Vi ricordate l'UCAS? Se ne parlava qualche anno fa: Ufficio Complicazione Affari Semplici. Nonostante passino gli anni e i tempi cambino, ho l'impressione che continui a essere un ufficio molto affollato, con una fila interminabile di aspiranti fuori della porta in attesa di essere assunti e con un sacco di clienti. Io da parte mia ho sempre cercato di starne alla larga; anzi, ho aperto un ufficio per mio conto: l'USAC (Ufficio Semplificazione Affari Complicati). Per il momento ne sono fondatore, direttore e unico impiegato (mi tocca anche aprire la porta e rispondere al telefono). Clienti, pochi. A tutt'oggi non ho ricevuto nessuna richiesta di impiego. Non solo, ma spesso il nostro lavoro non è molto apprezzato, è guardato con una certa sufficienza, quando non è addirittura disprezzato. La concorrenza (l'UCAS) ci considera degli sprovveduti, quasi che non ci rendessimo conto della complessità della realtà. E invece è proprio perché siamo pienamente consapevoli che la realtà è estremamente complessa di suo, che abbiamo aperto l'ufficio. C'è stato un momento in cui, in preda alla depressione, siamo stati tentati di chiudere baracca e burattini e dedicarci ad altra attività. Ma poi, a un certo punto, prima di gettare la spugna, abbiamo voluto fare un ultimo tentativo: perché non provare ad adottare qualche nuova strategia di marketing per offrire i nostri servizi a un maggior numero di utenti? Forse, allargando il mercato, qualcuno scoprirà che, oltre l'UCAS (che tutti conoscono), esiste anche l'USAC (che finora nessuno conosce), e potrebbe magari incominciare ad apprezzare il nostro lavoro. Cosí, abbiamo messo da parte le vecchie scartoffie e abbiamo deciso di metterci sul web. È andata bene.
Avevamo preparato uno studio sul Concilio, che fino ad allora nessuno aveva preso sul serio; diffuso su internet, ha subito suscitato interesse. Ah, dimenticavo, nel frattempo abbiamo stretto una collaborazione con un ufficio corrispondente in Francia; è gestito da una donna (una certa Beatrice); anche lei è sola, ma piú efficiente di una squadra. Ebbene, Beatrice ha tradotto lo studio in francese, ed è avvenuto un piccolo miracolo: è stato ripreso da diversi siti (dalla Francia poi è rimbalzato di nuovo in Italia), ed è stato trovato "molto interessante" dai lefebvriani. Ho l'impressione che quello studiolo un piccolo merito ce l'abbia. Non avete notato come ora la posizione dei lefebvriani sul Concilio sia molto piú sfumata? Prima era un "no" secco (anche dopo il discorso del Papa alla Curia Romana), adesso è un "ni": "Non siamo contro tutto il Concilio, ma solo contro alcuni punti...". È già un grande passo avanti. È vero che nel frattempo c'è stato il motu proprio Summorum Pontificum, è vero che c'è stata la revoca della scomunica, è vero che c'è stata la mazzata del caso Williamson; tutto vero, ma nessuno mi toglie dalla mente che un piccolo, piccolissimo contributo sia venuto anche dal lavoro del nostro ufficio. Se non altro, grazie ad esso, i lefebvriani si sono accorti che è possibile discutere del Concilio da dentro la Chiesa, senza il bisogno di restarne fuori. Io mi sono permesso di criticare il Concilio; eppure sono in piena comunione col Papa, col mio Vescovo e con i miei Superiori religiosi. Nessuno finora ha pensato di sospendermi a divinis né, tanto meno, di scomunicarmi, per aver liberamente espresso le mie idee in proposito. Perciò se lo posso fare io, perché non potrebbero farlo anche loro?
A questo punto, imbaldanzito dall'imprevisto successo riportato dal nostro ufficio, mi son detto: perché non fare un altro passetto avanti? Perché non provare a dipanare la matassa, che appare ancora cosí ingarbugliata? Io ci provo; tanto, non c'è niente da perdere. Al massimo la concorrenza (l'UCAS) potrà farsi quattro risate alle nostre spalle, compiangendoci per la nostra inguaribile ingenuità e dabbenaggine.
