacerdozio femminile, concetto di laicità, aborto, divorzio, fecondazione artificiale, regolazione delle nascite, morale sessuale, sono alcuni esempi la cui “interpretazione” chiama a riflettere su come il “fervorino” magari “scalda il cuore”, ma non è detto che aiuti l’anima a liberarsi».

Le considerazioni di Lorenzo mi trovano pienamente d’accordo. Convengo che certi principi generali, sui quali possiamo trovarci tutti d’accordo (ma non sempre, giacché spesso le divergenze nascono già a livello intellettuale), a un certo punto debbano tradursi in vita vissuta. È ovvio che tale applicazione non possa essere lasciata all’esclusiva iniziativa dei singoli: cadremmo in una sorta di “libero esame”, difficilmente compatibile con la professione della fede cattolica. È necessario che ci sia un interprete autorevole che, fra le varie interpretazioni personali della parola di Dio, discerna quella giusta, alla quali tutti dobbiamo poi conformarci. Per noi cattolici non c’è dubbio a chi spetti tale discernimento:

«Il compito di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità viene esercitata a nome di Gesú Cristo» (Dei Verbum, n. 10; cf Catechismo della Chiesa cattolica, n. 85).

Tale testo appare molto interessante e meritevole di una lettura attenta. Innanzi tutto, si parla di “interpretazione autentica” della parola di Dio. Naturalmente, chiunque può interpretare la parola di Dio; ma la sua interpretazione sarà una semplice interpretazione personale. Quella del Magistero è invece un’interpretazione autentica. Che significa? Se andiamo a cercare su un dizionario, per “autentico” troveremo le seguenti definizioni: «che è vero, non falso e che si può provare come tale; di racconto o notizia, conforma alla realtà; che è realmente tale». Definizioni che si possono, in qualche modo, applicare anche al concetto di “interpretazione”, ma che non colgono il suo significato specifico. Mi pare che il senso proprio di “autentico” in questo contesto sia quello espresso da Ottorino Pianigiani, nel suo Vocabolario etimologico della lingua italiana: «Dicesi di ciò che ha autore certo e che perciò fa autorità. Quindi autentici sono gli atti solennemente fatti per mano di notaro o di altro pubblico ufficiale». Tale definizione sembrerebbe confermata, nel testo della Dei Verbum, da quel riferimento all’autorità del Magistero, che viene esercitata a nome di Gesú Cristo.

Ci si potrebbe anche chiedere che cosa significa “interpretare”. Certamente non si tratta solo di un’interpretazione astratta (il significato delle parole), ma anche di un’applicazione della parola di Dio alle situazioni concrete. Per esempio, nel decreto sull’apostolato dei laici, il Concilio afferma:

«Per quanto riguarda le opere e le istituzioni di natura temporale, il compito della gerarchia ecclesiastica consiste nell’insegnare e interpretare autenticamente i principi dell’ordine morale da seguire nelle cose temporali; è anche in suo potere, tutto ben considerato e servendosi dell’aiuto di esperti, giudicare della conformità di tali opere e istituzioni ai principi morali, e stabilire che cosa è richiesto per custodire e promuovere i beni di ordine soprannaturale» (Apostolicam actuositatem, n. 24).

La Dei Verbum afferma poi che l’interpretazione autentica spetta esclusivamente al Magistero. Chiunque, dicevamo, può interpretare la parola di Dio, ma solo il Magistero la interpreta autenticamente. Non esistono altri interpreti autentici. I teologi, che spesso si sono spacciati per una sorta di magistero alternativo, non interpretano autenticamente la parola di Dio: la loro, per quanto rispettabile, rimarrà sempre un’interpretazione personale.

Infine, la costituzione conciliare determina il sostantivo “magistero” con un aggettivo che non può essere trascurato: “vivo”. Quando si parla di magistero non ci si riferisce esclusivamente al magistero del passato. Certamente questo non può essere ignorato, proprio perché espressione di una tradizione continua, “vivente” appunto. Ma proprio perché si tratta di una tradizione vivente, non si può pensare che il magistero della Chiesa si sia fermato cinquant’anni fa; esso continua a essere esercitato dagli attuali successori degli apostoli, perché altrimenti non si tratterebbe piú di magistero vivo.

A proposito dei Vescovi, il Concilio (Lumen gentium, n. 25) li definisce «autentici maestri, insigniti cioè dell’autorità di Cristo» (doctores authentici seu auctoritate Christi praediti), confermando ancora una volta che l’autenticità ha a che fare con l’autorità ricevuta da Cristo. Nel medesimo contesto, il Concilio parla pure di “magistero autentico del Romano Pontefice”. Ma qui sembrerebbe che l’aggettivo “autentico” venga contrapposto a o, per lo meno, distinto da “infallibile”, nel senso che il magistero autentico è molto piú vasto di quello infallibile. Dice la Lumen gentium:

«Questa religiosa adesione della volontà e dell’intelligenza va prestata in modo particolare al magistero autentico del Romano Pontefice, anche quando non parla ex cathedra, cosí che il suo supremo magistero sia accolto con riverenza, e si aderisca sinceramente alle sentenze da lui proposte, secondo la sua mente e la sua volontà intenzionale (iuxta mentem et voluntatem manifestatam ipsius), che si manifesta specialmente sia nella natura dei documenti, sia nella frequente riproposta della stessa dottrina, sia nel tenore dell’espressione verbale».

