Giorni fa un confratello mi ha mandato una citazione tratta dall'editoriale della rivista Limes, n. 2/2009. Tema del fascicolo monografico è: "Esiste l'Italia? Dipende da noi". L'editoriale parte dalla costatazione che l'Italia non può piú fare affidamento né sugli Stati Uniti né sull'Europa. E prosegue: "Quanto all'affidamento all'universale Chiesa di Roma, cosí pervasivo negli anni della Democrazia cristiana, appare ormai impraticabile. La crisi di identità di cui soffre il cuore del cattolicesimo, non mascherabile da mero scadimento della classe di governo ecclesiastica, ne inficia la capacità di parlare alle genti. Ne scolora l'universalità mentre ne vellica l'introversione. Sarà forse casuale che la Santa Sede appaia refrattaria al mondo e mal governata, fino ad esporsi al ridicolo, da quando in curia s'è dispersa la matrice della sapiente diplomazia tradizionalmente coltivata dall'alto clero italiano? Il parallelo fra decadenza dell'impero papale e crisi del nostro Stato nazionale conferma quanto il Tevere resti stretto" (p. 9).
Non posso entrare nel merito della problematica, dal momento che non ho letto l'intero editoriale: il sito online della rivista non lo riporta); ma mi pare interessante l'ultima annotazione sulla dispersione della "matrice della sapiente diplomazia tradizionalmente coltivata dall'alto clero italiano". Anche qui, non mi sento di condividere il giudizio estremamente negativo espresso dall'autore a proposito della "crisi di identità" in cui verserebbe il "cuore del cattolicesimo"; ma penso che in quella osservazione riguardante la tradizione diplomatica del clero italiano, che si starebbe perdendo, ci sia qualcosa di vero.
È ovvio che qualcosa (o meglio, molto) sta cambiando nella Chiesa. Non si può fare un paragone fra la Chiesa di inizio Novecento e quella di oggi; cosí pure è impossibile un confronto fra la Curia Romana di cento anni fa e quella dei nostri giorni. Che ci possa essere una certa "crisi di identità", mi sembra piú che comprensibile e per nulla scandaloso. Un tempo la diplomazia vaticana era monopolio pressoché esclusivo del clero italiano; oggi ci sono nunzi provenienti da ogni parte del mondo. Mi sembra che sia giusto che ciò avvenga. Chiaramente le nuove leve non possono contare sull'esperienza che poteva avere la plurisecolare tradizione diplomatica italiana; vuol dire che a poco a poco si faranno le ossa anche loro. È ovvio che in una fase di passaggio come quella attuale si percepiscono maggiormente gli inconvenienti provocati da tale ricambio.
Ma ciò su cui vorrei soffermare l'attenzione è quanto ho voluto esprimere nel titolo di questo post: "Unicuique suum". Troviamo questo motto nell'intestazione de L'Osservatore Romano. Il suo significato è "A ciascuno il suo"; ma io vorrei servirmene per esprimere un concetto un po' meno nobile, ma non per questo meno importante: "Ciascuno faccia il proprio mestiere". Si tratta di un principio molto importante. Ricordo che un giorno il Card. Martini (mi sembra che fosse in occasione della pubblicazione di Gesú di Nazaret) faceva maliziosamente notare che il Papa non era un biblista, ma un teologo. Mi chiedo però come mai lui, biblista (o piú precisamente, esperto di critica testuale) si senta autorizzato a pronunciarsi in questioni che non sono di sua competenza (soprattutto in campo morale...). Ma è ovvio che in questo caso, trattandosi di due vescovi, essi siano abilitati a intervenire in qualsiasi settore della dottrina cattolica (con la differenza, non irrilevante, che uno è papa; l'altro, semplice vescovo in pensione).
