martedì 14 luglio 2009

Che fare?

Qualche pensiero in libertà a séguito dei miei post piú recenti e di altre letture di questi giorni. Non so se sarò capace di organizzare bene il mio pensiero. Probabilmente sarò un po' confuso, anche perché c'è non poca confusione nella mia mente.

Beatrice, in Francia, continua a tradurre buona parte dei miei post (e di questo la ringrazio). Lo ha fatto anche per quello sulla nuova enciclica, esprimendo, legittimamente, qualche perplessità, specialmente sulla finale del mio articolo. Scrivevo: "Forse è giunto il momento per la Chiesa di rimboccarsi le maniche e, se necessario, di sporcarsi le mani, perché, ora come ora, non c'è nessun altro a cui stiano veramente a cuore le sorti dell'umanità". Giustamente, Beatrice ribatte: "Oui, mais... comment?". La domanda non è oziosa: che cosa dovrebbe fare, concretamente, la Chiesa? Nel mio post facevo riferimento alla storia della Chiesa: nel passato, remoto e prossimo, la Chiesa non ha esitato a scendere nell'agone politico, prendendo posizione da una parte piuttosto che dall'altra. Un esempio dal Medioevo: il Papa incorona Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero (contro Bisanzio). Un esempio piú recente: subito dopo la seconda guerra mondiale, in Italia, la Chiesa sostenne apertamente la DC (contro il pericolo comunista). È ovvio che in entrambi i casi si tratta di scelte discutibili, che, strettamente parlando, esulano dalla missione specifica della Chiesa; eppure in tali casi la Chiesa non ha esitato a "sporcarsi le mani". Nel mio post sulla Caritas in veritate non mi riferivo alla politica italiana, ma alla necessità di un'autorità politica mondiale. Volevo insinuare: non potrebbe la Chiesa farsi promotrice di questa autorità politica mondiale, da sostituire agli attuali "poteri forti"? Ma mi rendo perfettamente conto di quanto sia delicato (e utopistico) un simile discorso.

Il mio post "Don Farinella e Berlusconi" ha avuto un discreto successo (questo dimostra quanto la gente sia sensibile a certe tematiche). Addirittura, esso è stato postato su OkNOtizie di Virgilio da una non meglio precisata "Casa del Popolo": non avrei mai pensato di "sfondare" a sinistra... Ciò dimostra quanto i tempi siano cambiati e come le tradizionali etichette di "destra" e "sinistra" non siano piú in grado di descrivere la realtà. Ebbene, un lettore mi scrive: "Nulla da eccepire su quanto lei sostiene nella nota del 10 luglio c.a. Il problema è il grande disorientamento, se non lo scandalo, che nasce nel momento in cui molte persone autorevoli della chiesa sembra che con il loro comportamento e prese di posizione avallino uno stile di vita nel quale, ad esempio, si dice che la vita va tutelata fin dal concepimento, ma dopo non si afferma con la stessa forza il rispetto e la dignità della stessa: se si abortisce è un peccato grave, ma se si lascia che la gente muoia sul luogo di lavoro, quando va bene si dicono quattro parole messe in croce, e tutto finisce lí; e, cosa ancora peggiore, si continua ad andare a braccetto con chi toglie ogni norma efficace per la sicurezza del lavoro! ... Purtroppo il messaggio che noi umile gente della gleba riceviamo è quello che è importante essere sempre accanto a colui che è potente, a chi è furbo, a chi evade le tasse defraudando ancora una volta i piú poveri; dando l'impressione, con il proprio comportamento, di avallare tutte queste cose, il messaggio che arriva alla gente che vive nelle ristrettezze, cioè alla povera gente, è un messaggio aberrante: comportatevi come noi vi mostriamo di comportarci: l'importante è apparire...". Non è che abbia tutti i torti... Anche in questo caso, in fondo, la domanda è: Che fare?

Leggo questa mattina due articoli sul sito Come Don Chisciotte: Da Topo Gigio a Topo Grillo di Carlo Bertani e Il club dei falsi dissidenti di Antonella Randazzo. Non mi interessa minimamente la questione in oggetto: la scesa in campo di Beppe Grillo, che si candiderebbe alla segreteria del Partito Democratico. Gli inglesi direbbero: I couldn't care less. Il problema che mi interessa è piú generale. Noto che c'è un forte disorientamento, sia a destra che a sinistra; ci si rende conto che tutto va male e si vorrebbe fare qualcosa per cambiare. Ma il problema è sempre lo stesso: Che fare? Ormai ci si è accorti che non serve a nulla stare a destra o a sinistra: è la stessa cosa. Il male non sta a destra o a sinistra, ma nel sistema, di cui destra e sinistra sono espressioni intercambiabili. Il problema semmai sarebbe quello di sradicare il sistema. Direbbe Beatrice: "Oui, mais... comment?".

Non posso che condividere la conclusione di Bertani: "C’è bisogno di un lungo percorso di ricostruzione democratica — le scorciatoie portano solo ad altre cantonate — e deve essere un sentiero di riflessione, prima che politica, culturale, sul quale puntare per ricostruire le basi culturali e cognitive che sono la base della politica, non l’orpello". Probabilmente, è proprio quello che siamo chiamati a fare oggi: anziché pensare, illudendoci, che la soluzione ai nostri problemi possa venire da questo o quel partito, da questo o quell'uomo politico, da questo o quell'apparente "dissidente", occorre ricominciare da lontano, a fare un lavoro di "ricostruzione" culturale, presupposto di qualsiasi azione politica. Non era forse questo il senso del "progetto culturale" di ruiniana memoria? Che ne è stato? Finito Ruini, finito anche il "progetto culturale"? Forse è in questo contesto di "ricostruzione" pre-politica (morale-culturale-sociale) che va letta anche l'enciclica Caritas in veritate e tutta la dottrina sociale della Chiesa (ma di questo bisognerà parlare a parte, con piú calma).

Forse occorre ricominciare tutto da capo, facendo ciò che fecero i primi cristiani, che si trovavano dinanzi un mondo che stava andando in pezzi e, senza angoscia, ma con grande serenità, puntarono tutto sull'essenziale, Gesú Cristo, e con ciò gettarono le basi per una nuova civiltà.

domenica 12 luglio 2009

XV domenica "per annum"

«Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri».

In tale versetto troviamo l'essenza dell'apostolato.

1. Esso è, innanzi tutto, una vocazione ("chiamò a sé i Dodici"). Non siamo noi che abbiamo deciso di seguire Gesú; è lui che ci ha chiamato: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" (Gv 15:16).

2. In secondo luogo, esso è una missione ("prese a mandarli a due a due"). Anche in questo caso, non siamo noi che abbiamo deciso di andare; ma è lui che ci ha mandato. L'apostolato non è il risultato di una iniziativa personale, ma l'esecuzione di un compito che ci è stato affidato.

3. Solitamente, quando Gesú affida un incarico, insieme con questo dà pure la grazia necessaria per adempierlo ("dava loro potere sugli spiriti impuri"). Quando ci chiede di compiere una missione, non ci lascia soli; non ci dice: "Va' e arràngiati". Ci dice piuttosto: "Va', io sono con te, e ti dono tutto ciò che è necessario per l'assolvimento del tuo compito. Quello che devi fare, puoi farlo. Se non riesci a farlo, è colpa tua, della tua timidezza, della tua pigrizia, della tua paura, della tua poca fede. Non accusare me: io ti do tutto ciò che ti è necessario per portare a termine l'incarico che ti affido; ti rendo partecipe dei miei stessi poteri soprannaturali; con essi puoi fare tutto. L'unica cosa che ti viene chiesta è di fidarti di me, di non contare sulle tue risorse. Ti bastano un bastone e un paio di sandali.
Tu va'; al resto ci penso io. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28:20)".

sabato 11 luglio 2009

Adopt a Priest!

Siamo nell'Anno sacerdotale. Vorrei rilanciare una simpatica iniziativa del Padre salesiano T. C. George: "Adopt a Priest!" (= adotta un sacerdote). Si tratta molto semplicemente di un'adozione spirituale (non c'è nessun risvolto finanziario): colui che accetta di aderire all'iniziativa si impegna a offrire durante questo Anno sacerdotale preghiere e sacrifici per un sacerdote che gli verrà assegnato. I sacerdoti, a loro volta, sono invitati a dare il loro nome per essere adottati. In cambio, si impegnano a pregare per chi li ha adottati.

Coloro che desiderano aderire all'iniziativa (singoli o famiglie) possono inviare il loro nome, email e paese di appartenenza al seguente indirizzo: adoptapriest@gmail.com.

I sacerdoti che vogliono essere adottati devono inviare al medesimo indirizzo: nome, email, paese, anno di ordinazione e attività attualmente svolta.

Mi sembra un'iniziativa molto bella, che non ci costa nulla, e che può portare grandi benefici alla Chiesa. Al di là di tante belle parole.

venerdì 10 luglio 2009

Don Farinella e Berlusconi

Un ex-alunno, "Maxime", mi ha segnalato la lettera aperta di Don Paolo Farinella al Card. Angelo Bagnasco sull'affare Berlusconi. Sono stato alquanto titubante a intervenire sulla questione. Coloro che mi seguono regolarmente sanno che non mi sono mai occupato di politica italiana (qualche anno fa la si definiva un "teatrino"). Questo non significa che non me ne interessi; ma si tratta di un fatto privato, che mi riguarda come cittadino. Ma siccome sono consapevole di svolgere un ruolo nella Chiesa, e siccome sono convinto che tale ruolo è rivolto a tutti, mi dispiacerebbe che, per motivi di bassa politica, esso potesse essere in qualche modo intaccato. Anche perché le mie opinioni politiche, specialmente dopo il crollo della "prima repubblica", sono diventate alquanto "fluide" (come penso per la maggior parte degli italiani): gli attuali partiti politici italiani non sono piú delle "chiese" di appartenenza, come erano la DC e il PCI di una volta. Ricordo che a delle elezioni amministrative, qualche anno fa, votai per tre liste diverse. Per cui non vale proprio la pena di mettersi a far politica, quando neppure io sono cosí convinto di quel che penso. Ma il caso presente è diverso: non si tratta di essere pro o contro Berlusconi; il problema è molto piú grande.

Premetto che non ho nulla a che spartire col Cavaliere; non mi è stato mai simpatico né umanamente, né politicamente; non ho mai votato per lui. Lo rispetto in quanto Presidente del Consiglio; ne apprezzo alcune indubbie qualità; condivido alcune sue scelte politiche; mi preoccupo di certi interventi legislativi che sembrano volti a tutelare piú i suoi interessi personali che quelli del paese; stendo un velo pietoso sulle sue miserie personali. E qui mi fermo. Perché non penso che sia mio compito andare oltre.

Per questo non posso in alcun modo condividere l'indignata lettera di Don Farinella al Card. Bagnasco. A parte il tono ("Viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete": personalmente ritengo che il rapporto di un prete col suo vescovo non si riduca alla casuale coincidenza di vivere nello stesso luogo...), il problema è che questo confratello non ha capito nulla. A qualcuno può apparire un "profeta" (lo stesso titolo della lettera lo insinua: "Senza la profezia, rimane la complicità"); lui stesso probabilmente si considera un nuovo Giovanni Battista (si veda la finale della lettera); per me, è semplicemente un ingenuo. Io non so quali siano le sue fonti di informazione: probabilmente il Corriere della sera e la Repubblica; probabilmente il nostro "Don" non sa che oggigiorno, se vogliamo, non dico essere informati correttamente, ma perlomeno renderci conto della complessità dei fenomeni a cui assistiamo, è consigliabile rivolgersi ad altre fonti (per esempio internet), piuttosto che alla grande stampa. Ho l'impressione che il confratello genovese, pensando di essere un prete moderno e di sinistra, al passo coi tempi, non si rende conto di vivere fuori dal tempo.