Anche tale testo è importante, perché ci offre alcuni criteri su come recepire il magistero del Papa. Esso ci fa capire che gli interventi pontifici non hanno tutti lo stesso valore. Questo potrebbe apparire ovvio, se si prendessero in considerazione le sue affermazioni inter pocula, alle quali certo non si può dare il valore di una definizione dogmatica. Ma anche interventi di un certo rilievo non necessariamente hanno valore magisteriale. Lo afferma espressamente Benedetto XVI nella premessa al suo Gesú di Nazaret:

«Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore”. Perciò ciascuno è libero di contraddirmi» (nell’edizione italiana, a p. 20).

Ciò che vale per il Sommo Pontefice vale, a maggior ragione, per i singoli Vescovi. Non basta che un Vescovo parli per esercitare il magistero. Nel caso dei Vescovi, perché essi possano essere considerati “autentici maestri”, è necessario che ci sia comunione tra loro e, soprattutto, col Papa.

È ovvio che questo non può diventare un alibi per disattendere gli interventi dei Pastori della Chiesa, come avvenne nel caso della Humanae vitae, quando molti teologi invitarono i fedeli a non curarsene, perché, secondo loro, priva della nota dell’infallibilità (al contrario della loro opinione, sempre e comunque dotata del carisma dell’infallibilità, ovviamente).

Per capire quali sono i casi in cui un cattolico deve sentirsi obbligato ad adeguarsi al magistero ecclesiale, può essere utile riproporre i tre commi conclusivi dell’attuale professione di fede, richiesta a quanti assumono un ufficio da esercitarsi a nome della Chiesa:

«Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.

Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.

Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo».

Tutto ciò che non rientra nei suddetti casi, non credo che possa essere considerato “magistero autentico” e perciò vincolante. Se il Papa ci lascia liberi di contraddirlo a proposito di Gesú di Nazaret, penso che, a maggior ragione, ci si possa sentir liberi — tanto per fare un esempio — di avanzare riserve sull’opportunità della costituzione di un nuovo dicastero, di cui, francamente, al momento nessuno sentiva la necessità. Non credo che non si sia buoni cattolici e che si manchi di rispetto al Papa se si pensa — e si dice — che certe decisioni lasciano il tempo che trovano. Anche perché qualcuno, qualche anno fa, lo aveva già detto:

«Quanti piú apparati noi costruiamo siano anche i piú moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli questo esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova» (Joseph Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, discorso all’XI Meeting per l’amicizia tra i popoli, Rimini, 1° settembre 1990; successivamente ripreso in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, 1991, p. 105).

sabato 26 giugno 2010

Come muore una Chiesa

Si potrebbe fare della facile ironia su quanto avvenuto nei giorni scorsi a Bruxelles. Basterebbe citare qualche proverbio. Allo Stato belga si potrebbe rinfacciare: «Il bue dice cornuto all’asino». Ai Vescovi belgi si potrebbe rammentare che «chi pecora si fa, il lupo se la mangia». E alla Segreteria di Stato si potrebbe rimproverare di aver chiuso la stalla quando i buoi erano già scappati. Ma il fatto è di una gravità tale da non permettere sorrisi spensierati. Esso dovrebbe piuttosto stimolare alcune riflessioni.

1. Ecco come si riduce una Chiesa, che aveva fatto dell’apertura e dell’aggiornamento la sua bandiera. Sembravano i primi della classe. Roma appariva sempre retrograda, legata al passato, incapace di cogliere il nuovo e di camminare al passo coi tempi. Loro invece, ispiratori e artefici del rinnovamento conciliare, avevano capito tutto; loro stavano plasmando una nuova Chiesa finalmente adeguata all’uomo contemporaneo. Abbiamo visto i risultati: una Chiesa moribonda, che non vuole prendere atto del suo fallimento, e preferisce morire piuttosto che riconoscere umilmente i propri errori. L’immagine di quella conferenza episcopale “sequestrata” per un giorno intero e che non sa dire di meglio che «non è stata un’esperienza gradevole, ma tutto si è svolto in maniera corretta», descrive bene l’agonia di una Chiesa che sta morendo e accetta rassegnata la propria fine.

2. Ecco l’Europa in cui viviamo. Noi pensavamo di vivere in paesi democratici, dove è possibile esprimere liberamente la propria fede e dove la Chiesa gode di piena autonomia. Ci troviamo, in realtà, in un sistema totalitario, dove la libertà di azione della Chiesa si va man mano riducendo. Il potere (che, nonostante le apparenze, non è un potere democratico) non può tollerare che esistano realtà sottratte al suo controllo. La Chiesa può esistere, certo, ma come semplice associazione di cittadini; come il circolo del tennis, tanto per intenderci. La Chiesa deve limitarsi all’organizzazione di alcune attività di culto; per il resto, esiste esclusivamente lo Stato, portatore di un potere assoluto, a cui nessuno può in alcun modo sottrarsi. Questo è il futuro che attende la Chiesa in Europa. Inutile farsi illusioni. Fossi il Papa, ci penserei due volte prima di mettere piede in Inghilterra: si trova sempre un giudice Garzón qualsiasi, pronto a spiccare un mandato di cattura internazionale...

