mercoledì 12 agosto 2009

A proposito di "fantasia pastorale"

Nel mio ultimo post facevo riferimento alla “fantasia pastorale”, che sembra aver conquistato la Chiesa postconciliare. Lo spunto veniva dalla cosiddetta “chiesa gonfiabile”, che verrebbe utilizzata in alcuni luoghi di vacanza. Dicevo: iniziative discutibili, ma che sono pur sempre un tentativo per accostare la gente e darle l’occasione di avvicinarsi a Dio. In fondo, se ci pensiamo bene, la “fantasia pastorale” non è un’invenzione della Chiesa odierna, ma è sempre esistita: in ogni tempo la Chiesa ha inventato qualcosa per avvicinare la gente. Che cosa non hanno fatto i santi, magari derisi dai loro contemporanei, per rendere Dio presente nella società del loro tempo?

Ieri L’Osservatore Romano riferiva di un altro esempio di “fantasia pastorale”, questa volta dagli Stati Uniti: aprire una cappella nei centri commerciali della diocesi di Colorado Springs (si legga l’articolo su Papa Ratzinger blog [2]). Per me non si tratta di una novità, perché è una realtà che ho potuto personalmente sperimentare nelle Filippine, dove nella maggior parte dei mall la domenica viene celebrata la Messa (magari nell’atrio centrale, dove di solito si svolgono le pubbliche manifestazioni) e, nei centri commerciali piú importanti, esiste una cappella. Quando mi imbattei in questa realtà per la prima volta, confesso, rimasi interdetto: per chi, come me, viene dall’Italia, dove cose del genere sono semplicemente impensabili, può sembrare un’iniziativa di cattivo gusto e una mancanza di rispetto per la liturgia. Non posso dare un giudizio sulla Messa, non avendo mai partecipato ad alcuna celebrazione; posso però esprimere il mio parere sulla presenza di una cappella, avendola piú volte frequentata. Tutte le volte che andavo al Mega Mall di Manila, non mancavo mai di fare una visita alla cappella, dove durante la giornata era esposto il Santissimo Sacramento. Ebbene, l’impressione che ne ho tratto è piú che positiva: primo, perché permetteva a me di trovare un momento di raccoglimento e di preghiera in mezzo al frastuono; secondo, perché sono rimasto edificato dalla continua affluenza di fedeli e dalla loro sincera devozione. È lí che ho capito quanto siano profondamente religiosi i filippini.

L’articolo dell’Osservatore evidenzia un altro obiettivo di tale iniziativa: dare ai fedeli la possibilità di confessarsi. Personalmente ci andrei un po’ piano a sparare certi titoli: “Negli Stati Uniti i fedeli scoprono di nuovo la confessione”, quando lo stesso articolo di rammenta i dati sconfortanti di un recente studio, secondo il quale “i tre quarti dei cattolici non partecipano mai al sacramento della riconciliazione o, se lo fanno, si confessano una sola volta all’anno o anche meno”. Non credo che l’iniziativa di Colorado Springs, per quanto benemerita, possa rappresentare un’inversione di tendenza. Ben vengano tutte le iniziative che possono contribuire a riavvicinare i fedeli al sacramento della Penitenza; ma non facciamoci eccessive illusioni: la disaffezione dei fedeli dalla confessione è un fenomeno assai diffuso e radicato e non potrà essere risolto solo aprendo qualche cappella nei centri commerciali. Non sono bastati Sinodi dei Vescovi, esortazioni apostoliche e impegno personale dei Papi; figuriamoci se sarà sufficiente aprire una cappella in un mall.

Anche perché esiste un problema a monte, giustamente evidenziato da alcuni commenti all’articolo dell’Osservatore, apparsi sul blog di Raffaella: il problema dell’abbandono della pratica della confessione da parte dei fedeli è un dato di fatto, che non può essere negato; ma va anche riconosciuto che spesso i fedeli non si confessano semplicemente perché... non trovano un prete a cui confessarsi. È vero — lo dico per esperienza personale — che spesso si entra in una chiesa con l’intenzione di confessarsi, ma purtroppo si rimane delusi, perché non si trova nessuno. Qualcuno dirà: basta chiedere! Può darsi; ma bisogna riconoscere che è diverso entrare in chiesa e trovare il confessionale con la luce accesa, e dover andare in sagrestia (se la si trova aperta) e dover chiedere se c’è qualche sacerdote disponibile.