La sua lettera è un classico esempio di moralismo. Vi ricordate? Ne parlavo qualche giorno fa. A leggerla, un buon cattolico non può che acconsentire. Chi può dargli torto? I comportamenti che egli denuncia sono tutti contro la morale cattolica (quando noi — intendo Don Paolo e io — eravamo un po' piú giovani, di solito certe scandalizzate invettive venivano da cattolici tradizionalisti bacchettoni; ma, tant'è, i tempi cambiano...). L'unico problema è: chi ci ha autorizzato a ergerci a giudici? Si risponderà: la Chiesa deve essere la "coscienza critica" della società. Scusate, dove sta scritto? Io leggo nel Vangelo: "Non giudicate!". Forse che questo precetto prevede una eccezione, quando si tratta di governanti? Può darsi, ma vorrei che qualcuno mi indicasse la citazione. I comportamenti denunciati da Don Farinella sono una questione che riguarda la coscienza dell'on. Berlusconi, non me. Mi riguarderanno quando — speriamo presto — verrà a confessarsi da me: allora gli dirò cosa deve fare; ma la cosa rimarrà tra me e lui.

Questo non significa che la moralità sia una questione privata e che la vita pubblica possa prescindere da essa. Ce lo ricordava il Papa in questi giorni: anche l'economia, anche la politica aggiungo io, hanno — devono avere! — una dimensione etica. OK. Ma occorre pure distinguere fra il ruolo pubblico e la vita privata. Un uomo di governo, a qualsiasi livello, deve essere giudicato per quel che sa fare, non per la sua vita privata. Questo non vale solo per i governanti; vale per chiunque. Se mi rovolgo a un falegname o a un medico o a un avvocato o a chicchessia, non lo faccio perché egli è un buon cristiano, perché ha una vita irreprensibile, perché è di destra o di sinistra, ma semplicemente perché so che sa fare il suo mestiere. Da un sindaco mi aspetto solo che sappia amministrare la città, sappia far fronte ai bisogni dei cittadini (traffico, nettezza urbana, ecc.); non gli chiedo altro. Se poi è anche un buon cattolico, mi fa piacere e condividerò con lui la mia fede. Lo stesso vale per l'on. Berlusconi: sa fare il suo mestiere? Non lo so, non sta a me rispondere; ma è questa l'unica domanda alla quale bisogna dare una risposta. E, siccome si presume che siamo in una democrazia, ritengo che l'unico abilitato a rispondere a questa domanda sia il popolo sovrano, che esprime il suo giudizio mediante libere elezioni. Il resto, sono fatti suoi; se la vedrà con Dio e con la sua coscienza (eventualmente con la mediazione del confessore).

Detto questo, rimane da spiegare perché ho dato dell'ingenuo a Don Paolo. La sua ingenuità sta nel non accorgersi che, mentre lui pensa di fare il profeta, c'è qualcuno che si serve di lui per raggiungere altri scopi. Ha mai sentito parlare il Reverendo di "poteri forti"? Probabilmente no, se si limita a leggere il Corriere e la Repubblica, essendo quei giornali emanazione di detti poteri; ma, se lui provasse ad allargare un tantino il suo orizzonte, si accorgerebbe che Berlusconi e Franceschini (come pure Sarkozy e la Merkel e Obama e tutti gli altri) non sono nessuno; chi comanda effettivamente in Italia e nel mondo sono altri poteri, tanto oscuri quanto reali. Non si è mai chiesto Don Farinella come mai la stampa estera ce l'abbia tanto con Berlusconi? Che le interessa del nostro capo di Governo? Sono affari nostri. È cosí evidente che è in corso una campagna mediatica per discreditarlo. È forse la prima volta che ci si serve della vita privata per eliminare un uomo politico che incomincia a dare fastidio?

Non sta a me indicare quali sarebbero le "colpe" di Berlusconi di fronte ai "poteri forti", non solo perché sono un prete, ma semplicemente perché non ho fonti riservate di informazione. Quello che so, lo leggo su internet. Posso solo rinviarvi a qualche articolo che mi ha aperto gli occhi. Per esempio, nei giorni scorsi, sul sito Come Don Chisciotte, ho letto due articoli molto interessanti, con interpretazioni alquanto diverse: La demolizione controllata di Berlusconi, di Roberto Quaglia, e Berlusconi nei guai con la malavita organizzata, di Rita Pennarola. Io non ho elementi per dire chi dei due abbia ragione: può darsi che uno abbia ragione, l'altro torto; che tutti e due abbiano torto o che tutti e due abbiamo un po' di ragione. Non lo so. Mi limito a prendere atto che ci sono in ballo interessi ben piú grossi di quelli che ci vorrebbero far credere. Altro che "Papi"... Proprio per questo, meglio starne alla larga; soprattutto per chi, come noi preti, di queste cose ne capisce ben poco. Che se la vedano fra di loro. Noi abbiamo ben altro a cui pensare.

giovedì 9 luglio 2009

"Caritas in veritate"

Una bella enciclica, in linea con le tante che l'hanno preceduta, a partire dalla Rerum novarum. Non ho né il titolo né la possibilità di farne un'analisi completa e approfondita, anche perché in questi giorni siamo subissati dai commenti di analisti ben piú autorevoli e capaci del sottoscritto. Vorrei solo rendervi partecipi di qualche impressione "a caldo", suggerita dalla lettura della Caritas in veritate.

Innanzi tutto, devo dire che mi ero scordato che tale enciclica avrebbe dovuto celebrare il 40° anniversario della Populorum progressio di Paolo VI (1967). Sarebbe dovuta uscire perciò due anni fa, ma, per i motivi che sappiamo, non ha potuto vedere la luce se non quest'anno. Questo provoca, lí per lí, un certo disorientamento, perché non si capisce il motivo di commemorare un'enciclica nel 42° anniversario della sua pubblicazione; ma poi il disorientamento viene ben presto rimpiazzato dall'interesse per i contenuti.

La prima impressione riguarda proprio la Populorum progressio, la quale, riletta dopo quarant'anni, appare piú che mai attuale: non è il solito luogo comune definirla una "voce profetica". Ormai conoscete la mia ammirazione per Paolo VI: ebbene, leggendo la Caritas in veritate, ho provato una intima commozione. Se ricordate, nel mio precedente post facevo un veloce riferimento alla Populorum progressio. Che cosa ne ricordavo? La possibilità, ammessa da quell'enciclica, del ricorso, in certi casi, alla rivoluzione; del resto avevo praticamente dimenticato tutto. Ora, a rileggere quel testo in compagnia di Benedetto XVI, potete immaginare che cosa ho provato: la figura di quel Papa, incompreso da molti, diventa ai miei occhi piú grande che mai.

La seconda impressione riguarda la situazione attuale. Leggendo la Caritas in veritate, ci si accorge di quanto sia cambiato il mondo in questi anni. Tale mutamento è stato graduale e, insieme con il mondo, siamo cambiati anche noi; finora forse non ci eravamo mai fermati un attimo a fare un bilancio. Questa enciclica, che fa un'analisi abbastanza accurata della realtà, ci aiuta a capire che il mondo d'oggi è profondamente diverso da quello di solo quarant'anni fa.

Ci accorgiamo anche di quanto l'attuale situzione sia fluida: il mondo non solo è cambiato, ma continua a cambiare. Il Papa fa esplicito riferimento alla crisi che stiamo attraversando. Per cui viene spontaneo chiedersi se fosse il caso di scrivere un'enciclica in un momento di passaggio come questo. Fra qualche anno tutto potrebbe essere diverso da oggi. Certamente Benedetto XVI e i suoi collaboratori hanno preso in considerazione tale obiezione, tanto è vero che la pubblicazione è ritardata due anni; ma poi probabilmente hanno accettato di correre il rischio di vedersi presto superati dagli eventi, pur di dire una parola chiarificatrice proprio su questa fase di passaggio. In fondo, se consideriamo le precedenti encicliche sociali, ci accorgeremo che anch'esse furono scritte in momenti critici; eppure, esse rimangono per noi delle pietre miliari, che, oltre a essere una testimonianza sull'epoca in cui videro la luce, costituiscono un punto di riferimento anche per i nostri giorni.

Un altro aspetto che colpisce è la complessità del momento storico che stiamo vivendo. In fondo, Leone XIII aveva a che fare con la "questione operaia", un problema certo notevole, ma abbastanza circoscritto. Guardate invece quanti aspetti, apparentemente cosí diversi tra loro, sono trattati nella Caritas in veritate: oltre allo sviluppo (che funge da filo conduttore dell'intera enciclica), la globalizzazione; la fame; il rispetto per la vita; la libertà religiosa; l'accesso al lavoro; l'economia e la finanza; il mercato, lo Stato e la società civile; la speculazione e la delocalizzazione; diritti e doveri; la crescita demografica e la denatalità; la cooperazione internazionale; il rispetto per l'ambiente e le problematiche energetiche; i principi di sussidiarietà e di solidarietà; l'educazione; il turismo e le migrazioni; la disoccupazione e le organizzazioni sindacali; le associazioni dei consumatori; le organizzazioni internazionali e un'autorità politica mondiale; la tecnologia e i mezzi di comunicazione sociale; la bioetica. Come si può vedere, ce n'è per tutti i gusti. E, per ogni punto, una parola chiarificatrice, che ci aiuta a esprimere un giudizio morale (semmai, si potrebbe notare che manca all'enciclica una certa organicità: si vede immediatamente che essa è frutto di piú mani; ma probabilmente non si poteva fare altrimenti).

Chiaramente, non tutti i punti sono sviluppati allo stesso modo: si va da alcuni passaggi a dir poco sublimi (per esempio, la riflessione su diritti e doveri o quella sulla questione demografica; interessantissima l'applicazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà alla globalizzazione!) ad altri che mi paiono un po' piú deboli (per esempio, la trattazione sulla libertà religiosa e, soprattutto, l'analisi di fenomeni come la globalizzazione, la delocalizzazione e le migrazioni).

L'enciclica non si fa scrupolo di denunciare abusi diffusi nel mondo d'oggi, soprattutto con riferimento al rispetto della vita (per esempio, le politiche di governi e organizzazioni internazionali a favore di contraccezione e aborto); ma poi non sempre se la sente di andare fino in fondo in tale denuncia (per esempio, quando si parla dell'accaparramento delle risorse energetiche, si parla, sí, di "sfruttamento e frequenti conflitti fra le Nazioni e al loro interno", ma forse non avrebbe fatto male a essere un tantino piú esplicita per quanti, vittime della disinformazione, non immaginano neppure che dietro certe guerre per la democrazia si nascondano interessi di tutt'altro genere).

E qui mi pare che si ponga un grosso problema: non sarebbe stato opportuno che il Papa prendesse una posizione netta non solo sui fenomeni, che sono sotto gli occhi di tutti, ma anche sulle cause, spesso occulte, che li provocano? Capisco che la Chiesa non possa iscriversi alla confraternita dei complottisti; ma è la stessa enciclica ad affermare: "Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana" (n. 42). Dunque, certi fenomeni hanno delle cause umane ben precise. È vero che si tratta di forze spesso "anonime" (e che tali vorrebbero rimanere), ma proprio per questo sarebbe necessario che qualcuno facesse nome e cognome. Perché non parlare esplicitamente dei "poteri forti", che hanno in mano le sorti dell'umanità: la massoneria, le grandi banche, i petrolieri, l'industria bellica, la lobby ebraica, ecc.? Perché fingere che queste realtà non esistano, quando tutti sappiamo che sono esattamente questi gruppi a decidere ogni cosa? Nell'enciclica si parla spesso di autorità politica e di Stato, come se vivessimo al tempo di Leone XIII. Ma non ci si rende conto che ormai tali realtà si sono svuotate di gran parte del loro significato? Accolgo volentieri l'invito dell'enciclica: "Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze" (n. 41). Però intanto dobbiamo prendere atto che i poteri effettivi degli Stati si sono notevolmente ridotti. In passato i Papi non temevano di denunciare le ideologie e i poteri che minacciavano l'umanità del loro tempo; perché oggi siamo diventati cosí timidi?