3. Che si sia arrivati a questo punto è certamente il risultato di una congiura che affonda le radici lontano nel tempo; ma è anche colpa della Chiesa, che ha prestato il fianco a tale attacco. Innanzi tutto, negando che esistesse un complotto ben pianificato contro di lei. Secondo, contribuendo fattivamente alla demolizione di sé stessa. È da decenni che si continua a ripetere che la Chiesa deve liberarsi dal potere, deve rinunciare ai suoi privilegi, deve ridiventare povera, ecc. Evidentemente, i sostenitori di tali suggestive teorie non hanno studiato la storia, e non sanno che, se la Chiesa ha, col passare dei secoli, acquisito anche un certo “potere temporale”, lo ha fatto solo per garantirsi quel minimo di libertà necessario per svolgere la propria missione. Non hanno capito che il mondo ha sempre fatto di tutto per impedire alla Chiesa di muoversi liberamente. Già, ma le anime belle non hanno mai pensato che qualcuno potesse avercela con la Chiesa, con tutto il bene che fa... Guardate che cosa è accaduto in questi giorni in Germania: la corte suprema ha dichiarato legittima l’eutanasia nel caso in cui ci sia la volontà del paziente (vedi qui). Pensate che i Vescovi tedeschi potranno dire qualcosa, dopo quanto accaduto nei mesi scorsi? E se dovesse scoppiare una guerra con l’Iran, pensate che il Papa potrebbe anche solo fiatare? Il messaggio convogliato dalla campagna contro la pedofilia nella Chiesa è stato piuttosto chiaro.

4. Molti sono convinti che, tutto sommato, questa buriana non possa far che bene alla Chiesa, costringendola alla purificazione. Che tutto rientri in un misterioso disegno divino e che tutto concorra al bene di quanti amano Dio (Rm 8:28), non sarò certo io a negarlo. Che la Chiesa abbia sempre bisogno di purificazione, non si può in alcun modo mettere in discussione. Ma, come ho già avuto occasione di dire, sarebbe illusorio pensare che si possa giungere su questa terra a una Chiesa tutta pura: il peccato nella Chiesa c’è sempre stato e sempre ci sarà. Sappiamo a che cosa ha portato la furia giacobina contro la corruzione: alla ghigliottina (che peraltro è stata incapace di eliminare la corruzione stessa). La Chiesa, nella sua secolare saggezza, ha sempre preferito seguire un’altra strada: ha preferito “gestire” certe situazioni al suo interno, gelosa della sua autonomia, perché sapeva a che cosa avrebbe portato la rinuncia a certi “privilegi”. Meglio correre il rischio di avere al proprio interno qualche elemento indegno, piuttosto che diventare ostaggio di un potere senza scrupoli ed essere con ciò impedita di annunciare il Vangelo e servire l’umanità.

Inviterei gli appasssionati sostenitori di una sconsiderata politica della “trasparenza” e della “tolleranza zero” a guadare a ciò che è accaduto a Bruxelles, per vedere a che cosa porta, inevitabilmente, quel tipo di politica.

mercoledì 23 giugno 2010

I giocatori, la squadra e... la panchina

È da un po’ di tempo che non mi occupo di “politica vaticana”. Non è che mettere il naso nei corridoi della Curia Romana mi entusiasmi piú di tanto; anche perché mi vado sempre piú convincendo che la partita non si gioca tanto dentro le mura vaticane: è in periferia (se si può parlare in questo caso di una “periferia”) che si gioca il futuro della Chiesa. La Curia svolge un suo ruolo, certo importante, forse addirittura insostituibile, ma pur sempre relativo. Ogni tanto però ci si può pure lasciare andare un pochino e, come dicono a Milano, “contarsela su”, senza nessuna pretesa e senza prendersi troppo sul serio.

Giorni fa, Sandro Magister paragonava la Curia Romana a una squadra di calcio: «Come commissario tecnico della curia, papa Ratzinger ha poco da esultare. La sua squadra non gli dà mica tanto retta. Ciascun giocatore va per conto suo e ogni tanto ci scappa l’autogol». Personalmente, sono d’accordo con l’idea che Magister vuole comunicare; ma andrei piano a fare certi paragoni, perché di solito, quando la squadra non funziona, il primo a saltare è proprio il mister. Forse sarebbe meglio paragonare il Papa al presidente della società, piú che all’allenatore. Ovviamente anche il presidente ha le sue responsabilità (se la squadra continua a perdere, i tifosi di solito se la prendono proprio col presidente, perché magari cambi, appunto, l’allenatore; ma non possono certo pretendere che cambi il presidente stesso).

È vero che, anche nelle vesti di “presidente della società”, a Benedetto XVI si potrebbe muovere l’appunto di non saper scegliere i propri collaboratori. Il nostro Papa ha delle grandissime doti; ma finora — sia detto senza offesa — non ha dimostrato di sapersi trovare dei buoni aiutanti. Al contrario, al suo predecessore si potevano fare mille critiche, ma non certo questa: era sempre capace di mettere la persona giusta al posto giusto (basti pensare al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!).

Ma, come si diceva, è meglio che la figura del presidente rimanga fuori dalle polemiche; anche perché il problema, in questo momento, non è lui, quanto piuttosto la “panchina”: è questa che attualmente sembra non funzionare molto in Vaticano. Se si vuole che ci sia un gioco di squadra, bisogna che l’allenatore cambi schema tattico.

