Lorenzo Bertocchi mi ha inviato alcune riflessioni a proposito della discussione innescata dal mio post dell’11 giugno “Gesú al centro”:
«“… Fate del Vangelo la vostra stella polare, mettete Gesú al centro della vita!”. Parole sante con cui spesso si concludono omelie, scritti spirituali, esortazioni morali e tirate giornalistiche di stampo cattolico. Purtroppo c’è il forte rischio di interpretazioni un po’ semplicistiche o soggettive. Anche il nobile “cristocentrismo” — tanto caro ad esempio a Don Giussani o Don Divo Barsotti — si riferisce all’incontro con Lui come evento che illumina e guida la vita.
Certamente riconoscere Gesú vivo e confidarsi a Lui è già azione di grazia e non può che spalancare la porta alla conversione del cuore, però di fronte alla quotidianità restiamo sempre liberi e lí occorre tradurre in pratica cosa significa “mettere Gesú al centro”. Se questo dono non ci conduce ad amare la Chiesa cattolica e con essa la sua dottrina, a riconoscere la legge come atto d’amore che ci aiuta nell’esercizio della libertà, allora questo incontro non è avvenuto, ma si riduce appunto al classico fervorino.
Il “fervorino” solitamente può essere sottoscritto da varie personalità che poi hanno idee molto diverse rispetto alla legge morale. Hans Küng, ad esempio, in un testo di qualche anno fa (Visione di una Chiesa futura, Colonia 1987) diceva che “la Chiesa ha un futuro solo se tiene presenti le sue origini e continua a prendere come norma il Vangelo, Gesú Cristo stesso”. Lo stesso Hans Küng fa poi richieste di rinuncia al celibato sacerdotale, aperture nel campo della morale sessuale, collegialità nel governo della Chiesa, ecc., tutte indicazioni che sono in contrasto con quanto proposto dalla dottrina della Chiesa cattolica. Purtroppo non mancano ecclesiastici di rango che si trovano in una situazione simile all’esempio di Küng. Da un certo punto di vista anche tutta la pubblicistica che si conclude con la Parola che “deve farsi carne” — di per sé concetto santo — se non è calato nella Chiesa mater et magistra conduce di fatto verso il soggettivismo spirituale e di conseguenza al relativismo etico.
In poche parole, è vero che bisogna diffidare dal predicozzo moralista, ma allo stesso tempo c’è da fare attenzione anche al fervorino spiritualeggiante. Senza l’autorità che interpreta la Parola in modo veritativo resta ben poco dell’incontro con Lui, o meglio resta molto difficile — a causa della ferita del peccato originale — ri-amarLo nella nostra quotidianità che ci interpella incessantemente. Primato petrino, pietà eucaristica, prassi liturgica, sacerdozio femminile, concetto di laicità, aborto, divorzio, fecondazione artificiale, regolazione delle nascite, morale sessuale, sono alcuni esempi la cui “interpretazione” chiama a riflettere su come il “fervorino” magari “scalda il cuore”, ma non è detto che aiuti l’anima a liberarsi».
Le considerazioni di Lorenzo mi trovano pienamente d’accordo. Convengo che certi principi generali, sui quali possiamo trovarci tutti d’accordo (ma non sempre, giacché spesso le divergenze nascono già a livello intellettuale), a un certo punto debbano tradursi in vita vissuta. È ovvio che tale applicazione non possa essere lasciata all’esclusiva iniziativa dei singoli: cadremmo in una sorta di “libero esame”, difficilmente compatibile con la professione della fede cattolica. È necessario che ci sia un interprete autorevole che, fra le varie interpretazioni personali della parola di Dio, discerna quella giusta, alla quali tutti dobbiamo poi conformarci. Per noi cattolici non c’è dubbio a chi spetti tale discernimento:
«Il compito di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità viene esercitata a nome di Gesú Cristo» (Dei Verbum, n. 10; cf Catechismo della Chiesa cattolica, n. 85).
Tale testo appare molto interessante e meritevole di una lettura attenta. Innanzi tutto, si parla di “interpretazione autentica” della parola di Dio. Naturalmente, chiunque può interpretare la parola di Dio; ma la sua interpretazione sarà una semplice interpretazione personale. Quella del Magistero è invece un’interpretazione autentica. Che significa? Se andiamo a cercare su un dizionario, per “autentico” troveremo le seguenti definizioni: «che è vero, non falso e che si può provare come tale; di racconto o notizia, conforma alla realtà; che è realmente tale». Definizioni che si possono, in qualche modo, applicare anche al concetto di “interpretazione”, ma che non colgono il suo significato specifico. Mi pare che il senso proprio di “autentico” in questo contesto sia quello espresso da Ottorino Pianigiani, nel suo Vocabolario etimologico della lingua italiana: «Dicesi di ciò che ha autore certo e che perciò fa autorità. Quindi autentici sono gli atti solennemente fatti per mano di notaro o di altro pubblico ufficiale». Tale definizione sembrerebbe confermata, nel testo della Dei Verbum, da quel riferimento all’autorità del Magistero, che viene esercitata a nome di Gesú Cristo.