Il Santo Padre, nella sua recente lettera ai Vescovi, ha tenuto a precisare che a questo punto, dopo la remissione della scomunica, il problema non è piú di carattere disciplinare, ma esclusivamente dottrinale: "I problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l'accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi". A quanto pare, i lefebvriani hanno accolto favorevolmente questo approccio del Pontefice: "La Fraternità Sacerdotale San Pio X assicura Benedetto XVI della sua volontà di affrontare le discussioni dottrinali riconosciute «necessarie» dal Decreto del 21 gennaio" (Comunicato di Mons. Fellay del 12 marzo 2009). Io stesso, devo essere sincero, lí per lí ho preso per buona questa impostazione. Poi però, riflettendoci, a poco a poco sono giunto alla conclusione che non è questo l'approccio migliore. Vogliamo dunque provare a semplificare il piú possibile la questione, ridurla ai suoi termini essenziali?
Personalmente credo che i "colloqui dottrinali" tra la FSSPX e la Congregazione per la Dottrina della Fede potrebbero concludersi in non piú di mezz'ora. Cerchiamo di immaginare la scena. Card. Levada: "Siete pronti a emettere la professione di fede secondo la formula approvata dalla Sede Apostolica?". Mons. Fellay: "Non solo pronti, ma impazienti." Card. Levada: "OK. Si proceda". Mons. Fellay:
"Io Bernard Fellay credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo della fede, e cioè:
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesú Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morí e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.
Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo".
A questo punto, non c'è altro da aggiungere. Questo basta per sanare lo "scisma lefebvriano". Non c'è bisogno di firmare nulla: la professione di fede va emessa (can. 833), non firmata. Se proprio si vuole firmare un pezzo di carta, si può sottoscrivere un protocollo in cui ci si sottomette al Romano Pontefice e ci si impegna a osservare le vigenti leggi della Chiesa (Codice di diritto canonico del 1983). A volere, può seguire un brindisi; ma il tutto può tranquillamente concludersi in mezz'ora.
Ciò fatto, ci si può immediatamente traferire negli uffici degli altri dicasteri della Curia Romana e iniziare la procedura per il riconoscimento giuridico della Fraternità. A questo punto vado in crisi, perché non so quali siano i dicasteri competenti (bisognerà proprio che prima o poi il nostro ufficio si rassegni ad assumere, finanze permettendo, un consulente legale). Suppongo che, se si vuole arrivare alla costituzione di una Prelatura personale (come nel caso dell'Opus Dei) o di varie Amministrazioni apostoliche (come nel caso di Campos in Brasile), ci si debba rivolgere alla Congregazione dei Vescovi. Ma, siccome nella Fraternità sono comprese anche delle comunità religiose, per queste ci si dovrà rivolgere alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Ma non è questo ora il problema. È ovvio che in questo secondo passaggio non si può pretendere di sbrigarsela in mezz'ora; la procedura sarà necessariamente lunga: si tratta di approvare gli statuti (il diritto particolare o proprio) di queste nuove entità ecclesistiche.
Rimane aperta una questione, quella della sospensione a divinis. Ripeto, non abbiamo ancora un consulente legale; ma ritengo che con la regolarizzazione giuridica della Fraternità, tale censura decada automaticamente. Anche se cosí non fosse, non mi sembra un grande problema revocarla in maniera esplicita. A questo punto, lo "scisma lefebvriano" dovrebbe essere definitivamente rientrato.