Non credo però che possa dirsi la stessa cosa di altri posti-chiave della Curia Romana: in via di principio, dovrebbe esserci sempre l'uomo giusto al posto giusto; ma ho l'impressione che ciò non sempre avvenga. Un esempio: con tutto il rispetto e la stima per il Card. Bertone, non credo proprio che egli sia la persona giusta al posto giusto. Personalmente ritengo che quel ruolo dovrebbe essere ricoperto da un diplomatico. Il Card. Sodano avrà pure avuto i suoi difetti, ma mi sembra che sia stato un Segretario di Stato di tutto rispetto, di cui, sinceramente devo dire, sento molto la mancanza. Solo i diplomatici hanno la preparazione e l'esperienza per svolgere certi incarichi. Stiamo vedendo in questi giorni le conseguenze di alcune scelte, fatte forse con un tantino di precipitazione. È importante che ciascuno si specializzi in un particolare settore, sia valorizzato per quel che sa fare e che gli si dia fiducia nello svolgimento del suo lavoro. Sembrano principi ovvi; ma, a quanto pare, non sempre lo sono.
Non posso entrare nel merito della problematica, dal momento che non ho letto l'intero editoriale: il sito online della rivista non lo riporta); ma mi pare interessante l'ultima annotazione sulla dispersione della "matrice della sapiente diplomazia tradizionalmente coltivata dall'alto clero italiano". Anche qui, non mi sento di condividere il giudizio estremamente negativo espresso dall'autore a proposito della "crisi di identità" in cui verserebbe il "cuore del cattolicesimo"; ma penso che in quella osservazione riguardante la tradizione diplomatica del clero italiano, che si starebbe perdendo, ci sia qualcosa di vero.
È ovvio che qualcosa (o meglio, molto) sta cambiando nella Chiesa. Non si può fare un paragone fra la Chiesa di inizio Novecento e quella di oggi; cosí pure è impossibile un confronto fra la Curia Romana di cento anni fa e quella dei nostri giorni. Che ci possa essere una certa "crisi di identità", mi sembra piú che comprensibile e per nulla scandaloso. Un tempo la diplomazia vaticana era monopolio pressoché esclusivo del clero italiano; oggi ci sono nunzi provenienti da ogni parte del mondo. Mi sembra che sia giusto che ciò avvenga. Chiaramente le nuove leve non possono contare sull'esperienza che poteva avere la plurisecolare tradizione diplomatica italiana; vuol dire che a poco a poco si faranno le ossa anche loro. È ovvio che in una fase di passaggio come quella attuale si percepiscono maggiormente gli inconvenienti provocati da tale ricambio.
Ma ciò su cui vorrei soffermare l'attenzione è quanto ho voluto esprimere nel titolo di questo post: "Unicuique suum". Troviamo questo motto nell'intestazione de L'Osservatore Romano. Il suo significato è "A ciascuno il suo"; ma io vorrei servirmene per esprimere un concetto un po' meno nobile, ma non per questo meno importante: "Ciascuno faccia il proprio mestiere". Si tratta di un principio molto importante. Ricordo che un giorno il Card. Martini (mi sembra che fosse in occasione della pubblicazione di Gesú di Nazaret) faceva maliziosamente notare che il Papa non era un biblista, ma un teologo. Mi chiedo però come mai lui, biblista (o piú precisamente, esperto di critica testuale) si senta autorizzato a pronunciarsi in questioni che non sono di sua competenza (soprattutto in campo morale...). Ma è ovvio che in questo caso, trattandosi di due vescovi, essi siano abilitati a intervenire in qualsiasi settore della dottrina cattolica (con la differenza, non irrilevante, che uno è papa; l'altro, semplice vescovo in pensione).
Non credo però che possa dirsi la stessa cosa di altri posti-chiave della Curia Romana: in via di principio, dovrebbe esserci sempre l'uomo giusto al posto giusto; ma ho l'impressione che ciò non sempre avvenga. Un esempio: con tutto il rispetto e la stima per il Card. Bertone, non credo proprio che egli sia la persona giusta al posto giusto. Personalmente ritengo che quel ruolo dovrebbe essere ricoperto da un diplomatico. Il Card. Sodano avrà pure avuto i suoi difetti, ma mi sembra che sia stato un Segretario di Stato di tutto rispetto, di cui, sinceramente devo dire, sento molto la mancanza. Solo i diplomatici hanno la preparazione e l'esperienza per svolgere certi incarichi. Stiamo vedendo in questi giorni le conseguenze di alcune scelte, fatte forse con un tantino di precipitazione. È importante che ciascuno si specializzi in un particolare settore, sia valorizzato per quel che sa fare e che gli si dia fiducia nello svolgimento del suo lavoro. Sembrano principi ovvi; ma, a quanto pare, non sempre lo sono.