Capisco che, specialmente nelle parrocchie, non si può pretendere che il parroco stia tutto il giorno in chiesa in attesa di penitenti: come potrebbe attendere agli altri suoi doveri pastorali? Quando poi lo stesso parroco è responsabile di piú parrocchie, come potrebbe essere contemporaneamente presente in ciascuna di esse? E poi — diciamoci la verità — non credo che ai parrocchiani faccia proprio piacere andare a confessarsi dal parroco... Ma forse il problema potrebbe essere risolto in altra forma, specialmente nelle città. In ogni città c’è la cattedrale o almeno il duomo. In tali chiese solitamente c’è un capitolo di canonici, i quali dovrebbero anche attendere, in qualità di penitenzieri, alle confessioni (il penitenziere maggiore di solito gode di facoltà che gli altri confessori non hanno). Un altro luogo privilegiato per le confessioni sono i santuari, non solo i grandi santuari internazionali (a Lourdes, però, sembra che gli unici che continuano a confessarsi siano gli italiani...), ma anche quelli locali, distribuiti un po’ ovunque. E poi ci sono le chiese dei religiosi, che negli anni dopo il Concilio, purtroppo, sono state un po’ trascurate (non solo per colpa di Vescovi e parroci, ma spesso degli stessi religiosi), con la tendenza a far convergere ogni attività pastorale nelle parrocchie. E invece quelle chiese svolgevano (e spesso continuano meritoriamente a svolgere) un ruolo prezioso, non solo perché in esse si ha la possibilità di partecipare alla Messa in vari momenti della giornata, ma anche perché si trova sempre almeno un religioso disponibile per le confessioni. Tutti i grandi ordini religiosi (Francescani, Domenicani, Gesuiti, ecc.) hanno sempre avuto in ogni città una loro significativa presenza. A Roma, per esempio, se volete confessarvi, a parte le quattro basiliche patriarcali, dove andate? Al Gesú, naturalmente. Anche i Barnabiti, nel loro piccolo, hanno svolto e, grazie a Dio, continuano a svolgere questo servizio nelle città dove sono presenti con una chiesa non-parrocchiale: Milano, Monza, Lodi, Cremona, Moncalieri, Genova, Perugia, Napoli... Si può entrare in quelle chiese in qualsiasi ora del giorno e trovare almeno un sacerdote a disposizione per ascoltare la confessione.

Naturalmente, il piú delle volte non si troverà un giovane religioso. I giovani (quei pochi che ci sono) in genere sono impegnati in altre attività: nello studio, nella scuola, nella pastorale giovanile, ecc. Ma mi sembra molto bello che un religioso giunto alla pensione, magari dopo una vita di insegnamento, anziché ritirarsi a vita privata, se ne vada in confessionale ad ascoltare le confessioni dei fedeli. Un modo molto valido di “riciclarsi” e di continuare a rendersi utili nella Chiesa. Un servizio, oltretutto, molto apprezzato, perché insieme con l’età, in genere, c’è anche saggezza ed esperienza.

Il problema di fondo è quello della disponibilità. Forse durante questo Anno sacerdotale i nostri Pastori farebbero bene a rammentare a noi sacerdoti tale importante virtú: essere sempre disponibili, a ogni ora del giorno e a ogni età della vita. Il sacerdote non è tale per sé stesso, ma per gli altri. E se è giusto, soprattutto quando si è giovani, andare cercare la gente per portarla al Signore, è altrettanto giusto, specialmente a una certa età, starsene tranquilli in attesa, pronti ad accogliere chiunque, di propria iniziativa, si è messo alla ricerca del Signore.

lunedì 10 agosto 2009

Considerazioni sul caso Mandas

Sono stato sollecitato a intervenire sulla vicenda dell’Arcivescovo di Cagliari che ha proibito un convegno sul m. p. Summorum Pontificum, che avrebbe dovuto tenersi in questi giorni a Mandas, un paese di quella diocesi. Coloro che mi seguono da tempo sanno che non mi piace intromettermi in certe polemiche, per diversi motivi.

Primo, perché per esprimere un giudizio bisogna essere bene informati e sentire il parere di tutte le parti in causa. Spesso le informazioni che si hanno attraverso i mezzi di comunicazione (compreso internet) sono parziali, per cui ci si appiglia a qualche elemento isolato, senza sapere come effettivamente stanno le cose. Un esempio? Proprio come reazione a quanto avvenuto in Sardegna, è stata sollevata una polemica sulla “chiesa gonfiabile”, come se qualcuno volesse celebrare la Messa in spiaggia… Quando però si va a leggere con attenzione i resoconti, ci si accorge che non si tratta affatto di una chiesa e che non vi si celebra nessuna Messa; ma si tratterebbe semplicemente di un luogo di riflessione. Se cosí è, non ci trovo nulla di male; anzi, mi pare un’iniziativa simpatica, che lascerà il tempo che trova, ma è pur sempre un tentativo per rammentare alla gente che esiste qualcos’altro oltre il divertimento; uno dei frutti di quella “fantasia pastorale”, certo discutibile, ma che in ogni caso — bisogna riconoscerlo — contribuisce in qualche modo a mantenere viva la fede fra la gente.