Proprio oggi Messainlatino.it ha pubblicato la traduzione di un post dell’Osservatore Vaticano, dove vengono ampiamente illustrati tre casi di recente malfunzionamento della Curia Romana (la mancata proclamazione del Santo Curato d’Ars a patrono di tutti i sacerdoti; la gestione del caso Thiberville; la rinuncia del Card. Pell a Prefetto della Congregazione per i Vescovi). La conclusione del post merita di essere riportata:

«La necessità per il Santo Padre di risparmiare le sue forze, ad esempio riducendo drasticamente il numero delle udienze private, le attenzioni vigili con cui è circondato, ma che sono altrettanti filtri (da due mesi, ad esempio, il numero delle persone — fino ad allora un centinaio — che salutava alla fine delle udienze pubbliche è stato ridotto ad una semplice fila di sedie), il peso del suo intenso lavoro intellettuale solitario, la necessaria concentrazione sulle decisioni, maturate a lungo, e che dipendono solo da lui, fanno che l’esigenza di un vero “primo ministro” sarebbe vitale.

«Qualunque siano le critiche che potevano essere loro rivolte, uomini come il Sostituto Benelli, il Segretario di Stato Casaroli, o il suo successore Sodano, occupavano fortemente il terreno curiale, imprimevano a quel pesante e complesso organismo una linea, certo altamente discutibile, ma leggibile.

«Invece, è tutto il contrario di un Richelieu chi occupa oggi il posto di Segretario di Stato».

Lungi da me voler infierire sul povero Card. Bertone; vorrei solo che ci si rendesse conto di quanto sia importante il ruolo della Segreteria di Stato per il buon funzionamento della macchina curiale. Non si può pretendere che faccia tutto il Santo Padre. Secondo me, il Papa dovrebbe rimanere il piú possibile fuori dalle beghe di Curia: ovviamente è lui che deve dare le dritte e deve poi vigilare che tutto si svolga secondo le proprie indicazioni; ma ci deve essere qualcun altro che faccia funzionare la macchina; non può farlo il Papa. È bene che questi si dedichi a tempo pieno al suo ministero pastorale; ma la Curia non può essere abbandonata a sé stessa, non può rimanere in preda all’anarchia. Essa non può ridursi a un campo di battaglia dove si scontrano lobby contrapposte, o a un campo da gioco dove si misurano le ambizioni di ecclesiastici malati di protagonismo, o alla piazza di un mercato dove si ritrovano a contrattare affaristi senza scrupoli. Essa dovrebbe piuttosto apparire come l’austero luogo di lavoro di solerti funzionari che prestano in silenzio il loro disinteressato servizio alla Chiesa. Perché questo possa avvenire, occorre che ci sia un “moderator Curiae” efficiente, il cui unico compito sia quello di far funzionare la Curia. Nella Curia Romana ridisegnata da Paolo VI tale compito spetta al Segretario di Stato: è lui che deve prendere in mano la situazione e far sí che la macchina, che già esiste, funzioni. I giocatori ci sono; quel che manca è la squadra.

sabato 19 giugno 2010

"Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?"

Il mio post di una settimana fa “Gesú al centro” ha avuto l’onore di essere ripreso e commentato da due blog legati alla liturgia, per quanto su fronti opposti: Messainlatino.it e Liturgia Opus Trinitatis. La cosa non può che farmi piacere, anche perché entrambi dicono di condividere la sostanza del discorso. Non è un risultato da poco riuscire a ottenere, oggi come oggi, da “destra” e da “sinistra”, un consenso di fondo: significa che, nonostante le differenze di opinione spesso radicali, su certi punti ci si può trovare d’accordo.

Anch’io accolgo in linea di massima le osservazioni che sono state fatte, perché sono pienamente consapevole che le mie affermazioni non possono in alcun modo essere assolutizzate. Rileggendo il mio post, mi sono accorto che, nonostante le precauzioni, qui e là vengono fuori frasi un po’ troppo perentorie: «Inutile attendere riforme promosse dalla gerarchia; non è mai avvenuto nella storia della Chiesa. Le uniche riforme reali, durature, sono state quelle partite dal basso». Un pizzico di cautela in piú non avrebbe guastato. Forse ha ragione Padre Augé ad affermare che le riforme vengono un po’ dal basso e un po’ dall’alto: solitamente la gerarchia fa propria una spinta proveniente dalla base e poi la estende a tutta la Chiesa. Questo è avvenuto nel Cinquecento: l’opera del Concilio di Trento non sarebbe comprensibile senza la previa azione della cosiddetta “riforma cattolica”, e non sarebbe stata efficace se non fosse stata incarnata da quelle nuove realtà (penso soprattutto ai nuovi ordini religiosi) che andavano sorgendo in quegli anni nella Chiesa. Questo è avvenuto ai nostri giorni, come giustamente rileva Padre Augé, col Concilio Vaticano II che, recependo le istanze del movimento liturgico, si è fatto promotore della riforma liturgica. Personalmente allargherei il discorso anche agli altri “movimenti” del Novecento (biblico, ecumenico, ecc.). Anzi, per affrancare il Vaticano II da quella sorta di assolutizzazione di cui è stato fatto oggetto, probabilmente esso andrebbe ripensato proprio situandolo all’interno di questo cammino della Chiesa, considerandolo come una tappa — certo importante, ma pur sempre una tappa — di un “movimento” continuo suscitato dallo Spirito.