È forse giunto il tempo, per la Chiesa, di assumere un ruolo piú attivo in campo sociale, economico e politico. Non mi sembra piú sufficiente limitarsi a proporre alcuni valori morali; tanto, sappiamo quanto gliene importi a lorsignori dei nostri valori morali. Al n. 67 l'enciclica riprende l'auspicio di Giovanni XXIII a proposito di un'Autorità politica mondiale. Non ci si accorge che tale autorità già esiste? Non si tratta di un'autorità politica, ma di un'autorità di fatto molto piú potente di qualsiasi autorità politica. Ora tale potere sta cercando di trasformarsi anche in autorità politica sovrannazionale per l'Europa (vedi, prima, la Costituzione europea e, ora, il Trattato di Lisbona) o per il mondo intero (attraverso i vari Bildergerb e G8). Bisognerebbe che qualcuno denunciasse e ostacolasse tali tentativi di controllo dell'umanità. Chi dovrebbe farlo: i movimenti no-global?

La Chiesa, nel corso della storia, è stato un soggetto politico di primaria importanza, non tanto perché esercitasse un potere temporale in prima persona (questo le serviva solo per poter godere di una certa autonomia), ma perché delegava ad altri l'esercizio del potere politico (si pensi alla teoria delle due spade di Bonifacio VIII). Forse è giunto il momento per la Chiesa di rimboccarsi le maniche e, se necessario, di sporcarsi le mani, perché
, ora come ora, non c'è nessun altro a cui stiano veramente a cuore le sorti dell'umanità.

martedì 7 luglio 2009

In attesa dell'enciclica

In attesa di leggere la nuova enciclica del Papa (di proposito mi sono rifiutato di leggere qualsiasi anticipazione) permettete che vi racconti una mia esperienza personale, per quel che può valere.

Quarant'anni fa ero studente di liceo. Come tutti i giovani, a un certo punto attraversai una crisi che mise in discussione tutti i valori che avevo ricevuto nella mia educazione. Devo dire onestamente di non avere, grazie a Dio, mai perso la fede, ma certo il mio rapporto con la Chiesa era diventato un tantino problematico. In quegli anni (eravamo subito dopo il Sessantotto) un buon cattolico doveva necessariamente essere di sinistra, perché il Vangelo era considerato non cosí diverso dal Capitale di Marx: compito del cristiano era quello di instaurare la giustizia sociale, se necessario anche attraverso la lotta armata e la rivoluzione. A qualcuno, oggi, verrà da sorridere; qualcun altro, attualmente di destra, si sentirà magari un po' imbarazzato, perché la pensava esattamente in quel modo (se non addirittura credeva che la religione fosse l'oppio dei popoli) e dava del "fascista" a chi la pensava in maniera diversa...

Ebbene, io che non ero di sinistra (perché ciò andava contro la formazione che avevo ricevuto in una famiglia democristiana e anticomunista) non potevo accettare quella tendenza, che in certi momenti sembrava ricevere addirittura l'appoggio delle gerarchie (vi ricordate la Populorum progressio, che in qualche modo giustificava il ricorso alla rivoluzione? Oggi sarei d'accordo, ma allora no). Per tale motivo non mi sentivo piú molto a mio agio nella Chiesa cattolica, che mi sembrava troppo politicizzata e sbilanciata a sinistra, e cominciai a chiedermi se non ci fosse un modo diverso di essere cristiani, senza necessariamente dover essere al contempo marxisti.

Continuai sempre a frequentare la parrocchia (San Carlo ai Catinari, in pieno centro di Roma, tenuta dai Barnabiti), ma con un atteggiamento spesso contestatore, come era comune in quegli anni. Per il catechismo e l'animazione giovanile venivano dal Gianicolo gli studenti teologi barnabiti, anche loro contestatori, naturalmente (chi non lo era in quegli anni?), ma con una posizione molto diversa da quella allora di moda: insistevano piú sulla fede, che non sull'impegno sociale. Questo era dovuto al loro Padre Maestro che si sforzava di formarli a diventare preti e non agitatori sociali. Sentivo una certa attrazione per quella proposta, anche se non avevo ancora gli strumenti per poter esprimere un giudizio. È ovvio che uno studente liceale (soprattutto di liceo classico) tali strumenti, prima o poi, se li va a cercare per suo conto; ma la cosa non è sempre facile, perché spesso non c'è nessuno che lo accompagni in tale ricerca. A parte l'ammirazione per certi filosofi, piú orecchiati che realmente compresi, subii una notevole attrattiva dal protestantesimo, perché mi sembrava che, al contrario della Chiesa cattolica cosí politicizzata, proponesse una fede pura.

Il mio parroco (un sant'uomo, che cercarva di salvare capra e cavoli, applicando in spirito di obbedienza il Concilio, ma rimanendo fedele alla tradizione della Chiesa), cercava di giustificare l'impegno sociale del cristiano col riferimento alla Rerum novarum e alla dottrina sociale della Chiesa; per cui, quando a scuola studiai le vicende di fine Ottocento, mi dissi: Bisogna che legga la Rerum novarum; sono curioso di sapere che cosa Leone XIII ha detto veramente. E andai a comprarmi l'enciclica in una libreria cattolica. Cominciai a leggerla: man mano che andavo avanti, scoprivo che condividevo tutto quello che vi era scritto. Avevo trovato la verità! E giunsi alla conclusione: se condivido tutto quello che il Papa dice, allora io sono cattolico; sono loro a non esserlo; si può essere attenti ai problemi sociali, senza necessariamente essere socialisti; e non è necessario diventare protestanti per rimanere cristiani. La lettura della prima enciclica sociale rimane una pietra miliare nella mia formazione: da quel momento cambiò tutto. Successivamente, soprattutto dopo il mio ingresso nella vita religiosa e l'inizio degli studi filosofici-teologici, mi lessi a poco a poco tutte le altre grandi encicliche sociali (scoprii un altro capolavoro nella Quadragesimo anno di Pio XI); in tempi piú recenti ho parzialmente rivisto le mie posizioni (siamo in fase di "revisionismo"...) sulla dottrina sociale della Chiesa (magari un giorno ne parleremo), ma rimane l'interesse per un giudizio cattolico sulla realtà politico-economico-sociale in cui viviamo. Per cui non vedo l'ora di poter leggere la Caritas in veritate...

domenica 5 luglio 2009

5 luglio: Sant'Antonio Maria Zaccaria

Celebriamo oggi la solennità del nostro Padre e Fondatore Antonio Maria Zaccaria. Un santo poco conosciuto, ma non per questo meno grande. La sua scarsa conoscenza forse dipende dal fatto che è stato canonizzato solo in epoca relativamente recente (nel 1897, da Leone XIII).

Effettivamente, nel corso della sua brevissima vita (morí a 37 anni, nel 1539), non fece nulla di straordinario. La sua biografia è estremamente semplice. Nato a Cremona nel 15o2, diciottenne si trasferí a Padova per studiarvi medicina. Una volta laureatosi, tornò in patria, dove, anziché dedicarsi alla professione medica, preferí consacrarsi a Dio. Messosi alla scuola (teologica e spirituale) dei Domenicani (in particolare di Fra Battista da Crema), fu ordinato sacerdote nel 1529. Divenne cappellano e confessore della Contessa di Guastalla Ludovica Torelli; con lei si trasferí a Milano, dove entrò in contatto con l'Oratorio dell'Eterna Sapienza. Ebbe l'intuizione di trasformare quell'esangue gruppo di rinnovamento in una nuova compagine spirituale a servizio della riforma della Chiesa. Siamo agli inizi degli anni Trenta, gli anni in cui in Europa si stava diffondendo la Riforma protestante. La nuova famiglia spirituale, posta sotto il patrocinio di San Paolo, comprendeva un ramo maschile (i Chierici Regolari di San Paolo, successivamente soprannominati "Barnabiti"), un ramo femminile (le Angeliche di San Paolo) e un ramo laicale (i Coniugati di San Paolo). Questi tre gruppi avrebbero dovuto lavorare insieme per la riforma della Chiesa e il rinnovamento della società. È ciò che immediatamente cominciarono a fare a Milano, attirandosi gli strali di coloro che non sopportavano le loro pratiche pubbliche spesso provocatorie. Successivamente vennero chiamati anche nella Repubblica di Venezia a riformare alcuni monasteri. Ben presto però lo Zaccaria fu sopraffatto dalle fatiche apostoliche. Ammalatosi, chiese di essere trasportato a Cremona, dove morí, fra le braccia dell'ancor giovane madre, il 5 luglio 1539, nell'ottava degli Apostoli.

Una vita senza alcun evento straordinario. Ciò che fu straordinario fu lo spirito con cui visse la sua breve esistenza. Era un medico e perciò fece una diagnosi dei mali del suo tempo. Si accorse che la malattia che affligeva la Chiesa in quell'epoca era la tiepidezza. Si trattava dunque di "distruggere questa pestifera e maggior nemica di Cristo Crocifisso, la quale sí grande regna ai tempi moderni". Dopo la diagnosi, la terapia: la tiepidezza doveva essere rimossa con il suo antidoto, il fervore. Egli volle che i suoi figli fossero "piante e colonne della rinnovazione del fervor cristiano". Scrivendo alle Angeliche, alla vigilia della missione veneta, le esortava: "O figliole care, spiegate le vostre bandiere, che presto il Crocifisso vi manderà ad annunziare la vivezza spirituale e lo spirito vivo dappertutto". Nella sua ultima lettera, rivolta a una coppia di sposi, egli ci lascia questa eredità: "Non pensate che l'amore che io vi porto, né che le doti che sono in voi possono fare che desideri che siate santi piccoli. Vorrei, e desidero, voi siete atti, se volete, a diventare gran santi, purché vogliate crescere e restituire piú belle quelle doti e grazie al Crocifisso, dal quale le avete".

Proprio perché condusse una vita assolutamente ordinaria, ma in modo straordinario, Antonio Maria può essere oggi proposto come modello a tutti, in special modo ai sacerdoti, in questo anno a loro particolarmente dedicato. I santi — tutti i santi — sono santi di tutti; non appartengono a questo o quell'Ordine religioso, ma alla Chiesa. La situazione della Chiesa nel Cinquecento era, per molti versi, simile a quella attuale. Allora, come adesso, si sentiva il bisogno di una riforma. Lutero, rifacendosi a Paolo, pensò di riformare la Chiesa allontanandosi dalla sua tradizione, mettendo in discussione la dottrina cattolica e rompendo la comunione ecclesiale. Antonio Maria, piú umilmente e piú realisticamente, si rese conto che il vero rinnovamento della Chiesa doveva essere spirituale. Anche lui si appellò a Paolo, non per distruggere, ma per edificare: la riforma della Chiesa, per essere efficace, non doveva tanto riguardare le strutture, ma partire dai cuori.

sabato 4 luglio 2009

I pasticci di Mons. Pagano e quelli di Mons. Fisichella

Forse qualcuno si aspetta che dica qualcosa sulle dichiarazioni di Mons. Sergio Pagano, Prefetto dell'Archivio Segreto Vaticano, a proposito delle cellule staminali e, piú in generale, dell'atteggiamento della Chiesa nei confronti della scienza. Intuisco queste attese, dal momento che Mons. Pagano è un barnabita, appartenente cioè allo stesso Ordine religioso a cui anch'io mi onoro di appartenere.

Le dichiarazioni del Prefetto dell'ASV hanno destato non poco stupore fra i giornalisti convenuti nella Sala Stampa della Santa Sede per la presentazione della nuova edizione dei documenti del processo a Galileo, curata dallo stesso Mons. Pagano. Si veda in proposito l'articolo di Andrea Tornielli sul Giornale. A quanto pare, resosi conto della gaffe, terminato il briefing, Mons. Pagano ha diramato una precisazione scritta, che però, di fatto, confermava le dichiarazioni rilasciate durante la conferenza stampa. Mi è stata inoltre segnalata un'intervista al TG1, nella quale il Prefetto, anziché chiarificare, avrebbe creato ulteriore confusione.