Il secondo motivo è perché, in genere, in questi casi qualunque cosa si dice, si sbaglia. Per forza di cose, dovendo prendere posizione, si deve scontentare qualcuno; e, se si vuole rimanere neutrali, inevitabilmente ci si attira le ire di entrambe le parti. Se poi ci si rifiuta di intervenire, si viene accusati di non aver il coraggio di esprimere le proprie idee. Per cui non sai come muoverti.

Infine perché, in linea di principio, sono portato a dare credito a una autorità (in particolare a un Vescovo), quando prende una qualsiasi decisione. Io, che sono stato superiore, so che, quando si decide qualcosa, c’è sempre un motivo. Qualche volta lo si può rivelare, qualche altra no. Per questo, in genere, bisogna fidarsi dell’autorità — di qualsiasi autorità — e non si può sempre chiedere conto di ogni decisione.

Il caso presente, però, è un tantino diverso, perché l’Arcivescovo di Cagliari, dopo aver preso la decisione, l’ha anche giustificata sulla stampa. E qui, sinceramente, mi sembra che la sua giustificazione sia piuttosto debole. Mons. Mani ha detto di aver proibito il convegno perché alcuni parrocchiani (qualcuno precisa il numero: sette) sarebbero andati da lui, esprimendo la preoccupazione che Mandas diventi “il centro di un’iniziativa legata alla messa tradizionale”.

Io non sono nessuno; ma, visto che è stato richiesto il mio personale parere, dirò che, secondo me, nella Chiesa c’è — ci deve essere! — spazio per tutti. Se ci sono dei fedeli che vogliono incontrarsi per discutere sul motu proprio di Benedetto XVI, hanno tutto il diritto di farlo e nessuno (neppure il Vescovo) può impedirglielo. Mi pare che il Diritto Canonico sia abbastanza chiaro al riguardo:

«I fedeli hanno il diritto di fondare e di dirigere liberamente associazioni che si propongano un fine di carità o di pietà, oppure l’incremento della vocazione cristiana nel mondo; hanno anche il diritto di tenere riunioni per il raggiungimento comune di tali finalità» (can. 215).

Nel caso presente, secondo il mio modesto parere, Mons. Mani avrebbe dovuto garbatamente spiegare ai fedeli, che si erano lamentati con lui (poco importa quanti fossero), che non era in suo potere impedire una iniziativa che era nel pieno diritto di altri fedeli prendere.

Oltretutto, per quanto ne so, mi pare che in questo caso non ci fosse una competenza immediata del Vescovo, dal momento che il convegno non si sarebbe tenuto nei locali parrocchiali, ma in locali messi a disposizione dal Comune. Come può il Vescovo impedire un incontro che si svolge in locali su cui egli non esercita alcuna giurisdizione?

Detto questo, mi pare che si debba concedere a Mons. Mani qualche attenuante. Innanzi tutto, va riconosciuto che l’intenzione che lo ha mosso nel prendere quella decisione (secondo me, ripeto, sbagliata) era in sé stessa buona: «Io avevo avvertito a voce il parroco che questa iniziativa avrebbe provocato molti malumori, alla fine sono stato costretto a fermarla». L’intenzione che mi pare di percepire in queste parole era quella di salvaguardare l’unità, una preoccupazione piú che comprensibile in un Vescovo. Che poi il suo intervento abbia ottenuto l’effetto contrario, è un’altra questione; ma almeno la buona fede gli va riconosciuta. Dico questo, perché mi sembra che, in qualche caso, ci siano state delle reazioni un po’ scomposte: è piú che legittimo esprimere il proprio dissenso, l’importante è farlo in maniera civile e con carità cristiana. Dovremmo cercare di evitare in ogni modo di trasferire nella Chiesa un spirito di conflittualità, che è proprio del mondo, ma non si addice in alcun modo alla Sposa di Cristo.

In secondo luogo, mi pare di percepire nelle parole di Mons. Mani un pizzico di amarezza e di delusione. Dopo tutto, lui non ha proibito la celebrazione della Messa nella forma straordinaria nella sua diocesi; a Cagliari c’è una chiesa dove essa viene settimanalmente celebrata; ma sentite che cosa dice nella sua intervista a La Nuova Sardegna: «Se qualcuno pensa che io sia contrario, vada la domenica mattina alle dieci alla basilica di Santa Croce, dove si celebra il rito nella lingua antica. Liberissimi di farlo, solo che domenica scorsa i fedeli erano quindici...». Qualcuno dirà: questo non c’entra nulla. D’accordo. Qualcuno aggiungerà: pura polemica. È vero. In ogni caso, Mons. Mani pone un problema reale, che un Vescovo e tutti noi con lui non possiamo ignorare. Voglio dire che il problema pastorale della scarsa frequenza dei fedeli alla Messa esiste comunque, sia con la Messa di Paolo VI sia con quella tradizionale. Si dirà: suvvia, siamo ad agosto. Certo, ma questo dimostra che i fedeli “tradizionali” non sono marziani, sono come tutti gli altri, sono gente comune, che d’estate va in vacanza. Non c’è niente di male in questo (speriamo solo che vadano a Messa, qualunque essa sia...). Ciò però dovrebbe farci riflettere seriamente, senza pregiudizi e senza ideologie. Certi problemi pastorali vanno al di là del Novus Ordo o della Messa in latino: anziché alimentare sterili polemiche, faremmo bene ad affrontare tutti insieme, come Chiesa, tali problemi.