Messainlatino.it, pur condividendo “il nocciolo del messaggio”, lamenta che, dopo una diagnosi adeguata, esso vada a finire in piscem. “Rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” sarebbe solo un vuoto fervorino, se non si traduce in un preciso programma di restaurazione dottrinale e disciplinare: «Chiarire che cosa sia un prete, antropologicamente e teologicamente, e ancor piú praticare una liturgia solida nell’impianto dottrinale e soprattutto capace di trasmettere la pienezza dell’ortodossia, sono la ricetta, il mezzo, lo strumento per ritornare a Cristo. La Messa della Tradizione della Chiesa, ininterrotta fino al ’69, lungi dal rappresentare “forme esteriori”, è l’imprescindibile, obbligato cammino “per rimettere al centro della vita ecclesiale il Signore Gesù”».

Riconosco che noi preti abbiamo il difetto di concludere solitamente i nostri discorsi con un “fervorino”: è un po’ il difetto del mestiere. Capisco che quel che si dice o si scrive possa essere sempre interpretato semplicemente come una serie di belle parole. Ma questo vale per tutti: quando parliamo, dobbiamo necessariamente servirci di parole; non possiamo fare altrimenti. Quelle che pronunciamo sono parole, e non possono essere altro che parole. Anche quelle che troviamo nel vangelo sono parole. Perché queste parole non rimangano parole vuote (flatus vocis, direbbero gli scolastici), perché esse non si trasformino in slogan, è necessario che ci sia qualcos’altro; è necessario che tra chi pronuncia quelle parole e chi le ascolta esista una “sintonia”; è necessario che ci sia qualcosa che li accomuni, qualcosa che non può essere comunicato con le parole, ma che sia ad esse previo. E questo qualcosa può nascere solo da un’esperienza di vita, da una condivisione, da un incontro. Per poter comprendere il vangelo devo prima incontrare Cristo, devo prima vivere nella Chiesa; altrimenti esso rimane per me ermetico: una serie di parole prive di qualsiasi significato.

Se dico che è necessario “rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” e questo non viene capito, non posso farci nulla; non esistono altre parole per poter esprimere quello che intendo dire. Se quella frase rimane un “fervorino” o uno slogan, vuol dire che manca la sintonia previa, che io non posso creare: o c’è o non c’è. Se non si riesce a capire che la liturgia e il celibato sono certamente importanti, ma non sono il primum; che essi hanno un senso e un valore esclusivamente se riferiti a Cristo, il quale, solo, è «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22:13); se non si capisce questo, io non so che farci. Se si sente il bisogno che da espressioni apparentemente astratte come “Gesú al centro” si passi immediatamente a conclusioni “pratiche”; se si confonde la realtà con i suoi segni; se si assolutizzano le mediazioni come se fossero piú importanti del mistero che esse rappresentano; io non so che fare, perché non ho strumenti per comunicare l’incomunicabile; posso solo continuare a ripetere certe parole, sapendo che da alcuni saranno comprese e da altri no. Che poi esista anche il problema, certamente non trascurabile, delle mediazioni stesse, sono pienamente d’accordo. Quel che mi interessa, in questo momento, è che esso non è il primo problema.

Ciò detto, devo aggiungere che non era questo l’obiettivo principale del mio post. L’abolizione del celibato e la messa in latino erano solo due esempi, volutamente contrapposti, scelti per far capire che, sia a “destra” che a “sinistra”, si suggeriscono ricette insufficienti; ci si ferma in superficie; non si coglie il problema di fondo. Il mio intento non era quello di polemizzare con i sostenitori dell’abolizione del celibato o con i fautori del ritorno alla liturgia tradizionale, ma di mettere in guardia da un pericolo piú sottile, che si sta diffondendo nella Chiesa senza che noi ce ne accorgiamo: il pericolo del moralismo. La campagna mediatica contro la diffusione della pedofilia fra il clero ci ha inevitabilmente portati a reclamare “pulizia” nella Chiesa. Esigenza piú che legittima: che la Chiesa sia “sancta simul et semper purificanda” (Lumen gentium, n. 8) è un dato di fatto; ma proprio per questo (perché semper purificanda) non ci facciamo illusioni che possa esistere, su questa terra, una Chiesa di soli puri. La Chiesa — diceva Papa Callisto — è come l’arca di Noè, che accoglie nel suo seno animali puri e impuri, e tutti conduce alla salvezza.

Nell’articolo di Ida Magli, che era stato all’origine del mio post, mi avevano colpito due punti:
1. «Soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa» (e su questo, penso, è stato detto abbastanza);
2. «Non è la pedofilia il problema piú grave della Chiesa attuale ... Il pericolo mortale è quello denunciato da [don Luigi] Giussani: la mancanza del Gesú vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa».