Ci si potrebbe anche chiedere che cosa significa “interpretare”. Certamente non si tratta solo di un’interpretazione astratta (il significato delle parole), ma anche di un’applicazione della parola di Dio alle situazioni concrete. Per esempio, nel decreto sull’apostolato dei laici, il Concilio afferma:
«Per quanto riguarda le opere e le istituzioni di natura temporale, il compito della gerarchia ecclesiastica consiste nell’insegnare e interpretare autenticamente i principi dell’ordine morale da seguire nelle cose temporali; è anche in suo potere, tutto ben considerato e servendosi dell’aiuto di esperti, giudicare della conformità di tali opere e istituzioni ai principi morali, e stabilire che cosa è richiesto per custodire e promuovere i beni di ordine soprannaturale» (Apostolicam actuositatem, n. 24).
La Dei Verbum afferma poi che l’interpretazione autentica spetta esclusivamente al Magistero. Chiunque, dicevamo, può interpretare la parola di Dio, ma solo il Magistero la interpreta autenticamente. Non esistono altri interpreti autentici. I teologi, che spesso si sono spacciati per una sorta di magistero alternativo, non interpretano autenticamente la parola di Dio: la loro, per quanto rispettabile, rimarrà sempre un’interpretazione personale.
Infine, la costituzione conciliare determina il sostantivo “magistero” con un aggettivo che non può essere trascurato: “vivo”. Quando si parla di magistero non ci si riferisce esclusivamente al magistero del passato. Certamente questo non può essere ignorato, proprio perché espressione di una tradizione continua, “vivente” appunto. Ma proprio perché si tratta di una tradizione vivente, non si può pensare che il magistero della Chiesa si sia fermato cinquant’anni fa; esso continua a essere esercitato dagli attuali successori degli apostoli, perché altrimenti non si tratterebbe piú di magistero vivo.
A proposito dei Vescovi, il Concilio (Lumen gentium, n. 25) li definisce «autentici maestri, insigniti cioè dell’autorità di Cristo» (doctores authentici seu auctoritate Christi praediti), confermando ancora una volta che l’autenticità ha a che fare con l’autorità ricevuta da Cristo. Nel medesimo contesto, il Concilio parla pure di “magistero autentico del Romano Pontefice”. Ma qui sembrerebbe che l’aggettivo “autentico” venga contrapposto a o, per lo meno, distinto da “infallibile”, nel senso che il magistero autentico è molto piú vasto di quello infallibile. Dice la Lumen gentium:
«Questa religiosa adesione della volontà e dell’intelligenza va prestata in modo particolare al magistero autentico del Romano Pontefice, anche quando non parla ex cathedra, cosí che il suo supremo magistero sia accolto con riverenza, e si aderisca sinceramente alle sentenze da lui proposte, secondo la sua mente e la sua volontà intenzionale (iuxta mentem et voluntatem manifestatam ipsius), che si manifesta specialmente sia nella natura dei documenti, sia nella frequente riproposta della stessa dottrina, sia nel tenore dell’espressione verbale».
Anche tale testo è importante, perché ci offre alcuni criteri su come recepire il magistero del Papa. Esso ci fa capire che gli interventi pontifici non hanno tutti lo stesso valore. Questo potrebbe apparire ovvio, se si prendessero in considerazione le sue affermazioni inter pocula, alle quali certo non si può dare il valore di una definizione dogmatica. Ma anche interventi di un certo rilievo non necessariamente hanno valore magisteriale. Lo afferma espressamente Benedetto XVI nella premessa al suo Gesú di Nazaret:
«Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore”. Perciò ciascuno è libero di contraddirmi» (nell’edizione italiana, a p. 20).
Ciò che vale per il Sommo Pontefice vale, a maggior ragione, per i singoli Vescovi. Non basta che un Vescovo parli per esercitare il magistero. Nel caso dei Vescovi, perché essi possano essere considerati “autentici maestri”, è necessario che ci sia comunione tra loro e, soprattutto, col Papa.
È ovvio che questo non può diventare un alibi per disattendere gli interventi dei Pastori della Chiesa, come avvenne nel caso della Humanae vitae, quando molti teologi invitarono i fedeli a non curarsene, perché, secondo loro, priva della nota dell’infallibilità (al contrario della loro opinione, sempre e comunque dotata del carisma dell’infallibilità, ovviamente).
Per capire quali sono i casi in cui un cattolico deve sentirsi obbligato ad adeguarsi al magistero ecclesiale, può essere utile riproporre i tre commi conclusivi dell’attuale professione di fede, richiesta a quanti assumono un ufficio da esercitarsi a nome della Chiesa:
«Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.
Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo».
Tutto ciò che non rientra nei suddetti casi, non credo che possa essere considerato “magistero autentico” e perciò vincolante. Se il Papa ci lascia liberi di contraddirlo a proposito di Gesú di Nazaret, penso che, a maggior ragione, ci si possa sentir liberi — tanto per fare un esempio — di avanzare riserve sull’opportunità della costituzione di un nuovo dicastero, di cui, francamente, al momento nessuno sentiva la necessità. Non credo che non si sia buoni cattolici e che si manchi di rispetto al Papa se si pensa — e si dice — che certe decisioni lasciano il tempo che trovano. Anche perché qualcuno, qualche anno fa, lo aveva già detto:
«Quanti piú apparati noi costruiamo siano anche i piú moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli questo esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova» (Joseph Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, discorso all’XI Meeting per l’amicizia tra i popoli, Rimini, 1° settembre 1990; successivamente ripreso in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, 1991, p. 105).