Gli amici legati alla tradizione non se la prendano, ma qualche volta si ha l’impressione che vogliano passare per i primi della classe: loro hanno le vocazioni; le loro chiese si riempiono; mentre nel resto della Chiesa è tutto uno sfascio. Come si può vedere da quanto osserva l’Arcivescovo di Cagliari, questo non è vero. Siamo tutti sulla stessa barca, con gli stessi problemi. Sarebbe forse il caso di riconoscerci tutti membri dell’unica Chiesa, uniti ai nostri Pastori (Papa e Vescovi), ciascuno con le nostre caratteristiche, pronti a collaborare insieme per la causa del Vangelo.

domenica 9 agosto 2009

XIX domenica "per annum"

«I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Oggigiorno gli esegeti sono per lo piú d’accordo nel non considerare tutto “eucaristico” il discorso di Gesú nella sinagoga di Cafarnao. Solitamente lo dividono in due parti: la prima (6:22-51a) avrebbe un carattere piú “sapienziale” (il pane sarebbe solo simbolo dell’insegnamento di Gesú, da accogliere nella fede); la seconda parte (6:51b-59) sarebbe quella piú propriamente “eucaristica” (in essa si parla non solo di “pane”, ma anche di “carne” e “sangue”). Il v. 51 fungerebbe da cerniera tra le due parti.

Personalmente, non ritengo che il discorso abbia una cesura cosí netta; ho l’impressione che l’argomentare di Gesú, come in altri passi del vangelo di Giovanni, sia progressivo: Gesú parte dai pani che le folle hanno mangiato per accompagnarle attraverso un percorso spirituale che le porti a poco a poco alla fede in lui e le disponga ad accoglierlo nell’Eucaristia. Tale gradualità viene molto bene evidenziata dalla liturgia, che distribuisce la lettura del discorso in domeniche successive.

La tappa della domenica odierna è quella centrale. A prima vista, potrebbe sembrare che siamo ancora nella parte “sapienziale” del discorso: «Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e imparato da lui, viene a me». In realtà questa sezione del discorso ha un carattere accentuatamente “cristologico”: Gesú sta parlando di sé stesso, del suo “mistero”, del mistero dell’incarnazione. E i Giudei lo capiscono immediatamente: conoscono suo padre e sua madre, conoscono le sue origini. «Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

Il vero pane disceso dal cielo non è la manna: gli Israeliti la mangiarono, si sfamarono, e poi morirono. Il vero pane disceso dal cielo, invece, è quello che dà la vita eterna (= che fa vivere per sempre). E questo pane è Gesú stesso. Mangiare questo pane significa credere in lui, credere cioè che egli è disceso dal cielo, che egli ha un’origine divina, che egli è il Figlio di Dio.

Tale interpretazione è confermata dai vv. 45 e 46: «Chiunque ha ascoltato il Padre e imparato da lui, viene a me». Per credere in Gesú occorre essere attirati dal Padre (v. 44) e ascoltarlo; il credente è colui che ascolta il Padre. «Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre». Gesú, e solo Gesú, è colui che ha visto il Padre, perché viene da lui.

Non è un caso che, al v. 51, si parli di “carne”. Non mi pare che si tratti ancora di un riferimento diretto all’Eucaristia (non si parla ancora di “sangue”, come avverrà nei vv. successivi); mi sembra piuttosto un riferimento al mistero dell’incarnazione: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1:14). Semmai ci si potrebbe vedere anche un riferimento al mistero delle redenzione. Alcuni manoscritti hanno un’aggiunta significativa: «E il pane che io darò è la mia carne che io darò per la vita del mondo». Il Figlio di Dio si è fatto uomo per dare la vita per la salvezza del mondo. La morte sacrificale è già inclusa nel mistero dell’incarnazione: il Verbo assume la carne per offrirla in sacrificio. Per la vita del mondo. Per noi.