Qualcuno penserà: l'USAC, nella sua smania di semplificare, si è dimenticato di un elemento fondamentale, l'accettazione del Concilio Vaticano II. Non ci siamo dimenticati affatto. Personalmente ritengo che il Concilio in sé, come qualsiasi altro atto magisteriale, non possa essere oggetto di contrattazione: o lo si accetta o lo si rifiuta. Se si emette la professione di fede, esso viene implicitamente accettato: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Tutt'altra questione è l'interpretazione del Concilio. Ma questo non è un problema da discutere con i lefebvriani. Questo è un problema dell'intera Chiesa. E non mi sembra che, a tutt'oggi, si abbiano le idee molto chiare (nonostante il magistrale intervento del Papa del 22 dicembre 2005). Mi chiedo che cosa potrebbe esigere il Card. Levada da Mons. Fellay riguardo al Vaticano II, se neppure noi sappiamo come dobbiamo interpretare questo Concilio. A proposito di tale questione, certo non secondaria, il nostro ufficio (l'USAC) una sua proposta ce l'avrebbe: perché non convocare un sinodo straordinario (oppure la prossima assemblea ordinaria) esattamente su questo tema: "L'interpretazione del Concilio Vaticano II a 50 anni dalla sua convocazione"? In questo sinodo, ovviamente, anche i lefebvriani potrebbero dare il loro contributo. Ma ciò che è importante è che si tratta di una riflessione che l'intera Chiesa deve fare. E prima la facciamo, meglio è.
Avevamo preparato uno studio sul Concilio, che fino ad allora nessuno aveva preso sul serio; diffuso su internet, ha subito suscitato interesse. Ah, dimenticavo, nel frattempo abbiamo stretto una collaborazione con un ufficio corrispondente in Francia; è gestito da una donna (una certa Beatrice); anche lei è sola, ma piú efficiente di una squadra. Ebbene, Beatrice ha tradotto lo studio in francese, ed è avvenuto un piccolo miracolo: è stato ripreso da diversi siti (dalla Francia poi è rimbalzato di nuovo in Italia), ed è stato trovato "molto interessante" dai lefebvriani. Ho l'impressione che quello studiolo un piccolo merito ce l'abbia. Non avete notato come ora la posizione dei lefebvriani sul Concilio sia molto piú sfumata? Prima era un "no" secco (anche dopo il discorso del Papa alla Curia Romana), adesso è un "ni": "Non siamo contro tutto il Concilio, ma solo contro alcuni punti...". È già un grande passo avanti. È vero che nel frattempo c'è stato il motu proprio Summorum Pontificum, è vero che c'è stata la revoca della scomunica, è vero che c'è stata la mazzata del caso Williamson; tutto vero, ma nessuno mi toglie dalla mente che un piccolo, piccolissimo contributo sia venuto anche dal lavoro del nostro ufficio. Se non altro, grazie ad esso, i lefebvriani si sono accorti che è possibile discutere del Concilio da dentro la Chiesa, senza il bisogno di restarne fuori. Io mi sono permesso di criticare il Concilio; eppure sono in piena comunione col Papa, col mio Vescovo e con i miei Superiori religiosi. Nessuno finora ha pensato di sospendermi a divinis né, tanto meno, di scomunicarmi, per aver liberamente espresso le mie idee in proposito. Perciò se lo posso fare io, perché non potrebbero farlo anche loro?
A questo punto, imbaldanzito dall'imprevisto successo riportato dal nostro ufficio, mi son detto: perché non fare un altro passetto avanti? Perché non provare a dipanare la matassa, che appare ancora cosí ingarbugliata? Io ci provo; tanto, non c'è niente da perdere. Al massimo la concorrenza (l'UCAS) potrà farsi quattro risate alle nostre spalle, compiangendoci per la nostra inguaribile ingenuità e dabbenaggine.
Il Santo Padre, nella sua recente lettera ai Vescovi, ha tenuto a precisare che a questo punto, dopo la remissione della scomunica, il problema non è piú di carattere disciplinare, ma esclusivamente dottrinale: "I problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l'accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi". A quanto pare, i lefebvriani hanno accolto favorevolmente questo approccio del Pontefice: "La Fraternità Sacerdotale San Pio X assicura Benedetto XVI della sua volontà di affrontare le discussioni dottrinali riconosciute «necessarie» dal Decreto del 21 gennaio" (Comunicato di Mons. Fellay del 12 marzo 2009). Io stesso, devo essere sincero, lí per lí ho preso per buona questa impostazione. Poi però, riflettendoci, a poco a poco sono giunto alla conclusione che non è questo l'approccio migliore. Vogliamo dunque provare a semplificare il piú possibile la questione, ridurla ai suoi termini essenziali?