La sortita di Mons. Pagano non mi meraviglia. Conoscendolo da lunga pezza (siamo stati compagni di noviziato e, per alcuni anni, di studentato), so che, per la sua impulsività, può commettere simili scivoloni. Il problema è che ora non è piú uno qualsiasi che può esprimere liberamente le sue personali opinioni; è un prelato della Curia Romana, e noi sappiamo come qualsiasi cosa un prelato dica viene immediatamente attribuita alla Santa Sede in quanto tale. Inoltre avrebbe dovuto ricordare che, in quel momento, egli era nella Sala Stampa della Santa Sede in qualità di Prefetto dell'ASV e di studioso: il suo compito era quello di presentare i risultati del suo lavoro (e in questo campo credo che nessuno avrebbe potuto rivolgergli alcun appunto); non era suo compito fare sbrigative applicazioni all'attualità. Per fare questo, avrebbe dovuto avere una competenza e un ruolo diverso. Giustamente Tornielli fa notare che Pagano è "esperto in liturgia e specializzato in archivistica", per cui non ha alcuna autorità in campo morale (perché i problemi della genetica non sono solo questioni scientifiche, ma morali). Oggigiorno dobbiamo stare molto attenti a questi sconfinamenti in campi in cui non siamo competenti. Da uno storico invece mi aspetterei una maggiore chiarezza sul caso Galileo. Ancora una volta (si veda in proposito il mio post del 10 giugno) devo lamentare che, dopo tante discussioni e pubblicazioni, non abbiamo ancora le idee chiare su Galileo: ci muoviamo ancora nella piú totale confusione.

Detto questo, va concessa a Mons. Pagano una scusante: egli aveva detto subito, nella sua conferenza, che stava parlando "da persona privata". Forse anche noi dovremmo diventare un tantino piú elastici; dovremmo imparare a distinguere sempre fra la persona e la carica che essa ricopre. Quello che dobbiamo esigere da una persona investita di un ruolo è che svolga bene il suo lavoro; dobbiamo contemporaneamente ammettere che, come persona privata, possa avere opinioni sulle quali si può tranquillamente discutere. Questo non vale solo per i prelati della Curia Romana, ma per chiunque.

Un caso totalmente diverso mi pare invece quello — che sembrava ormai superato, ma non lo è — di Mons. Rino Fisichella. Andatevi a leggere l'articolo di Sandro Magister sul sito www.chiesa e il suo post sul blog Settimo Cielo. Mi ero già occupato del caso Recife in epoca non sospetta, il 24 marzo scorso, quando era ancora tutto un coro di applausi verso l'articolo di Mons. Fisichella. Già allora definivo il caso "particolarmente inquietante". Ora sembra che la questione, nonché rientrare, stia ulteriormente degenerando. Le informazioni riportate da Magister sono di una gravità eccezionale. Ad esse va aggiunto un altro dato, che non può essere in alcun modo trascurato: pochi giorni fa sono state accolte le dimissioni dell'Arcivescovo Dom José Cardoso Sobrinho, per raggiunti limiti di età, ed è stato nominato il nuovo Arcivescovo di Olinda e Recife. Ovviamente ciò rientra nella comune prassi della Chiesa; ma non ci vuole molto per capire che l'accettazione di tali dimissioni in questo momento non può che essere interpretata come una ulteriore sconfessione del Vescovo brasiliano. Come si può vedere, in questo caso, non è coinvolto semplicemente Mons. Fisichella come persona privata, ma egli in quanto Presidente della Pontificia Accademia per la vita; sono inoltre coinvolti L'Osservatore Romano, organo "ufficioso" della Santa Sede, la Congregazione per i Vescovi, quella per la Dottrina della Fede e la Segreteria di Stato. Altro che Mons. Pagano e l'Archivio Segreto Vaticano!

Nel mio precedente post mi soffermavo esclusivamente sull'aspetto formale della questione, ovverosia sulla procedura che era stata seguita e che non mi sembrava molto corretta. Ora ho l'impressione che non solo non si sia fatto nulla da quel punto di vista, ma anzi la situazione si sia ulteriormente aggravata. Ma a questo punto mi pare che anche la questione di merito non possa più essere elusa e rinviata. È necessario che qualcuno (il Prof. Michel Schooyans invoca l'intervento del Papa in persona) dica una parola chiarificatrice e, se necessario, prenda i provvedimenti del caso. La confusione creata nella Chiesa dall'articolo di Mons. Fisichella è enorme; bisogna che qualcuno intervenga e dica la parola "fine".

mercoledì 1 luglio 2009

Ancora su Alessandro VI e moralismi vari

Un confratello, dopo aver letto il mio post di ieri, mi scrive:

«Quanto ad Alessandro VI, un riconoscimento indiretto della sua opera di mediazione politica, l'avevo già letto in Carl Schmitt, Il Nomos della Terra (Adelphi, 1991), quando lo studioso di diritto internazionale riserva ad Alessandro VI la prerogativa di aver stabilito la prima "linea" globale di divisione e ripartizione della terra, all'epoca dei grandi viaggi e scoperte geografiche, per comporre pacificamente le vertenze tra gli Stati conquistatori (Spagna e Portogallo). Si tratta della bolla Inter caetera (4 maggio 1493), con la quale si determinò il destino dell'America Latina e la diffusione della lingua e della cultura (spagnola/portoghese) che durano fino ad oggi... (cf op. cit., p. 85 ss).
D'altronde la capacità politica di questi Papi era a quell'epoca universalmente riconosciuta, al di là del giudizio severo sulla loro condotta personale.
Oggi, purtroppo, con i giudizi morali sulla Chiesa e sul clero, si incerotta la bocca della Chiesa e la sua valenza politica è incomparabilmente meno efficace».

Solitamente nei manuali scolastici si fa riferimento al "Trattato di Tordesillas" del 1494, che in qualche modo superò la bolla Inter caetera, che comunque rimane uno dei grandi successi diplomatici
di Papa Borgia. Ma, a prescindere dal caso specifico, il mio confratello pone un problema piú generale, sul quale forse faremmo bene a riflettere, il problema della coerenza morale del cristiano — e, in generale, della Chiesa — con il credo che professa. Oggi siamo molto sensibili a tale aspetto. E giustamente. Ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che il confine fra la legittima (e doverosa) tensione verso la santità e il moralismo è alquanto tenue. E se la prima è una esigenza evangelica, il secondo non ha nulla di evangelico: il moralismo non è assolutamente un atteggiamento cattolico (non a caso lo troviamo molto diffuso nel protestantesimo). Il moralismo, come tutti gli "ismi", è la degenerazione della moralità (vi ricordate il paragone del Card. Biffi con i polmoni e la polmonite per spiegare la differenza fra ragione e razionalismo?). Che esista una dimensione morale del cristianesimo, non ci piove; che il cristiano non possa limitarsi a credere e a "celebrare" (come oggi si usa dire) la sua fede, ma debba anche sforzarsi di viverla, è pacifico; che esistano dei precetti a cui il cristiano deve conformare il proprio comportamento, non può in alcun modo essere messo in dubbio; ma tutto ciò non significa che, se non c'è tale coerenza tra fede e vita, la fede stessa perde il suo valore e la Chiesa perde la sua credibilità. L'incoerenza dei cristiani non inficia in alcun modo la verità del messaggio di cui la Chiesa è portatrice.

Vorrei qui, tanto per avere qualche punto di riferimento sicuro, citare un paio di numeri del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica:

«357. Come la vita morale cristiana è legata alla fede e ai Sacramenti?
Ciò che il Simbolo della fede professa, i Sacramenti lo comunicano. Infatti, con essi i fedeli ricevono la grazia di Cristo e i doni dello Spirito Santo, che li rendono capaci di vivere la nuova vita di figli di Dio nel Cristo accolto con la fede».

«433. Perché la vita morale dei cristiani è indispensabile per l'annunzio del Vangelo?
Perché con la loro vita conforme al Signore Gesù i cristiani attirano gli uomini alla fede nel vero Dio, edificano la Chiesa, informano il mondo con lo spirito del Vangelo e affrettano la venuta del Regno di Dio».

Su questo siamo tutti d'accordo. Il problema nasce quando si esagera: l'eccessiva insistenza sulla coerenza tra fede e vita, al di là dell'apparente pietà che sembrerebbe ispirarla, tradisce una mentalità opposta al Vangelo. Si tratta, praticamente della mentalità legalistica, propria degli scribi e dei farisei (e, successivamente, dei giudaizzanti), i quali pensavano di poter essere giustificati in base alle opere della legge: non è Dio che mi salva con la sua grazia, ma sono io che mi salvo per i miei meriti. È questa la mentalità contro cui si sono scagliati prima Gesú e poi Paolo. In tale mentalità legalistica il ruolo di Gesú Cristo è ridotto a quello di un maestro di principi morali e di un modello da imitare; non c'è alcun bisogno di lui come salvatore e redentore.

Noi sappiamo invece che siamo dei poveri peccatori; che il peccato ci contrassegna fin dal seno materno; che da soli non possiamo fare nulla; che abbiamo bisogno della grazia per poter essere salvati; che, anche dopo essere stati giustificati dalla grazia battesimale, continuiamo a peccare e dobbiamo perciò sempre ricorrere alla misericordia di Dio. E sappiamo pure che tutto ciò, nonché sminuire la potenza di Dio, la esalta: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2 Cor 12:9).

Noi oggi ci scandalizziamo tanto della Chiesa del passato (a parte il fatto che non mi pare proprio che abbiamo le carte pienamente in regola per farlo...): Papi che avevano figli; Cardinali la cui unica preoccupazione era la vita di mondo; Vescovi che erano piú signori temporali che pastori; preti ignoranti e corrotti... Tutto vero. Eppure la Chiesa ha svolto ugualmente la sua missione. Qualcuno dirà: "Nonostante i suoi ministri". Certo, ma forse dovremmo aggiungere anche: "Attraverso quei ministri imperfetti".

Il mio confratello termina con un riferimento alla Chiesa attuale: nonostante la sua purificazione (a dire il vero, piuttosto parziale, visto come stanno andando le cose...), essa ha perso buona parte del suo peso nel mondo d'oggi. Si dirà: meglio cosí; non è questo il compito della Chiesa; la Chiesa non deve avere una "valenza politica"; la sua missione è puramente spirituale: essa deve limitarsi ad annunciare il Vangelo e farsi anticipazione profetica del Regno di Dio. Mah, avrei qualche dubbio. Come al solito, a forza di spiritualizzare, abbiamo finito per togliere alla Chiesa qualsiasi consistenza; l'abbiamo ridotta a una delle tante sette spiritualistiche che pullulano nel mondo d'oggi e che fanno tanto comodo al potere che ha in mano i destini dell'umanità. Forse non sarebbe male che la Chiesa, pienamente consapevole della propria povertà morale, ma infischiandosene delle prediche moralistiche, perché portatrice di un potere superiore, ricominciasse a svolgere il ruolo che, per vocazione, le compete.

martedì 30 giugno 2009

La santità della Chiesa e le debolezze dei suoi figli

Dopo aver letto il post Elogio di Paolo VI, un mio ex-alunno, David, mi ha scritto il seguente messaggio:

«Circa Paolo VI, non sarà che dopo Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XII, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II e, diciamolo, Benedetto XVI ci siamo abituati a pensare che lo straordinario in fondo è l'ordinario? Voglio dire che la Chiesa non sempre ha avuto "santi padri" che erano santi anche personalmente... Lo stesso Pietro ebbe delle debolezze enormi. In fondo, è da meno di cento anni che i papi — grazie ai mezzi di trasporto e agli strumenti di comunicazione — riescono a governare la Chiesa in modo effettivo. Non dico che prima delegassero molto... Solo che magari si faceva piú alla buona! Credi che avrebbero concesso tanti privilegi al Re di Francia se avessero potuto andare a Parigi come Giovanni Paolo II andò in Polonia nel '79? Pensa allo sforzo immane del povero Pio VI per andare a convincere Giuseppe II...
Di recente ho letto molto su Alessandro VI, il Borgia. Ecco, non un santo... Ma di fronte alle mire dei Re e dei principi, chi può dire che non fosse l'uomo giusto al momento giusto? Eppure, oggi ci pare cosí impresentabile... A confronto di santi papi che magari al posto del Borgia avrebbero fatto una figura meschina, lasciando la Chiesa in mano ai signori di questo mondo. Come il Borgia non fece mai».