venerdì 7 agosto 2009

L’enciclica che non piace ai teocon

Nei giorni scorsi Liberal ha pubblicato un commento di Michael Novak alla Caritas in veritate: “Tanta Caritas, meno Veritas”. Se devo essere sincero, non l’ho trovato cosí chiaro come mi sarei aspettato da un filosofo. Dice e non dice; un colpo al cerchio e uno alla botte: l’atteggiamento tipico di chi vorrebbe essere piú esplicito, ma… o non può, o non vuole esserlo. Su qualche osservazione si può anche essere d’accordo: p. es., “Il lavoro di redazione risulta alquanto scadente” (anche il sottoscritto, nel suo post del 9 luglio 2009, aveva rilevato una mancanza di organicità). Ma qualche giudizio appare decisamente eccessivo: p. es., “enciclica insolitamente blaterante e opaca”; “gergo burocratico”; “vi sono molte altre omissioni di fatti, insinuazioni discutibili ed errori involontari lungo tutta l’enciclica”.

Molto piú chiaro appare invece il commento di George Weigel, che era stato pubblicato il 9 luglio dal blog Fides et Forma col titolo “Caritas in veritate in oro e in rosso”. Piú che di un commento si trattava di una presentazione quanto mai interessante, perché rivelava tutti i retroscena della stesura dell’enciclica. Il titolo del post riprendeva l’idea di fondo dell’articolo di Weigel: sottolineare in oro i passi di sicura composizione ratzingeriana, e in rosso quelli dovuti alla penna della Commissione “Justitia et Pax”. Se ricordate, io stesso nel mio post avevo fatto notare l’intervento di piú mani nella composizione dell’enciclica: Weigel, che è un esperto di dottrina sociale della Chiesa, ci svela il criterio per distinguere i testi da attribuire all’una o all’altra fonte. Un articolo, ripeto, interessantissimo e in buona parte condivisibile. Come si può, per esempio, non convenire con Weigel nella critica ai passi su “gratuità” e “dono” (che si inserirebbero certamente bene in un contesto spirituale, meno in uno socio-economico) o a quelli sull’autorità politica mondiale (che potevano essere giustificati al tempo di Giovanni XXIII; oggi un po’ meno)? Anche qui però si incontrano espressioni un po’ forti: d’accordo che la Caritas in veritate sia un po’ ibrida; ma chiamarla un “ornitorinco” mi sembra sinceramente un po’ eccessivo. Che dire poi della Populorum progressio considerata il “brutto anatroccolo” delle encicliche sociali?

L’articolo di Weigel ci fa capire quale è il problema. Weigel e Novak sono due fra i maggiori esponenti del movimento cosiddetto “teocon” (si veda un veloce resoconto su tale movimento in questo post di www.chiesa). I teocon hanno avuto il loro momento di gloria durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Avete notato l’insistente riferimento all’enciclica Centesimus annus? Non escluderei che l’abbiano scritta loro: con quell’enciclica il capitalismo veniva non solo sdoganato, ma in qualche modo “santificato”. Potete immaginare perciò il loro giudizio sulla Populorum progressio e sulla Caritas in veritate, che commemora l’enciclica montiniana. Probabilmente non s’aspettavano un colpo del genere da Benedetto XVI (che passa per essere un Papa conservatore); ecco quindi il tentativo di attribuire l’enciclica a una specie di complotto della Commissione “Justitia et Pax” (“La vendetta di Giustizia e Pace”).

Da parte mia, dirò che mi sembra pienamente legittimo criticare un’enciclica sociale: non si tratta di una definizione dogmatica. In campo socio-economico-politico è possibile una pluralità di opinioni. Ma è altrettanto legittimo criticare la posizione dei teocon. Probabilmente non si sono ancora resi conto della gravità della crisi. Forse ancora pensano che il capitalismo sia il migliore dei sistemi possibili, e non si accorgono che la crisi in cui si agita il mondo attuale (a cominciare dall’America) è proprio un frutto del capitalismo. Che loro, teorici di quel sistema, non si rendano conto dei suoi limiti, può essere anche comprensibile; ma non possono pretendere che la Chiesa chiuda gli occhi di fronte alla realtà. L’enciclica è uscita con due anni di ritardo non solo per il “braccio di ferro” (che ci sarà pur stato) fra il Papa e “Giustizia e Pace”, ma soprattutto perché non si sapeva come affrontare la crisi in corso. E la crisi non è ancora terminata; non sappiamo minimamente come andrà a finire. Per questo mi sembra piú che comprensibile un atteggiamento prudente da parte della Chiesa. Non ci si può illudere che tutto vada bene semplicemente rilevando che negli ultimi anni, in Bangladesh, l’aspettativa di vita è aumentata e il tasso di mortalità infantile è diminuito (ci mancherebbe…). Forse sarebbe auspicabile, da parte dei teocon americani, un pizzico in piú di obiettività.