Su questo secondo punto, mi sembra, non ci si è soffermati abbastanza; ma forse è il punto capitale. Si pensa che il problema odierno della Chiesa sia la sua “corruzione” interna: immoralità, coinvolgimento negli affari, carrierismo, ecc. Che questi problemi esistano e siano problemi reali, che vanno in qualche modo circoscritti, non lo nego. Dico solo che non sono questi i problemi piú gravi della Chiesa. C’è un problema piú urgente, ma del quale ho l’impressione che non ci preoccupiamo abbastanza: la crisi di fede, da cui tutti gli altri problemi derivano. È di questo che dobbiamo preoccuparci: abbiamo ancora fede? Crediamo ancora veramente nella presenza, nella centralità, nel ruolo unico e insostituibile di Gesú Cristo nella storia e nella nostra vita personale ed ecclesiale? Gesú non si è chiesto se, al suo ritorno, troverà una Chiesa impeccabile; si è chiesto piuttosto: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18:8).

lunedì 14 giugno 2010

Il martirio di Mons. Padovese e lo "scontro di civiltà"

Una volta tanto, pienamente condivisibile l’intervento di Alberto Melloni sul Corriere di oggi, a proposito del martirio di Mons. Luigi Padovese. Si tratta di una risposta a chi vorrebbe strumentalizzare l’episodio a fini politici. Non è mancato nei giorni scorsi, fra i neocon di casa nostra, chi avrebbe gradito che la Chiesa indicesse una nuova crociata contro i saraceni per vendicare l’uccisione del Vescovo missionario. Giustamente controbatte Melloni: «Un martirio che non sia occasione per predicare il vangelo dell’amore dei nemici, del perdono di chi uccide, sarebbe vilipeso: anche oggi, con buona pace dei post-huntingtoniani» (i seguaci cioè di Samuel P. Huntington, teorico dello “scontro delle civiltà”). Molto bella la riflessione finale, che collega il martirio di Mons. Padovese al momento critico che sta vivendo la Chiesa:

«In questi tempi grigissimi, nei quali la bufera scuote la chiesa, il segno del martirio torna dunque come un segno di grazia, una consolazione a caro prezzo ... Nella chiesa, senza nulla togliere alla gravità dei crimini per i quali chiedere perdono a Dio, permane una riserva di mitezza, di umiltà disarmata, di semplicità di vita che come tale espone alla violenza, sia essa folle o ispirata, e che fa da contrappeso invisibile alle meschinità che la insidiano, da fuori e da dentro».

A qualcuno tale atteggiamento potrà apparire arrendevole, rinunciatario, se non addirittura imbelle. In realtà, si tratta dell’unico atteggiamento possibile per un cristiano: le stesse vittime, che — non dimentichiamolo — hanno amato profondamente i loro carnefici, non tollererebbero che qualcuno si sentisse autorizzato a “vendicare” il loro sacrificio.

Ciò non significa che non sia legittimo esigere che si faccia chiarezza. Ha pienamente ragione Mons. Ruggero Franceschini, Arcivescovo di Smirne e, ora, Amministratore apostolico dell’Anatolia, a chiedere: «Noi vogliamo tutta la verità, ma solo la verità». Ma anche le parole di Mons. Franceschini, riportate dall’agenzia AsiaNews, non possono in alcun modo essere strumentalizzate; non posso essere sbrigativamente interpretate come pista verso un omicidio di matrice islamica. Esse vanno lette molto attentamente:

«Io credo che per questo assassinio, che ha un elemento cosí esplicitamente religioso, islamico, siamo di fronte a qualcosa che va al di là del governo; va oltre, verso gruppi nostalgici, forse anarchici, che vogliono destabilizzare lo stesso governo.

«La stessa modalità con cui è avvenuta l’uccisione serve a manipolare l’opinione pubblica. Dopo avere ucciso il vescovo, il giovane Murat Altun ha gridato: “Ho ucciso il grande satana. Allah Akbar”. Ma questo è davvero strano. Murat non aveva mai detto queste frasi violente. Io lo conoscevo da almeno 10 anni. Sono io che l’ho assunto al lavoro per la Chiesa. E non si era mai espresso in questo modo. Non era un musulmano praticante. Era un giovane che aveva una cultura cristiana, senza essere cristiano. Né lui, né suo padre erano delle persone nostre nemiche. A mio avviso, sono stati uno strumento nelle mani di altri.

«L’uso del rituale islamico serve per deviare le interpretazioni: è come suggerire che la pista è religiosa e non politica. Inoltre, spingendo all’interpretazione religiosa, di un conflitto fra islam e cristiani, si riesce ad infiammare l’opinione pubblica in un ambito in cui noi siamo debolmente creduti e non abbiamo alcuna forza. Del resto, anche il primo ministro Erdogan ha gli appoggi piú forti non nell’islam radicale, ma in quello moderato. E temo che ormai non abbia piú nemmeno quello».

Non è facile comprendere che cosa vuol dire Mons. Franceschini: dice e non dice. Ma una cosa è certa: la realtà è estremamente complessa. Proprio per questo non è possibile giungere a conclusioni troppo sbrigative, che qualcuno, forse, ha interesse a favorire.

Fa riflettere che certi fatti (pensiamo anche all’assassinio di don Andrea Santoro del 2006) avvengano proprio in Turchia, in un paese laico o, al massimo, islamico moderato. Come mai non avvengono in quei paesi arabi dove il fanatismo islamico è piú forte? Forse, per capire, bisogna tener conto della storia della Turchia: nell’impero ottomano i cristiani costituivano una ragguardevole minoranza (se non erro, raggiungevano il 20% della popolazione) e avevano vissuto pacificamente per secoli con la maggioranza musulmana. Fu proprio quando la Turchia si apprestava a divenire un paese “laico” che la componente cristiana fu praticamente annientata (dagli artefici della moderna Turchia: i “giovani turchi”): si pensi al genocidio armeno, ai massacri e alle deportazioni dei greci e degli assiri, in concomitanza con la prima guerra mondiale.