Personalmente credo che i "colloqui dottrinali" tra la FSSPX e la Congregazione per la Dottrina della Fede potrebbero concludersi in non piú di mezz'ora. Cerchiamo di immaginare la scena. Card. Levada: "Siete pronti a emettere la professione di fede secondo la formula approvata dalla Sede Apostolica?". Mons. Fellay: "Non solo pronti, ma impazienti." Card. Levada: "OK. Si proceda". Mons. Fellay:
"Io Bernard Fellay credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo della fede, e cioè:
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesú Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morí e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.
Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo".
A questo punto, non c'è altro da aggiungere. Questo basta per sanare lo "scisma lefebvriano". Non c'è bisogno di firmare nulla: la professione di fede va emessa (can. 833), non firmata. Se proprio si vuole firmare un pezzo di carta, si può sottoscrivere un protocollo in cui ci si sottomette al Romano Pontefice e ci si impegna a osservare le vigenti leggi della Chiesa (Codice di diritto canonico del 1983). A volere, può seguire un brindisi; ma il tutto può tranquillamente concludersi in mezz'ora.
Ciò fatto, ci si può immediatamente traferire negli uffici degli altri dicasteri della Curia Romana e iniziare la procedura per il riconoscimento giuridico della Fraternità. A questo punto vado in crisi, perché non so quali siano i dicasteri competenti (bisognerà proprio che prima o poi il nostro ufficio si rassegni ad assumere, finanze permettendo, un consulente legale). Suppongo che, se si vuole arrivare alla costituzione di una Prelatura personale (come nel caso dell'Opus Dei) o di varie Amministrazioni apostoliche (come nel caso di Campos in Brasile), ci si debba rivolgere alla Congregazione dei Vescovi. Ma, siccome nella Fraternità sono comprese anche delle comunità religiose, per queste ci si dovrà rivolgere alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Ma non è questo ora il problema. È ovvio che in questo secondo passaggio non si può pretendere di sbrigarsela in mezz'ora; la procedura sarà necessariamente lunga: si tratta di approvare gli statuti (il diritto particolare o proprio) di queste nuove entità ecclesistiche.
Rimane aperta una questione, quella della sospensione a divinis. Ripeto, non abbiamo ancora un consulente legale; ma ritengo che con la regolarizzazione giuridica della Fraternità, tale censura decada automaticamente. Anche se cosí non fosse, non mi sembra un grande problema revocarla in maniera esplicita. A questo punto, lo "scisma lefebvriano" dovrebbe essere definitivamente rientrato.
Qualcuno penserà: l'USAC, nella sua smania di semplificare, si è dimenticato di un elemento fondamentale, l'accettazione del Concilio Vaticano II. Non ci siamo dimenticati affatto. Personalmente ritengo che il Concilio in sé, come qualsiasi altro atto magisteriale, non possa essere oggetto di contrattazione: o lo si accetta o lo si rifiuta. Se si emette la professione di fede, esso viene implicitamente accettato: "Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo". Tutt'altra questione è l'interpretazione del Concilio. Ma questo non è un problema da discutere con i lefebvriani. Questo è un problema dell'intera Chiesa. E non mi sembra che, a tutt'oggi, si abbiano le idee molto chiare (nonostante il magistrale intervento del Papa del 22 dicembre 2005). Mi chiedo che cosa potrebbe esigere il Card. Levada da Mons. Fellay riguardo al Vaticano II, se neppure noi sappiamo come dobbiamo interpretare questo Concilio. A proposito di tale questione, certo non secondaria, il nostro ufficio (l'USAC) una sua proposta ce l'avrebbe: perché non convocare un sinodo straordinario (oppure la prossima assemblea ordinaria) esattamente su questo tema: "L'interpretazione del Concilio Vaticano II a 50 anni dalla sua convocazione"? In questo sinodo, ovviamente, anche i lefebvriani potrebbero dare il loro contributo. Ma ciò che è importante è che si tratta di una riflessione che l'intera Chiesa deve fare. E prima la facciamo, meglio è.