giovedì 6 agosto 2009

Paolo VI: tutela della fede e difesa della vita umana

Ricorre oggi il 31° anniversario della santa morte di Paolo VI. Mi sono già occupato di lui recentemente (24 giugno 2009: Elogio di Paolo VI), per cui non ho molto da aggiungere, se non che per me, ogni giorno che passa, la sua figura diventa piú grande. Qualcuno — uno dei tanti giornalisti che pensano di rendersi interessanti inventando o ripetendo banalità — ha arricchito la lunga lista di luoghi comuni su Paolo VI denominandolo il “Papa dimenticato”. Non si direbbe: mi sembra che si parli sempre di piú di lui, certo spesso per criticarlo, ma ancora piú spesso per rivalutarne l’insegnamento, che a distanza di anni appare davvero profetico. Rientra in questa rivalutazione l’ultima enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate, che riprende, continua e approfondisce l’insegnamento della Populorum progressio.

Nei giorni scorsi Raffella ha ripubblicato due discorsi di Papa Montini al Concistoro, quello del 24 maggio 1976 e quello del 27 giugno 1977. Il primo di tali discorsi è stato successivamente ripreso da Rinascimento sacro, destando le ire di alcuni lettori, che continuano a perpetuare uno dei tanti stereotipi su Paolo VI: il Papa progressista che ha distrutto la Chiesa. Per me, come ho già detto, egli è, al contrario, il Papa che ha salvato la Chiesa. E lo ha fatto senza alcuna esitazione, checché ne dicano quanti lo accusano di essere stato timido, dubbioso, amletico. Paolo VI, pur nell'innata modestia, nella signorilità del tratto e nel rispetto delle persone, fu sempre pienamente consapevole della missione che Dio gli aveva affidato e la compí senza reticenze o tentennamenti. Quando si recò in visita al Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra, il 10 giugno 1969, si presentò con queste parole: «Il Nostro nome è Pietro».

Vorrei commemorarlo oggi ripubblicando quello che fu forse il suo ultimo discorso pubblico, l’omelia pronunciata durante la Messa dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 1978, in occasione del XV anniversario della sua incoronazione: una specie di bilancio del suo pontificato. Interessanti i due punti in cui si articola il discorso: "Tutela della fede" e "Difesa della vita umana", le due colonne di quel pontificato e una specie di binario per la Chiesa degli anni avvenire
.


Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi piú che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo XV anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.

Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. Clemente Romano, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione: ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento piú alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16:16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4:7).

I. TUTELA DELLA FEDE

Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (cf Lc 22:32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (Ep. ad Eutichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «piú preziosa dell’oro», dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur», 1 Pt 1:7). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (1 Tm 6:13). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (cf 2 Pt 1:16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (1 Gv 1:1-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato: «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Lc 22:32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Lc 10:16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (cf H. Grisar, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato cosí da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Mt 16:16).

Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. Manzoni). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2 Tm 4:8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la Ecclesiam suam (9 agosto 1964: AAS 56/1964, 609-659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la Mysterium fidei sulla dottrina eucaristica (3 settembre 1965: AAS 57/1965, 753-774); la Sacerdotalis caelibatus (24 giugno 1967: AAS 59/1967, 657-697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la Evangelica testificatio (29 giugno 1971: AAS 63/1971, 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la Paterna cum benevolentia (8 dicembre 1974: AAS 67/1975, 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la Gaudete in Domino (9 maggio 1975: AAS 67/1975, 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine, la Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975: AAS 68/1976, 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.

Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come Credo del Popolo di Dio (AAS 60/1968, 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai piú importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresí rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (Quaest. disp. de perf. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).

II. DIFESA DELLA VITA UMANA

In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et spes, 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.

Rammentiamo anche qui i punti piú significativi che attestano questo nostro intento.

a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967: AAS 59/1967, 257-299).

b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (n. 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968: AAS 60/1968, 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e piú urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.

c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!

d) Ma siamo stati indotti altresí dall’amore alla gioventú che sale, fidente in un piú sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventú è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio piú ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Gv 6:68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino.

Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum» (At 12:11). Sí, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata.

O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Cosí essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e cosí custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.

Amen, amen.

mercoledì 5 agosto 2009

Peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio

Nel mio post di lunedí scorso affermavo che, secondo me, la grande colpa dell’Europa è l’apostasia; e identificavo questa con uno dei “sei peccati contro lo Spirito Santo”: impugnare la verità conosciuta. Chi, come me, nella sua infanzia, ha studiato il Catechismo di San Pio X, ricorderà che gli altri cinque peccati sono rispettivamente: disperazione della salute; presunzione di sal­varsi senza merito; invidia della grazia altrui; ostinazione nei peccati; impenitenza finale. E ricorderà pure che «I peccati contro lo Spirito Santo sono dei piú gravi e funesti, perché con essi l’uomo si oppone ai doni spirituali della verità e della grazia, e perciò, anche potendolo, difficilmente si converte» (n. 153). Sarà pur stato troppo schematico e mnemonico, però il Catechismo della dottrina cristiana, io lo trovavo molto comodo e pratico per la sua chiarezza, tanto che vi ho sempre fatto riferimento (pur con qualche adattamento) nell’insegnamento del catechismo ai fanciulli.