In effetti, non possiamo proprio lamentarci dei Papi degli ultimi 150 anni. Qualcuno dice: "Uno piú santo dell'altro!". Non lo so; sta di fatto che di dieci Papi (lasciamo in pace, per favore, quello felicemente regnante...) succedutisi in questo secolo e mezzo (David ha dimenticato Pio XI e Giovanni Paolo I), uno è già ufficialmente canonizzato (Pio X), due sono "Beati" (Pio IX e Giovanni XXIII), di altri tre è in corso la causa di beatificazione (Pio XII, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II). Di Paolo VI non so se sia stata mai introdotta la causa, ma per me, come dicevo, è già santo. Degli altri tre (Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI), anche se nessuno mai ha parlato di santità, personalmente nutro una grandissima stima (basti pensare che l'attuale Pontefice, scegliendo il nome di Benedetto, ha fatto espresso riferimento a Papa Dalla Chiesa).

Forse ha ragione David, dicendo che ci siamo abituati un po' male; per cosí dire siamo stati un po' "viziati"; adesso abbiamo la pretesa che tutti i Papi, tutti i Vescovi, tutti i sacerdoti e tutti i fedeli siano santi. Certo, la santità è una vocazione per tutti: ce lo ha ricordato il Concilio Vaticano II (un aspetto del Concilio che spesso siamo portati a dimenticare). Per qualcuno (le persone consacrate), la santità è addirittura una specie di "dovere". OK. Ma stiamo attenti a non assolutizzare troppo questo discorso, quasi che, se gli uomini di Chiesa non sono santi, non svolgono piú il ruolo loro affidato da Cristo e, con ciò, la Chiesa cessa di compiere la sua missione.

Certamente, come ci sta ricordando il Papa in questo inizio di Anno sacerdotale, il comportamento non proprio esemplare di alcuni ministri danneggia non poco l'immagine della Chiesa; ma ciò non significa che Dio non possa compiere la sua opera anche attraverso strumenti imperfetti. Un esempio fra tanti: Padre Marcial Maciel Degollado. La Chiesa compie la sua missione al di là delle capacità e dei meriti dei suoi ministri. Ovviamente, quel che fa un sacerdote santo (in questi giorni ce ne sono stati riproposti due esempi: il Curato d'Ars e Padre Pio) vale molto di piú di quanto fanno (o, talvolta, non fanno) mille sacredoti scalcagnati; ma, in ogni caso, anche questi ultimi fanno la loro parte. Per esempio, nessuno ci ricorda che, a San Giovanni Rotondo, accanto al confessionale di Padre Pio c'erano altri confessionali con qualche fraticello sicuramente meno santo di Padre Pio, pronto a dare l'assoluzione a quanti non venivano assolti dal Santo stigmatizzato.

David ci rammenta il caso di Alessandro VI. Purtroppo non ho mai avuto occasione di approfondire la figura di Papa Borgia, per cui preferisco non pronunciarmi. Certo, non posso annoverarmi fra i suoi ammiratori; ma puoi darsi che abbia ragione David quando afferma: "L'uomo giusto al momento giusto".

Da parte mia, condivido pienamente la nota definizione di Chiesa data dal Card. Biffi: "La bellisima Sposa di Cristo rivestita di stracci". Quel che vediamo sono gli stracci; questi stracci ci impediscono di contemplare la bellezza della Sposa di Cristo, ma non eliminano quella bellezza. La Chiesa è santa anche quando noi, suoi membri, lo siamo un po' meno. Gli scandali che oggigiorno stanno travolgendo il clero (ma che non sono nulla di nuovo nella storia della Chiesa) offuscano l'immagine della Chiesa, ma nulla tolgono alla sua natura e alla sua missione.

Quanto ai mezzi di trasporto e agli strumenti di comunicazione, magari ne parleremo un'altra volta.

lunedì 29 giugno 2009

L'eredità di Paolo

Ieri sera il Santo Padre ha concluso l'Anno paolino (e ci ha dato la meravigliosa notizia che l'Apostolo è realmente sepolto nella sua basilica). Di solito, al termine di questi anni un po' speciali, proviamo un certo rammarico, perché ci accorgiamo che, nonostante i buoni propositi, non abbiamo sfruttato appieno l'occasione che ci veniva offerta. All'inizio, pensiamo di avere tanto tempo innanzi a noi; poi non ci rendiamo conto che il tempo vola e ci ritroviamo alla fine senza aver attuato la maggior parte dei nostri buoni propositi. Anche in questo caso dobbiamo lamentare di non aver approfondito abbastanza la conoscenza di San Paolo e di non aver ravvivato abbastanza in noi il suo spirito. Ma, se anche solo chiudiamo questo anno col dispiacere di non aver fatto abbastanza e col desiderio di fare qualcosa di piú, credo che sia già un buon risultato. Se non abbiamo meditato abbastanza le lettere dell'Apostolo durante quest'anno, possiamo farlo in futuro, cominciando oggi stesso. Non credo che lui si offenda. Anzi...

Se ci chiedessimo quale sia l'eredità che Paolo ci lascia al termine di questo anno a lui dedicato, penso che possiamo trovarla nelle parole che leggiamo nella liturgia odierna:

«Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4:7).

Come se ci dicesse: "Io ho fatto la mia parte; ora fate la vostra. Io ho finito di combattere la mia battaglia; ora cominciate a combattere la vostra battaglia. Io ho terminato la mia corsa; ora iniziate la vostra corsa. Se finora ve ne siete stati tranquilli, sappiate che è giunta l'ora del combattimento; se finora siete stati fermi, cominciate a correre. Non basta camminare, bisogna correre. Non c'è tempo da perdere: è in gioco la salvezza dell'umanità. Non crediate che per me sia stata facile: pericoli, persecuzioni, tentazioni, umiliazioni; ma, attraverso tali prove, con la grazia di Dio, ho conservato la fede. Ora, questa fede, l'affido a voi; anche voi dovete conservarla pura come io l'ho ricevuta e l'ho trasmessa a voi. Conservatela e trasmettetela a vostra volta. È un dono che non ci appartiene: lo abbiamo ricevuto nonostante ne fossimo indegni e ora, senza contaminarlo, dobbiamo consegnarlo ad altri, perché esso possa raggiungere gli estremi confini della terra e rimanere intatto fino alla fine dei tempi. Io ho fatto tutto quello che potevo fare: ho speso la mia vita e ho versato il mio sangue. Ora tocca a voi".

domenica 28 giugno 2009

XIII domenica "per annum"

Potremmo riassumere l'odierna liturgia in due parole: FEDE e TATTO. Tanto Giairo quanto l'emorroissa ripongono tutte le loro speranze in un contatto fisico con Gesú:

«La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva»;

«Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata».

Secondo la loro fede
semplice, basta toccare Gesú (addirittura, basta toccare il suo mantello) per essere salvati.

Noi, cristiani "adulti", guardiamo con sufficienza a questa fede; anzi, non la chiamiamo neppure fede: per noi essa è semplice "superstizione". Toccare? Che bisogno c'è di toccare? La fede è qualcosa di puramente spirituale. Se vogliamo essere veri credenti, dobbiamo purificare la nostra fede da tutti i residuati paganeggianti e renderla un atto totalmente spirituale.

Ma, a quanto pare, Gesú non disdegna la fede arcaica di Giairo e dell'emorroissa; anzi, l'approva e la incoraggia:

«Figlia, la tua fede ti ha salvata»;

«Non temere, soltanto abbi fede!».

E lui stesso sta al gioco:

«E subito Gesú, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?"».

Naturalmente gli esegeti si affretteranno a precisare che qui il vangelo riflette una mentalità primitiva, una concezione piuttosto fisicistica della salvezza, che non va presa alla lettera, ma interpretata in senso spirituale. Non so però come spiegheranno il gesto che Gesú compie sulla figlia di Giairo:

«Prese la mano della bambina e le disse: "Talità kum"».

Sí, la prese per mano. Che bisogno c'era? Non bastava dirle: "Alzati"? No, a quanto pare non bastava, perché Gesú la prese per mano. Se lo ha fatto ci sarà pur stato un motivo. E il motivo va ricercato nel mistero dell'incarnazione:

«Il Verbo si fece carne» (Gv 1:14).

Perché si fece carne? Solo per essere visto? Se cosí fosse, avrebbe potuto ritardare di qualche secolo l'incarnazione e rendersi visibile ai nostri giorni (nella "civiltà dell'immagine") in maniera virtuale. Come diavolo li chiamano quella specie di cartoni animati che sembrano veri? avatar? Ebbene, se Gesú si fosse fatto avatar, lo avremmo visto ugualmente e ci avrebbe potuto comunicare lo stesso la sua parola. E invece "il Verbo si fece carne". Giovanni testimonia che loro — gli apostoli — non solo videro e udirono Gesú, ma lo toccarono:

«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita ... quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi» (1 Gv 1:1.3).

Dunque non entrano in gioco soltanto due sensi (vista e udito), ma tre: alla vista e all'udito si aggiunge il tatto. Non basta vedere, non basta udire, bisogna anche toccare. Per questo il Verbo si è fatto carne: perché potessimo toccarlo e, toccandolo, essere salvati. Toccare Gesú significa toccare il Verbo della vita, significa toccare Dio stesso. Solo attraverso un contatto fisico con lui la nostra umanità può essere risanata.

venerdì 26 giugno 2009

Alcune precisazioni e qualche risposta

I miei ultimi due post ("Il frutto piú amaro del Concilio" e "Elogio di Paolo VI") hanno avuto una discreta risonanza: sono stati rilanciati da altri blog e siti e ampiamente commentati (o nei blog che li riprendevano o con me direttamente, tramite posta elettronica).

A questo punto mi sento in dovere di fare alcune precisazioni, oltre che di rispondere a quanti mi hanno scritto.

1. La prima precisazione riguarda i commenti, che non sono abilitati su questo blog. Ne ho già parlato i primi giorni, ma non posso pretendere che i nuovi lettori vadano a leggersi i primi post pubblicati. Per cui penso che sia opportuno ripetere i motivi di questa scelta. Non sono un blogger di professione; sono un sacerdote missionario. Ho iniziato quest'attività quasi per gioco (anche se c'era in quei giorni dentro di me una certa rabbia, che dovevo in qualche modo sfogare). Non pensavo minimamente che il blog avrebbe avuto il successo che ha avuto: mi sono reso conto che non solo c'era spazio per una voce che andava ad aggiungersi alle innumerevoli voci già online, ma che questa voce era pure apprezzata da molti. Per questo motivo, continuo a pubblicare post piú per dovere che per piacere, perché so che qualcuno li attende. La prendo come una nuova forma di apostolato, anche se mi rendo conto che tutto è relativo, per cui da un momento all'altro le cose potrebbero cambiare. Ebbene, perché non ho abilitato i commenti? Perché, sinceramente, non ce la farei a starci dietro; mi richiederebbero troppo tempo, un tempo che non ho e, se anche lo avessi, preferirei spendere in modo diverso. Gestire i commenti di un blog non è questione facile; vedo ciò che è accaduto e accade in altri blog: in qualche caso il mancato controllo degli interventi ha portato a scelte esiziali per il sito (vedasi Effedieffe). Purtroppo, spesso (non sempre, per fortuna) l'agorà della discussione si trasforma in un'arena di gladiatori: se non si moderano i commenti, la situazione rischia di sfuggire di mano. Questo controllo, io non posso in alcun modo farlo.

2. Ciò significa che non gradisco essere messo in discussione? Niente affatto; anzi, il contraddittorio è molto gradito, purché fatto con civiltà. L'unica cosa che non sopporto è che degli "Anonimi" si permettano di criticare con superficialità e sufficienza le idee di chi si espone con nome e cognome (e foto). Non penso di pretendere troppo se desidero che i commenti siano fatti con lo stesso impegno con cui i post vengono scritti, siano frutto di riflessione e non di reazione immediata, e siano pertinenti all'argomento trattato. Tutto ciò può essere fatto tranquillamente attraverso la posta elettronica. Nel profilo si può trovare il mio indirizzo email. A questo proposito, vorrei pregare tutti coloro che mi scrivono di utilizzare d'ora in poi l'indirizzo "querculanus@gmail.com" e non piú "scalese@gmail.com". Questo, semplicemente perché vorrei mettere un po' d'ordine nella mia posta elettronica e raccogliere tutti i messaggi attinenti al blog in un'unica cartella (e non dimenticare di rispondere a qualcuno).