Dopo questa “pulizia etnica” la situazione era parsa tranquillizzarsi. Come mai, proprio ora che al governo c’è un partito islamico moderato, che sta operando una vera e propria rivoluzione, estromettendo tutta l’antica classe dirigente legata alla massoneria e ai dunmeh, come mai proprio ora rivengono fuori questi attacchi ai cristiani e — sarà un caso — proprio in concomitanza con le visite papali (in Turchia nel caso di don Santoro, e a Cipro in quest’ultimo caso). Non sarà che ci sia qualcuno che ha interesse a tenere desto l’odio fra cristiani e musulmani e a fomentare lo “scontro di civiltà”?

venerdì 11 giugno 2010

Gesú al centro

L’altro ieri Ida Magli ha pubblicato un breve articolo sul Giornale dal titolo “Senza Gesú sta morendo la Chiesa”. La tesi centrale — assolutamente condivisibile — dell’intervento è la seguente: «Non è la pedofilia il problema piú grave della Chiesa attuale, sebbene siano in molti a crederlo e forse la Chiesa stessa. Il pericolo mortale è quello denunciato da [don Luigi] Giussani: la mancanza del Gesú vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa; del Gesú che ha parlato alla mente, al cuore degli uomini, non di sessualità, o di diritti, o di poveri, ma di ciò che li definisce “uomini” al di là da questo, della certezza del proprio essere uomini anche senza di questo».

Ma, al di là di questo, ciò che mi ha colpito maggiormente sono le seguenti parole: «Soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa, armato solo delle parole di Gesú, come dimostra la storia del passato, dai movimenti penitenziali alla predicazione popolare, a San Francesco». Comincio a convincermi che la Magli abbia proprio ragione. Finora abbiamo atteso le riforme dall’alto; ma non abbiamo visto nulla. Forse è giunto il momento di rimboccarci le maniche e assumere le nostre responsabilità: la Chiesa non cambierà finché noi, finché io non cambierò.

Inutile attendere riforme promosse dalla gerarchia; non è mai avvenuto nella storia della Chiesa. Le uniche riforme reali, durature, sono state quelle partite dal basso. Non attendiamo dalla gerarchia quel che essa non può dare; non carichiamola di pesi che non è in grado di portare. Accontentiamoci che essa ci indichi la strada da percorrere; il resto, poi, dobbiamo farlo noi.

È stata la grande illusione del Vaticano II: convocare un concilio che, con le sue riforme, rinnovasse la Chiesa. Sappiamo come è andata a finire. Ora attendiamo dal Papa che rimetta tutto a posto. Gli anni passano; ma, almeno per il momento, non si vede nulla: avrebbe dovuto riformare la curia, ma l’impressione che si ha è che essa funzioni sempre peggio; si attendava una “riforma della riforma” liturgica, ma, a parte qualche vecchio merletto tirato fuori dalla naftalina, non si direbbe che la liturgia abbia ricevuto un nuovo impulso nella Chiesa. Ma forse è sbagliato lamentarsi che gli anni passano e non si vede nulla; è sbagliato perché probabilmente sono quelle attese stesse a essere sbagliate. Se, invece di attendere che il Papa inizi a cambiare qualcosa (poveretto, non gli è riconosciuto neppure il diritto di proclamare il Santo Curato d’Ars patrono dei sacerdoti!), se incominciassi io a cambiare qualcosa in me stesso e intorno a me, allora forse la Chiesa inizierebbe a rinnovarsi.

Vi pregherei di dare un’occhiata al seguente video: esprime bene quel che voglio dire.





Se, invece di continuare a lamentarci di come ci è stata passata la palla, pensassimo a schiacciarla bene, la partita sarebbe già vinta.

Ma, direte voi, in che cosa consiste, nel nostro caso, “schiacciare bene la palla”? Qualcuno potrebbe pensare che, visto che le riforme conciliari non hanno ottenuto il loro effetto, la soluzione consista nel tornare sic et simpliciter alle forme precedenti al Concilio. Sarebbe ripetere lo stesso errore compiuto dagli ideologi del Vaticano II: pensare che il rinnovamento della Chiesa consista esclusivamente in un cambiamento delle sue forme esteriori. Mi pare che, anche a questo proposito, Ida Magli, riprendendo un’intuizione di don Giussani, abbia colto il nocciolo della questione: «La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità perché ha dimenticato chi era Cristo...». Il problema è tutto qui: il problema non è né l’abolizione del celibato né la messa in latino (per quanto si tratti di problemi rispettabilissimi, di cui è legittimo discutere), ma rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú.

mercoledì 9 giugno 2010

Grazie!

Eccellenze Reverendissime,

siccome alcuni giorni fa avevo espresso pubblicamente il mio rammarico perché, negli ultimi tempi, dalla bocca dei Pastori avevo sentito quasi esclusivamente parole di rimprovero e inviti alla penitenza e mai una parola di incoraggiamento; e siccome sembrerebbe che, col vostro messaggio reso noto ieri, abbiate ascoltato il mio lamento, non posso non esprimerVi ora la mia gratitudine per quanto avete scritto.