Personalmente, trovo molto ben fatti sia il Catechismo della Chiesa Cattolica sia il suo successivo Compendio. Adesso, per esempio, sto usando il Compendio per fare il catechismo ai seminaristi del primo anno (eh sí, vi sembrerà strano, ma ora nei seminari, durante il primo anno, prima di iniziare qualsiasi altro tipo di formazione, bisogna dare una istruzione catechetica di base, insieme a un avviamento alla vita spirituale e a un’integrazione della preparazione culturale), e non posso proprio lamentarmi: in sintesi c’è tutto.

Però devo riconoscere che certe definizioni cosí precise, chiare e incisive si sono perse. Che cosa dice il CCC a proposito dei peccati contro lo Spirito Santo? «“Qualunque peccato o bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata” (Mt 12,31). La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna» (n. 1864). Per carità, tutto giusto; il nuovo testo sarà pure biblicamente e teologicamente piú ricco; ma… l’elencazione di quei “sei peccati contro lo Spirito Santo” mi sembrava assai piú esplicita e incisiva.

Mi veniva in mente tale riflessione in questi giorni, a proposito della pillola RU486. Direte: che c’entra? Nel Catechismo di San Pio X, dopo i “sei peccati contro lo Spirito Santo”, venivano elencati i “quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”: omicidio volontario; peccato impuro contro natura; oppressione dei poveri; defraudare la mercede agli operai. Di tali peccati si diceva: «I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono dei piú gravi e funesti, perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, piú degli altri, i castighi di Dio» (n. 154). Tali peccati sono diventati, nel nuovo Catechismo, i “peccati che gridano verso il cielo”: «Gridano verso il cielo: il sangue di Abele (cf Gen 4:10); il peccato dei Sodomiti (cf Gen 18:20; Gen 19:13); il lamento del popolo oppresso in Egitto (cf Es 3:7-10); il lamento del forestiero, della vedova e dellorfano (cf Es 22:20-22); l’ingiustizia verso il salariato (cf Dt 24:14-15; Gc 5:4)» (n. 1867). Anche qui, le medesime osservazioni: tutto giustissimo; ma non vi sembra che non ci sentiamo affatto coinvolti? Che cosa volete che mi importi del popolo oppresso in Egitto quattromila anni fa? (Fra parentesi devo lamentare che nel Compendio si è persa qualsiasi traccia tanto della bestemmia contro lo Spirito Santo quanto dei peccati che gridano al cielo, sia nel testo che nelle “formule di dottrina cattolica” finali).

Ebbene, mi tornavano in mente i “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” a proposito della RU486, perché, forse, sarebbe assai piú incisivo, da parte della Chiesa, rammentare agli uomini che l’aborto è un “peccato che grida vendetta al cospetto di Dio” e che, come tale, provoca, piú degli altri, i castighi di Dio. Certamente, nessuno può accusare la Chiesa di silenzio di fronte alla tragedia dell’aborto. Se c’è una cosa che non si può rimproverare alla Chiesa odierna è uno scarso impegno in difesa della vita. Anche nel caso della pillola abortiva immediata è stata la reazione delle gerarchie ecclesiastiche. Mons. Sgreccia ha ribadito che si tratta di un vero e proprio aborto e, come tale, è un delitto e peccato in senso morale e giuridico e quindi comporta la scomunica latae sententiae. Giustissimo. Pensate però che parlare di scomunica, nella situazione attuale, sia sufficiente? Non credo che la gente oggi sia poi cosí preoccupata di essere scomunicata. Non sarebbe invece costretta a riflettere se le ricordassimo che si tratta di un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio?

lunedì 3 agosto 2009

Cristianesimo e Islam #2

La settimana scorsa in Nigeria; questi giorni in Pakistan. Le violenze dei musulmani contro i cristiani sembrano moltiplicarsi. Qualcuno potrebbe persare: c’è da meravigliarsi? È sempre stato cosí, e sempre lo sarà.