3. Avrete notato che ultimamente i post si sono diradati. Forse vi devo una qualche spiegazione. Sono stato trasferito in un altro paese, che per il momento, per motivi di prudenza (no, state tranquilli, non rischio la vita), preferisco non rivelare. Dove mi trovo attualmente ho meno tempo a disposizione, spesso manca la luce e, anche quando c'è la corrente, la connessione a internet non funziona. Tutto ciò non mi permette di organizzare la mia giornata come vorrei, dedicando un certo tempo alla lettura, un po' di tempo alla stesura dei post, e il resto ad altre attività. Le mie giornate sono, per il momento, alquanto irregolari e disordinate (cosa non buona per un religioso); per cui ho dovuto ridurre la frequenza di pubblicazione dei post. Sono sicuro che capirete.

E ora veniamo alle risposte.

1. Non pretendo che tutti abbiano avuto la medesima esperienza di Paolo VI. Ho detto nel mio post che si trattava di una testimonianza personale, che vale quel che può valere. Dico però che se uno non ha mai avuto la fortuna di incontrare personalmente Papa Montini e di ascoltarlo, non può capire quel che ho scritto. Posso essere schietto? Quel che provavo quando sentivo parlare Paolo VI non l'ho mai sperimentato nei 27 anni successivi (senza con ciò nulla togliere ai meriti di Papa Wojtyla). Voi direte: solo una questione emotiva. Può darsi che sia vero: Paolo VI è stato il Papa della mia giovinezza. Ma credo di aver dimostrato razionalmente, al di là dei sentimenti, che cosa ha fatto Papa Montini per la Chiesa. A quel che ho già scritto, potrei aggiungere, come mi rammenta Gianni, il Credo del Popolo di Dio (di cui abbiamo scoperto recentemente i retroscena). Ma vorrei aggiungere un altro "schiaffo" al Concilio da parte di Paolo VI (forse non cosí forte come la "Nota praevia" o l'avocazione a sé di celibato e contraccezione, ma in ogni caso un gesto significativo). Nella Lumen gentium c'è un capitolo sulla Madonna, dove questa ci viene presentata come "figura della Chiesa" (typus Ecclesiae): Maria è un membro della Chiesa, una di noi, una come noi, al massimo un modello da imitare. Tutto vero. Ma che cosa ti fa Paolo VI? Al termine del terzo periodo del Concilio (21 novembre 1964), nel momento stesso della promulgazione della Lumen gentium, proclama la Beata Vergine Maria "Madre della Chiesa", in barba ai teologi e ai Padri conciliari...

2. Alessandro, a proposito dell'Ostpolitik di Montini, mi fa notare che l'accordo con i sovietici mirava a evitare una possibile ritorsione dei regimi comunisti contro i cattolici, ritorsione che avrebbe probabilmente fatto séguito a una eventuale condanna del comunismo da parte della Chiesa. E aggiunge che le condanne precedenti del comunismo (di Pio XII e Giovanni XXIII) rimasero invariate anche durante tutto il Concilio Vaticano II. Accolgo volentieri tale precisazione, anche se non ho elementi per esprimere un giudizio personale. Dico solo che tali questioni, anziché dai giornalisti, andrebbero approfondite dagli storici. Da parte mia ribadisco che non sono mai stato un fautore della Ostpolitik vaticana. Anche se ora la situazione è radicalmente cambiata (per cui le mie valutazioni storiche sono in fase di rielaborazione), dico sinceramente che la politica dei compromessi con le ideologie non mi è mai piaciuta né durante l'illuminismo, né al tempo del nazismo, né all'epoca del comunismo, né oggi, né mai (chi ha orecchi per intendere...).

3. Don Gianluigi mi scrive: Paolo VI "ha assolto il suo ministero come chi dà regole direttive, enuncia delle verità, richiama i principi, redige documenti, ma ha rinunciato a veri e propri atti di governo, di potestà obbligante che è sempre stata considerata parte integrante del supremo officio pontificale. Senza questi atti l'insegnamento stesso della verità risulta inefficace e rimane solo astratto. Per difendere la vera dottrina occorrono due cose: a) rimuovere l'errore in sede dottrinale, il che si realizza confutando gli argomenti dell'errore e dimostrando la loro infondatezza; b) rimuovere l'errante, cioè privarlo del suo ruolo nella chiesa affinché non sparga l'errore". E continua dicendo che Papa Montini è stato autoritario con i tradizionalisti e debole con i progressisti, che non ha vigilato sulla riforma liturgica ed è stato eccessivamente tollerante con gli abusi. Rispondo: sarà anche vero che Paolo VI è stato debole e tollerante con le persone. Ma per me questo non è una colpa; è piuttosto una virtú. Papa Montini era un gran signore: credeva nelle persone, si fidava di loro, lasciava spazio alla loro iniziativa. Che questo sia rischioso, non c'è dubbio; ma personalmente preferisco aver a che fare con un superiore di questo genere piuttosto che con uno autoritario, che non dà spazio e non si fida di nessuno. Ma quando si accorgeva che qualcuno approfittava della sua fiducia diventava inflessibile. Credo che sia un caso unico nella storia della Chiesa il trasferimento su due piedi di Mons. Bugnini a Teheran (altro che promozioni, come di solito si fa). Non mi risulta che sia stato mai pubblicato un Messale che potesse dare adito a sospetti di eresia. È vero che la prima edizione dell'Ordo Missae lasciava ancora molto a desiderare, ma fu subito modificata. Non mi scandalizza affatto che, a lavori ancora in corso, potesse venir fuori qualcosa di discutibile. Ciò che conta è il risultato finale, il quale, ancorché perfettibile, non può essere in alcun modo tacciato di eresia. Il fatto che Paolo VI accolse la critica dei Cardinali Ottaviani e Bacci dimostra che non era sordo alle istanze dei tradizionalisti. Fu lui stesso di persona a volere la conservazione dell'Orate fratres, per sottolineare il valore sacrificale della Messa. No, nella difesa della dottrina Paolo VI non può in alcun modo essere messo sotto accusa (e fu una difesa motivata, che confutava gli argomenti contrari). È stato tollerante con le persone; ma ciò, a mio parere, nonché diminuire, accresce la sua grandezza.

mercoledì 24 giugno 2009

Elogio di Paolo VI

In questi giorni si fa un gran parlare di Paolo VI. L'occasione è data dalla pubblicazione del libro di Andrea Tornielli, Paolo VI. L'audacia di un Papa, Mondadori. Significa che il vaticanista del Giornale ha fatto un buon lavoro. Peccato che, almeno per il momento, non posso leggerlo; speriamo di poterlo fare quanto prima. Qui vorrei soltanto portare, per quanto può valere, la mia testimonianza personale su Papa Montini.

Anche se, come dice Messori, Tornielli "smentisce gli stereotipi su Paolo VI", quegli stereotipi, a quanto pare, fanno fatica a scomparire. Tutte le volte che si scrive qualcosa su di lui, si ripetono sempre le solite banalità: Papa amletico, raffinato intellettuale, distaccato e incompreso dalle folle, ecc. ecc. Ma è mai possibile che ancora non ci si renda conto che siamo tutti vittime di campagne mediatiche? Chi ha deciso che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono stati Papi amati dalle folle, mentre Paolo VI e Benedetto XVI non riescono a incontrare il favore popolare? I media. Ma siamo proprio cosí sicuri che ciò corrisponda alla realtà?

Personalmente ritengo che Paolo VI sia stato uno dei piú grandi Papi del XX secolo. Ha un merito grandissimo: ha saputo portare a conclusione il Concilio (impresa certo non facile) e poi ha realizzato l'applicazione del Concilio (impresa ancora piú difficile). La Chiesa, grazie al Cielo, è guidata dallo Spirito di Dio: forse c'era bisogno di un Papa un tantino incosciente come Giovanni XXIII per convocare il Vaticano II, ma certamente lui non si rendeva conto di che cosa bolliva in pentola e di che cosa avrebbe significato convocare un Concilio. Come giustamente ricorda Messori, Papa Roncalli pensava di cavarsela in pochi mesi, con l'approvazione unanime degli schemi preparati dalla Curia Romana; pensava di ripetere per la Chiesa intera l'esperienza del Sinodo Romano (e questo la dice lunga sul tanto sbandierato "progressismo" del "Papa Buono"). Una volta avviato il Concilio, ci pensò la Provvidenza a sostituire il direttore d'orchestra. Montini era certamente ben visto dai novatores (per la sua apertura mentale e la sua formazione), ma ben presto questi cambiarono il loro giudizio su colui che speravano avrebbe realizzato i loro piani. Quali furono le "colpe" commesse da Paolo VI agli occhi della lobby progressista?

Innanzi tutto, Papa Montini diede una svolta al Concilio: quello che doveva essere semplicemente, nei programmi di Giovanni XXIII, un concilio "pastorale", divenne un concilio "ecclesiologico", che si proponeva di portare a termine l'opera iniziata dal Vaticano I. È ovvio che in tal modo si dava al Concilio una valenza dottrinale che, nei piani iniziali, non avrebbe dovuto avere.

Una colpa ancora piú grave fu la "Nota praevia" alla Lumen gentium. I progressisti erano riusciti a far passare un concetto di collegialità che metteva fortemente in discussione il primato pontificio. Paolo VI, dimostrando un grande senso di rispetto verso il Concilio, non volle modificare la costituzione che era stata approvata, ma volle che fosse integrata da una "Nota praevia", alla cui luce essa avrebbe dovuto essere interpretata, per evitare qualsiasi ambiguità.

Altra colpa di Paolo VI fu quella di aver avocato a sé certi temi molto "sensibili", sui quali ancor oggi si continua a tornare in maniera ossessiva: celibato e contraccezione. Credo che questa non gliel'abbiano mai perdonata: aver esautorato il Concilio! Quando poi, in entrambi i casi, confermò l'insegnamento tradizionale (con la Sacerdotalis caelibatus e l'Humanae vitae) si arrivò allo scontro frontale, che dura tuttora.

E voi un Papa cosí lo chiamate amletico, indeciso? Ma per favore... Mi fanno poi ridere i tradizionalisti radicali che accusano Paolo VI di aver distrutto la Chiesa. Ma è possibile che non ci si renda conto che Papa Montini la Chiesa l'ha salvata? In confronto a quel che ha fatto Paolo VI, Giovanni Paolo II ("il Grande") — absit iniuria verbo — scompare: Papa Wojtyla si è trovata la pappa bell'e fatta; le grandi scelte erano state già compiute; si trattava solo di portare avanti un programma ormai avviato. Paolo VI, no: lui si è trovato a governare la Chiesa in un momento in cui tutto veniva messo in discussione; non c'era piú nulla di certo; non si sapeva piú che cosa fosse doveroso conservare e che cosa fosse possibile cambiare. Chi fece tale discernimento (che oggi ci pare ovvio, ma allora non lo era) fu Paolo VI. La Chiesa ha un immenso debito nei suoi confronti.

Ma, al di là dei meriti che nessuno, se non stolto, può contestare, vorrei aggiungere che non è affatto vero che Papa Montini fosse distaccato e perciò incompreso dalla gente. Egli aveva un'umanità straordinaria che poteva essere percepita da chiunque lo accostasse. Ho sentito io con i miei orecchi le suorine che gridavano con la loro esile voce: "Santo Padre, ti vogliamo bene!", mentre passava con la sedia gestatoria e la gente correva per accompagnarlo e acclamarlo. È vero, non c'erano i cori da stadio dei pontificati successivi, ma la gente gridava con spontaneità e semplicità: "Viva il Papa!".