È ovvio che un sacerdote non fa quel che fa per sentirsi poi ringraziato. Ma siamo uomini: sentirci dire una parola di riconoscenza e di incoraggiamento dai nostri Pastori, specialmente quando tutti ci dànno addosso, non può che far piacere e confermarci nel nostro impegno. Non Vi nascondo che, in certi momenti, ci assale la tentazione dello scoraggiamento. Viene da pensare: ma chi me lo fa fare? Se questo è il ringraziamento, vadano tutti a farsi friggere; meglio fare l’eremita e pensare esclusivamente alla salvezza della propria anima. Beh, sentirsi dire dai propri Pastori: «Siamo fieri di voi!», ci conforta e ci riempie di gioia. Non perché siamo senza pecche o ci illudiamo di aver raggiunto già la perfezione. Non siamo farisei: conosciamo bene la nostra natura; siamo consapevoli dei nostri limiti; riconosciamo le nostre mancanze. Nell’umana debolezza, non siamo diversi dai nostri fratelli e da tutti gli uomini. Perché scandalizzarsi tanto? Anche la nostra vita è segnata dal peccato. Per questo abbiamo bisogno di ricorrere tanto frequentemente al sacramento del perdono. Ma sappiamo che il Signore ci ha scelti cosí come siamo, con tutte le nostre miserie, per farci ministri della sua potenza e del suo amore. E solo per questo, perché chiamati a una vocazione cosí sublime, ci sentiamo spinti a riformarci, a rinnovarci, a santificarci. Non sarà certo la paura sanzioni, canoniche o civili, a renderci preti migliori, ma solo il dispiacere di non saper rispondere adeguatamente a tanto amore che abbiamo ricevuto.

C’è qualcuno che ha tentato, e sta tentando, di scardinare la Chiesa, contrapponendo il Papa ai Vescovi e i Vescovi ai sacerdoti. Vorrebbero che i Vescovi non fossero piú padri per i loro preti, ma semplici funzionari — “dirigenti” — di una multinazionale, tenuti a denunciare e a dimettere i loro “dipendenti”, anche sulla base di semplici voci infamanti. Vi ringrazio di non essere caduti nella trappola; vedo con piacere che non Vi lasciate condizionare piú del necessario dalle campagne mediatiche; che Vi rendete perfettamente conto dei valori che sono in gioco; che sapete resistere ai poteri oscuri che cercano in ogni modo di asservire la Chiesa. Se Voi siete fieri di noi, sappiate che anche noi siamo fieri di Voi!

Eccellenze Reverendissime, grazie per il sostegno che ci manifestate e, soprattutto, per le Vostre preghiere. Continuate ad accompagnarci nel nostro cammino con la Vostra preghiera, col Vostro consiglio, con la Vostra correzione, col Vostro amore paterno, con la Vostra benedizione.

Giovanni Scalese, CRSP
prete

domenica 6 giugno 2010

Cinque pani e due pesci

«Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9:13).

Gesú, se avesse voluto, avrebbe potuto sfamare le folle da solo: se fu capace di moltiplicare i pani, avrebbe potuto anche dare da mangiare a cinquemila uomini senza dover ricorrere all’ausilio dei Dodici. E invece volle servirsi di loro per soccorrere quella povera gente.

I discepoli fanno presente la loro inadeguatezza: hanno solo cinque pani e due pesci. Ma non si smarriscono; a tutto c’è rimedio; basta un minimo di buona volontà e di organizzazione: si può andare nel villaggio e comperare viveri sufficienti per dare un boccone a tutti.

Ma Gesú non accoglie la proposta: a lui bastano i cinque pani e i due pesci. È sufficiente che i Dodici mettano a sua disposizione quel poco che hanno; al resto penserà lui. Non c’è bisogno che i suoi discepoli attuino i loro piani per sfamare la folla; basta che loro facciano sedere la gente e poi distribuiscano il pane che lui fornirà loro.

È Gesú che salva gli uomini; ma vuole farlo attraverso i sacerdoti. Non è necessario che questi siano forniti di doti straordinarie né che elaborino sofisticati progetti umani per portare la salvezza all’umanità. È sufficiente che abbiano “cinque pani e due pesci”, e li mettano a disposizione del Signore. Questi li devono avere: è vero che il Figlio di Dio potrebbe trasformare in pane anche le pietre; ma di fatto Gesú si rifiuta di farlo (cf Mt 4:3-4; Lc 4:3-4); preferisce moltiplicare il pane, per quanto scarso, già esistente.

Se i sacerdoti fossero perfetti, essi e i loro fedeli potrebbero attribuire a loro stessi il merito di quanto fanno. La loro inadeguatezza dimostra — a loro e ai loro fedeli — che tutto viene da Colui che li ha inviati: è lui che riesce a “moltiplicare” la loro povertà. È al loro Signore, non alle loro miserie, che dobbiamo fissare lo sguardo.

Molto opportunamente l’Arcivescovo di Bologna, Card. Carlo Caffarra, nell’omelia che avrebbe dovuto pronunciare in occasione della celebrazione del Corpus Domini (ma che non ha pronunciato a causa dell’inclemenza del tempo; comunque riportata sul sito dell’Arcidiocesi), ha voluto menzionare le parole di san Francesco che si riferiscono ai sacerdoti: «… e tutti … voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché io in essi discerno il Figlio di Dio e sono miei signori».

È giusto aspettarsi molto dai sacerdoti, perché hanno accettato una missione sublime ed esigente. Illusorio sarebbe pensare che i sacerdoti debbano essere perfetti per poter assumere quella missione. È sufficiente che abbiano “cinque pani e due pesci” e li mettano a disposizione del Signore, così che egli possa compiere le sue meraviglie.