Fu Paolo VI a iniziare la prassi delle udienze generali del mercoledí: non c'erano le folle di oggi, naturalmente; ma, forse anche per questo, erano dei momenti di un'intensità straordinaria. Ricordo che, quando ero studente di filosofia all'Angelicum, siccome non avevamo lezione al mercoledí, quando potevo, andavo all'udienza (a quell'epoca era molto facile accedere all'Aula Nervi), per poter ascoltare le bellissime catechesi di Paolo VI. Oltre ai contenuti, sempre chiari e profondi, era un piacere sentirlo: curava anche la forma, sceglieva le parole adatte, le pronunciava col cuore. Già, il cuore di Paolo VI... "se il mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe, assai lo loda e piú lo loderebbe". Ne sapeva qualcosa Mons. Lefebvre, che fu ricevuto e abbracciato paternamente da Papa Montini.

Questo non significa che accettassi tutto di Paolo VI. Molto spesso lo criticai, perché non capivo certi suoi atteggiamenti. Per esempio, non ho mai condiviso la sua Ostpolitik. In questi giorni sta facendo discutere molto l'accordo segreto con l'Unione Sovietica, perché non si parlasse in Concilio di comunismo. È stato giustamente fatto notare che si trattava di un accordo precedente, sottoscritto da Giovanni XIII; ma comunque Papa Montini portò avanti questa politica di compromesso con il comunismo, che personalmente non ho mai condiviso. Il momento di massimo disaccordo fu quando Paolo VI si "inginocchiò" davanti alle Brigate Rosse, un gesto lodato da tutti a quel tempo, ma che io non ho mai capito. Ma queste incomprensioni fanno parte della vita e non tolgono nulla alla stima e all'affetto che mi legavano e tuttora mi legano a lui. Me ne accorsi quando morí: provai gli stessi sentimenti che avevo sperimentato l'anno prima, alla morte di mio padre. E piansi. E credo di non essere stato il solo.

Paolo VI per me non è solo un grande Papa; non è solo un santo e un dottore della Chiesa. È un padre.

martedì 23 giugno 2009

Il frutto piú amaro del Concilio

Sul primo post di questo blog elencavo una serie di frutti non previsti e non desiderati del Concilio Vaticano II:

«La riforma liturgica ha rese deserte le chiese; il rinnovamento della catechesi ha diffuso l’ignoranza religiosa; la revisione della formazione sacerdotale ha svuotato i seminari; l’aggiornamento della vita religiosa sta mettendo a rischio l’esistenza di molti istituti; l’apertura della Chiesa al mondo, nonché favorire la conversione del mondo, ha significato la mondanizzazione della Chiesa stessa».

Successivamente, a proposito di tali frutti, ho parlato di "eterogenesi dei fini". Nei giorni scorsi, ripensando alle reazioni scomposte di alcuni
(non tanto semplici fedeli, quanto soprattutto Vescovi) a certi fatti (prima il motu proprio Summorum Pontificum, poi la remissione della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani, ora la decisione della Fraternità San Pio X di procedere a nuove ordinazioni sacerdotali), stavo riflettendo che c'è un altro frutto non previsto e non desiderato, forse il piú amaro di tutti: la divisione all'interno della Chiesa.

Fra gli obiettivi del Concilio c'era l'ecumenismo, inteso in senso ampio, sia come ristabilimento dell'unità dei cristiani, sia come perseguimento dell'unità della famiglia umana, attraverso il dialogo interreligioso e la collaborazione con gli uomini di buona volontà. Che cosa non si è fatto in questi anni per realizzare tali obiettivi? In certi casi si è messa a rischio la stessa identità di cristiani cattolici pur di trovare qualche punto in comune con i fratelli non-cattolici o non-cristiani o non-credenti. Saremmo ingiusti se dicessimo che non ci sono stati punti risultati; ma certo questi sono notevolmente al di sotto delle aspettative.

Ora, oltre a tali scarsi risultati, dobbiamo prendere atto che si sono create nuove divisioni, questa volta all'interno della Chiesa cattolica stessa. Che divisioni, nella Chiesa, ci siano sempre state (fin dalle origini), è un dato di fatto. Che sia necessario che ci siano divisioni, lo dice San Paolo (1 Cor 11:19 "perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi"). Che non ci si debba scandalizzare di tutto ciò, siamo d'accordo. E però si rimane un po' male nel constatare che il Concilio, annziché creare unità, ha provocato nuove divisioni.

È vero — ce lo ha ricordato lo stesso Pontefice in non ricordo piú quale occasione — è successa la stessa cosa dopo tutti i concili. Ma in quei casi posso capirlo, perché si trattava di concili dogmatici, che definivano dottrine, che a qualcuno potevano apparire nuove. Prendiamo come esempio il Vaticano I: capisco che ad alcuni la definizione dell'infallibilità pontificia poteva sembrare una novità rispetto alla tradizione della Chiesa. Per questo stesso motivo posso capire che ad alcuni certe "novità" del Vaticano II siano potute apparire come una rottura con la tradizione. Ma faccio fatica a capire l'atteggiamento di quanti quotidianamente si appellano al Concilio e al suo "spirito" e poi si mostrano tanto accaniti contro i loro fratelli tradizionalisti. Il Vaticano II non è stato un Concilio dogmatico; non ha definito nessuna nuova dottrina; il suo unico scopo era quello di trovare un nuovo "stile": ciò che era in ballo non erano i contenuti, ma il modo di proporre i contenuti di sempre. E invece che cosa è avvenuto? Si è assolutizzato ciò che era relativo, trasformandolo cosí in ideologia, senza rendersi conto di rinnegare cosí nei fatti ciò che si afferma a parole: si parla di dialogo, unità, carità; forse si praticano tali virtú coi "lontani", ma poi non si ammette alcuna tolleranza verso i fratelli della stessa Chiesa.

Nella sua lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009, Benedetto XVI spiegava che il motivo principale che lo aveva indotto a revocare la scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani era esattamente la fedeltà al Concilio:

«
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema ... Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est».

Non so se i tradizionalisti condividano tale prospettiva: essere oggetto di quell'ecumenismo da loro spesso criticato! Ma da un punto di vista "conciliare", ciò che ha fatto il Papa dovrebbe essere scontato: la carità, la riconciliazione, che devono essere praticate con tutti gli uomini, devono essere esercitate, innanzi tutto, all'interno della Chiesa. Potrebbe sembrare ovvio; ma, a quanto pare, non lo è. Il Santo Padre, nella sua lettera, è stato costretto a constatare con amarezza che

«A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi — in questo caso il Papa — perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».

Dopo tanti bei discorsi, ecco il risultato. Forse il Vaticano II dovrebbe costituire una lezione per la Chiesa: nessun Concilio aveva mai scritto tanti documenti, diciamo pure, tanti bei documenti, con i quali non si può non essere d'accordo. Ed ecco, che cosa sono stati capaci di produrre tali documenti? Divisione. Certo, tale risultato non è stato in alcun modo voluto: si voleva l'unità, ed è arrivata la divisione. Proprio perché non voluto, tale risultato non può essere addebitato al Concilio. Eppure, c'è qualcosa non torna. Forse, all'origine del Concilio c'è stato un pizzico di presunzione, di voler giudicare il passato e di essere in grado di riformare la Chiesa con le nostre mani. Forse è mancata al Vaticano II la modestia, l'umiltà di chi sa che la fedeltà al Vangelo non è frutto di umana pianificazione, ma puro dono della grazia.

Un Querciolino Sottosegretario del Sant'Uffizio

Apprendo con piacere che Mons. Damiano Marzotto Caotorta, finora Capo ufficio della Congregazione per la Dottrina della Fede, è stato nominato Sottosegretario del medesimo Dicastero, in sostituzione di Mons. Joseph Augustine di Noia, a sua volta nominato Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Mons. Marzotto, fiorentino, ma del clero della Diocesi di Milano, oltre a essere un ratzingeriano di ferro, è un querciolino d.o.c.: è stato infatti alunno del Collegio alla Querce di Firenze dal 1950 al 1960. Non so se egli sia fra i miei venticinque lettori; ma voglio ugualmente fargli giungere dalle pagine del blog di questo "Querciolino errante" le mie congratulazioni e i piú sentiti auguri di proficuo lavoro.

domenica 21 giugno 2009

XII domenica "per annum"

«Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva».

Il vangelo non è la semplice cronaca di fatti avvenuti duemila anni fa, senza alcuna connessione con la nostra esperienza di ogni giorno. Noi non leggiamo il vangelo unicamente per essere informati su ciò che accadde a Gesú durante la sua vita terrena. Il vangelo ci parla dell'«oggi», della nostra esperienza, della presenza di Gesú in mezzo a noi. Il problema è che noi non ci rendiamo conto di questa presenza. Il vangelo odierno descrive meravigliosamente ciò che noi quotidianamente sperimentiamo.

«Passiamo all'altra riva»: è esattamente la nostra condizione. La nostra vita è una specie di "traversata" verso "l'altra riva". La traversata non è facile: dobbiamo spesso affrontare la tempesta; la barca è sballottata dal vento; le onde rischiano di sommergerla.

Anche se ci consideriamo discepoli di Cristo, non ne sentiamo la presenza. Presi come siamo dai nostri sforzi di controllare l'imbarcazione, ci dimentichiamo che lui è lí con noi sulla barca. Non lo vediamo, perché è alle nostre spalle, coricato sul cuscino. Dorme. Noi rischiamo di affondare, e lui dorme! Ma che Maestro è questo, che si disinteressa al nostro destino?

Lo svegliamo; e lui, con una parola, placa la tempesta: «Taci, calmati!». E ci rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Sí, perché se avessimo fede, non avremmo alcun timore. Perché saremmo consapevoli della sua presenza, e questa ci basterebbe. Non ci importerebbe nulla se lo vediamo dormire; l'importante è sapere che c'è. Che cosa dovremmo temere, quando sappiamo che è con noi colui al quale anche il vento e il mare obbediscono?

Il discorso non vale esclusivamente per la nostra esperienza personale, ma anche per quella ecclesiale. Vediamo la Chiesa sconquassata dai venti; la vediamo fare acqua da tutte le parti; e ci chiediamo: "Quanto durerà ancora? Da un momento all'altro potrebbe affondare". E ci scandalizziamo per questo: "D0v'è il Signore che ci ha assicurato della sua presenza:
Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo? Se c'è, dorme! Maestro, non t'importa se siamo perduti? Non t'importa del destino della tua Chiesa, che rischia di essere sommersa dai flutti? Signore, per favore, svégliati!". E lui, con grande calma, ci rimprovera: "Dov'è la vostra fede? Non sapete che io sono sempre con voi e che, con me, non avete nulla da temere? Non sapete che il vento e il mare mi obbediscono? Di che cosa avete paura? Solo, continuate a credere".

Come ci rammentava l'altro giorno l'Angelica Paola Antonia Negri: «Non dobbiamo scandalizzarci mai, se ben vedessimo la navicella di Cristo andare fluttuando, ma sempre perseverare nella fede» (lettera scritta ai Paolini di Venezia nell'Ottava dell'Epifania del 1549).

venerdì 19 giugno 2009

Anno sacerdotale

Oggi, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesú e tradizionale Giornata per la santificazione del Clero, ha inizio l'Anno sacerdotale, indetto da Benedetto XVI in occasione del 15o° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars, Giovanni Maria Vianney. Ieri il Santo Padre ha inviato a noi presbiteri una bellissima lettera, che faremo bene a leggere e meditare non soltanto in questi giorni, ma durante tutto il corso di questo Anno giubilare.

Da parte mia, senza volermi in alcun modo sovrapporre al Papa, ma solo nel desiderio di aggiungere qualche spunto di riflessione all'abbondante materiale da lui offertoci, mi piacerebbe riportare un testo sulla dignità del sacerdozio, scritto alcuni secoli fa, ma ancora estremamente attuale. Mi ha fatto piacere riscontrare sorprendenti affinità fra questo testo e alcune frasi di Papa Ratzinger e del Santo Curato d'Ars.

Si tratta di una lettera scritta dall'Angelica Paola Antonia Negri (1508-1555) al sacerdote veneziano Gaspare de Franceschi. Il titolo della lettera è, appunto, "Della dignità sacerdotale". Chi era Paola Antonia Negri?

Dovete sapere che il mio Fondatore, Sant'Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), non fondò solo i Barnabiti (i "Chierici Regolari di San Paolo"), ma, accanto a loro, un ramo femminile (le "Angeliche di San Paolo") e uno laicale (i "Coniugati di San Paolo"). I tre "collegi", come venivano chiamati, costituivano un'unica famiglia spirituale (la "Congregazione di San Paolo"): Barnabiti, Angeliche e Coniugati pregavano e operavano insieme (finché le rigide norme tridentine non li obbligarono a separarsi). Siccome lo Zaccaria morí assai giovane, leader della nuova comunità divenne la carismatica maestra delle novizie, Paola Antonia Negri (chiamata "divina madre"), la quale presiedeva pure ai capitoli e prendeva le decisioni piú importanti (potete immaginare le reazioni...). Questa donna aveva una profondissima spiritualità e doveva esercitare un fascino straordinario, se è vero che, durante una missione in Veneto, tutti i rampolli della nobiltà veneziana volevano farsi Barnabiti (e infatti ben presto i "paolini" furono accusati di spionaggio, espulsi dai territori veneziani, e la Negri fu sottoposta a processo e allontanata dal suo monastero...).

I tempi in cui vissero Sant'Antonio Maria Zaccaria e l'Angelica Paola Antonia Negri erano tempi non facili, per molti versi simili ai nostri giorni. Anche allora si sentiva bisogno di una riforma della Chiesa: qualcuno pensò di attuarla consumando uno scisma e mettendo in discussione la tradizionale fede cattolica, altri — i santi — invece capirono che l'unico modo per rinnovare la Chiesa era quello di partire dal rinnovamento interiore di sé stessi. C'è una frase della Negri, a proposito delle condizioni della Chiesa del suo tempo, che mi ha colpito particolarmente: «Non dobbiamo scandalizzarci mai, se ben vedessimo la navicella di Cristo andare fluttuando, ma sempre perseverare nella fede» (lettera scritta ai Paolini di Venezia nell'Ottava dell'Epifania del 1549).

Ritroviamo la stessa ansia per la riforma della Chiesa nella lettera a Don Gaspare de Franceschi, scritta il 3 ottobre 1544:

«Io so, e non mi inganno, che questo ministero è tanto efficace, al punto che un vero sacerdote potrebbe costrin­gere il Signore, che pure non può essere costretto, a capo­volgere l'ordine della sua giustizia in somma misericor­dia; a ottenere qualunque grazia, come il ripristino dei corrotti costumi cristiani, la riforma degli uomini e della santa Chiesa. E questo perché è tanto grande l'amore che porta ai suoi consacrati, avendoli dotati di privilegi molto grandi, al punto che tutto possono con Dio: possono for­zarlo in favore del suo popolo e riconciliarlo con lui. E se anche uno solo, che fosse secondo il suo cuore, potrebbe tanto, quanto potrebbero in molti?

Ma com'è insozzata la faccia della sua bella Sposa: il vino è fatto aceto, le uve sono mutate in lambrusche, il sale è scipito, l'abominazione è entrata nel luogo santo, la castità che dovrebbe essere nei ministri del sangue [di Cristo] è convertita in sporcizia, l'umiltà in ambizione, la liberalità in avarizia, la carità in invidia, la parsimonia in crapula, la pazienza e mansuetudine in ira e sdegno, la sollecitudine in inerzia; e in breve la virtú in vizio, la dol­cezza in amarezza, la devozione in freddezza e tiepidez­za. La mente, che dovrebbe essere abitacolo del Dio vivente, diventa ospizio di ogni cattivo e vano pensiero. Il cuore, che dovrebbe essere conservato con ogni custodia e diligenza, diventa preda di ogni nemico, albergo di ogni iniquità: tutto il mondo è posto in uno stato malvagio.

Perciò avete ragione, anima benedetta, nell'avere compassione di questa povera Sposa di Cristo e quindi disporvi e decidere di cominciare in voi stesso a riformar­la, allontanandovi da ogni opera morta e collocandovi nel seno e nel grembo della pietà del celeste e benigno Padre vostro, che, siatene certo, non vi farà mancare il suo aiuto perché possiate portare a compimento il vostro giusto e santo desiderio. E tutto questo fatelo con cuore allegro, allontanando da voi ogni cosa che abbia somiglianza del­l'uomo terreno. Ricordandovi del grado eccelso della vostra dignità, diventate e mantenetevi irreprensibile, cosí da essere degno del frutto del sangue [di Cristo] che assu­mete e servite ad altri.

Io non mi sottrarrò mai da quello che il Signore mi con­cederà di poter fare per aiutarvi a tradurre in pratica il desiderio che avete di essere fedele dispensatore e degno ministro [di Cristo]. Il che si degni di concedervi per sua pietà e misericordia; e con lui vi lascio, chiedendovi di pregare per me e di ricordarmi ne[lla celebrazione de]i vostri sacrifici
».

Forse è davvero provvidenziale questo Anno sacerdotale in un momento di gravissima crisi per la Chiesa. Forse la Chiesa è in crisi perché in crisi sono i suoi sacerdoti. La Chiesa ha bisogno di essere riformata; ma perché ciò accada, secondo la "divina madre", dobbiamo innanzi tutto "aver compassione di questa povera Sposa di Cristo", e poi dobbiamo disporci e decidere di cominciare a riformarla in noi stessi.

Cinquant'anni fa è stato convocato un Concilio, che si proponeva il rinnovamento della Chiesa. Quel Concilio ha scritto cose bellissime (anche riguardo ai sacerdoti), che però sono rimaste sulla carta; nella vita di ogni giorno, pur invocando sempre il Concilio e il suo "spirito", si è preferito far riferimento a ideologie che nulla avevano a che vedere con quel Concilio e con il suo vero spirito. Sarebbe ora, dopo cinquanta anni, di por mano alla vera riforma della Chiesa, cominciando da noi stessi, consapevoli che la Chiesa cambierà volto solo quando i suoi sacerdoti muteranno la loro mente e il loro cuore.

Secondo la Negri, il primo passo, perché ciò possa avvenire, consiste nella consapevolezza della dignità sacerdotale ("Ricordatevi del grado eccelso della vostra dignità"). In questi anni abbiamo fatto a gara a sminuire l'importanza del nostro ministero; oggi siamo invitati a riscoprire il privilegio di cui, senza alcun merito, siamo stati resi partecipi. Non rimane che corrispondere a tale grazia cosí da essere degni di quel sangue che beviamo e dispensiamo.

martedì 16 giugno 2009

Ecclesia semper reformanda

Due pubblicazioni mi hanno scosso non poco in questi giorni: innanzi tutto il Rapporto della Child Abuse Commission, costituita in Irlanda per indagare sugli abusi su minori compiuti negli istituti gestiti da religiosi (ne ha riferito ZENIT il 21 maggio scorso); quindi il libro di Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A. (a cui ha fatto riferimento ieri Sandro Magister sul sito www.chiesa). Non si tratta di novità: sono cose che già sapevamo; ma ciò che colpisce dalla pubblicazione di tali rapporti è l'endemicità di certi fenomeni.

Non sono nato ieri, per cui non mi scandalizzo piú di tanto della fragilità umana; conoscendo me stesso, e sapendo che ogni giorno ho bisogno della misericordia di Dio, non mi straccio le vesti per le debolezze degli uomini di Chiesa. Non sono neppure un manicheo, che divide l'umanità fra buoni e cattivi, come se ci fossero uomini intrinsecamente perversi che vanno esemplarmente puniti e noi, i giusti, che abbiamo il diritto di giudicarli. Per questo non mi sono mai piaciute le campagne mediatiche contro i preti pedofili; è ovvio che essi vadano messi nella condizione di non nuocere, ma senza mai dimenticare che si tratta, anche nel loro caso, di esseri umani che hanno sbagliato e vanno, per quanto è possibile, recuperati.

Ma in questo caso si rimane male perché non si tratta tanto di "debolezze", di "cadute" isolate (situazioni nella quali tutti, prima o poi, possiamo trovarci); si tratta di "sistemi": sembra quasi che fosse normale avere certi comportamenti riprovevoli. Personalmente, ho sempre distinto fra moralità e correttezza. Sul piano morale, tutti possiamo sbagliare: è una questione personale che va affrontata e risolta fra noi e Dio (semmai con la mediazione del confessore). Ma, nello svolgimento delle nostre funzioni, dobbiamo cercare di essere sempre estremamente corretti: se sono un educatore, a prescindere dalle mie personali tendenze, non posso abusare delle persone che sono state affidate alle mie cure ("Maxima debetur puero reverentia"!); se sono un amministratore, devo amministare il denaro che mi è stato affidato con estremo rigore. Non si può pretendere da tutti la santità; ma si ha il diritto di aspettarsi da tutti la correttezza.

Ma la conoscenza di certe situazioni mi porta a fare anche un'altra riflessione. Direte che sono un fissato; vado sempre a finire allo stesso punto, ma non so come evitarlo. Lo svelamento di tali a dir poco incresciosi comportamenti smentisce la tesi, cara alla Scuola bolognese, del Concilio Vaticano II come "rottura", come "nuovo inizio" nella storia della Chiesa. Questi fatti dimostrano, purtroppo, che nella Chiesa c'è una avvilente continuità: gli abusi sessuali e gli scandali finanziari c'erano prima del Concilio (e ciò dimostra che la Chiesa aveva effettivo bisogno di riforma), e continuano a esserci dopo il Concilio (e ciò dimostra che il Concilio ha fallito nei suoi piani di riforma). Qui abbiamo tutti torto: hanno torto i tradizionalisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa, prima del Vaticano II, tutto andasse bene; hanno torto i progressisti, che vorrebbero farci credere che nella Chiesa post-conciliare certe cose non possano piú avvenire. È stata una grande illusione pensare che potesse bastare convocare un concilio per rinnovare la Chiesa. Ci sono state, è vero, tante riforme esteriori, ma il nostro cuore, segnato dal peccato, è rimasto lo stesso.

Che fare? I tradizionalisti ci diranno: "Aboliamo il Concilio! Torniamo alla tradizione!", come se questa, da sé sola, fosse la panacea per tutti i mali della Chiesa, come se tra gli amanti della tradizione non esistesse il peccato originale. I progressiti ci diranno: "Queste cose ancora succedono perché il Concilio non è stato ancora pienamente applicato; specialmente a Roma, esso ha incontrato e continua a incontrare forti resistenze. Se si seguisse veramente lo spirito del Concilio, queste cose non accadrebbero". Illusi gli uni e gli altri. Non si rendono conto che la situazione potrà cambiare solo quando la smetteremo di preoccuparci dell'esteriorità, delle riforme strutturali, e incominceremo a preoccuparci del rinnovamento interiore. Nel Cinquecento ciò che rinnovò la Chiesa non fu tanto il Concilio di Trento (pur necessario), ma la fioritura di santità che ci fu prima e dopo quel Concilio.

Pertanto, ben venga un "Anno sacerdotale" a ricordare a noi sacerdoti quali sono i nostri doveri, primo fra tutti la santità. Negli anni dopo il Concilio si è fatto di tutto per distruggere l'immagine del prete; si guardava con sufficienza a tutti i tradizionali strumenti per la sua santificazione (preghiera e studio severo, mortificazione e sacrificio, prudenza e distacco dal mondo, ecc.); si è voluto fare del prete, a seconda dei casi, uno psicologo, un sociologo, un agitatore sociale, un sindacalista, un politico; ed ecco che cosa ci ritroviamo: non possiamo fare altro che raccogliere i cocci di quello che era una volta il prete. Ora ci viene riproposto l'esempio del Santo Curato d'Ars, che spese la sua vita in ginocchio davanti al Santissimo e seduto in confessionale. Saremo capaci di accogliere questo messaggio? Una cosa è certa: se vogliamo che la Chiesa si rinnovi, dobbiamo ripartire di lí.