Torno sull’argomento “Cristianesimo e Islam”, perché qualche lettore, che pure mi legge regolarmente e si trova in genere d’accordo con quanto scrivo, quando incomincio a parlare di Islam, fa fatica a seguirmi. Posso anche capire il motivo: la mia posizione in materia è difficilmente inquadrabile negli schemi correnti di destra/sinistra, progressista/conservatore. Secondo tali sbrigative schematizzazioni chi è — o meglio, appare — di destra, dovrebbe purte essere per lo “scontro di civiltà”, su cui ha insistito per anni la propaganda americana. Ho già detto in altra occasione che io in questa destra secolarizzata, postmoderna e neocon non mi ci ritrovo affatto. Preferisco andare per la mia strada, infischiandomene della destra e della sinistra (che sono etichette del tutto sorpassate) e cercando di guardare alla realtà, per quanto mi è possibile, con obiettività.

Anche nel caso presente, non posso chiudere gli occhi dinanzi alla realtà. Non posso negare che ci siano dei cristiani che vengono perseguitati dai musulmani. Purtroppo, personalmente, non posso fare nulla per evitare queste tragedie, se non pregare per le vittime e per i loro carnefici. Se i governi e gli organismi internazionali possono fare qualcosa di piú sul piano diplomatico, ben venga. Quel che mi rifiuto di fare è di pensare: 1) che è sempre stato così, e sempre lo sarà; 2) che sia inevitabile uno “scontro di civiltà”.

Innanzi tutto, sul piano storico, non è vero che è sempre stato cosí. È vero che l’Islam ha conquistato molti territori dell’Asia e dell’Africa precedentemente cristiani; è vero che prima gli Arabi e poi i Turchi hanno cercato di conquistare anche l’Europa (in parte riuscendoci); ma non è vero che essi volessero la morte o la conversione forzata dei cristiani. L’Islam crede che la terra appartiene ad Allah, e perciò deve essere a lui sottomessa. Quanto ai popoli che la abitano, se pagani, devono essere convertiti; se cristiani o ebrei, possono continuare a professare la loro religione (pagando un tributo). Per questo motivo, nel mio precedente post scrivevo che l’Islam “è sempre stato piuttosto tollerante”. Allora, come mai i cristiani sono quasi scomparsi dai territori arabi? Non perché siano stati uccisi o costretti a convertirsi, ma semplicemente perché essi stessi hanno preferito convertirsi piuttosto che pagare il tributo. L’Europa meridionale invece, che pure è stata dominata dagli arabi per alcuni secoli, è rimasta cristiana. Ma anche in Medio Oriente, prima sotto il dominio arabo e poi sotto quello turco, sono rimaste a lungo fiorenti numerose comunità cristiane: ortodossi bizantini, armeni, maroniti, caldei, ecc. Per secoli musulmani, ebrei e cristiani hanno convissuto, certamente fra mille tensioni, ma senza scannarsi a vicenda. È stato solo in epoca moderna, con la fine dell’Impero Ottomano, che sono incominciate le varie “pulizie etniche”: l’espulsione dei Greci dal Ponto, il genocidio degli Armeni, le guerre civili libanesi, quello che sta accadendo oggi ai cristiani in Terra Santa e in Iraq. Ripeto, questi fenomeni, non appartengono alla tradizione dell’Islam. Appunto per questo dobbiamo analizzare tali fenomeni con estrema attenzione, per cercare di capirli, prima di mettere la lancia in resta e partire per una nuova crociata.

Da parte mia, ho cercato di dare una spiegazione. Non pretendo di aver ragione: è solo un tentativo di capire che cosa sta avvenendo. Sono pronto ad accettare qualsiasi spiegazione alternativa. Dicevo nel mio post che, secondo me, il fanatismo islamico può essere spiegato “come una forma di reazione a un supposto attacco, una forma di autodifesa, quanto si vuole irrazionale ma comprensibile, della propria civiltà”. Ho l’impressione che l’Islam si senta assediato dall’Occidente; si rende conto della propria debolezza, sa che il sistema di vita occidentale potrebbe travolgerlo; e perciò si difende, spesso facendo ricorso alla violenza (ripeto che il “terrorismo” in questo discorso non c’entra nulla; è un fenomeno diverso, che andrebbe trattato a parte).

Si tenga conto anche di un altro fattore, che spesso sfugge a noi occidentali. In Occidente, solitamente, mentre abbiamo l’impressione che l’Islam stia avanzando inesorabilmente, abbiamo un’immagine di Chiesa ripiegata su sé stessa, in profonda crisi, in alcuni paesi in via di estinzione. Ma questa non è la realtà della Chiesa (e di altre confessioni cristiane) in altri continenti (specialmente in Asia e in Africa). Qui il Cristianesimo è una realtà estremamente viva, in piena espansione. Esso rappresenta una seria minaccia per le religioni tradizionali, che spesso si trascinano e appaiono impreparate ad affrontare la sfida della modernità. Questo spiega le leggi anticonversione in alcuni Stati e le diffuse violenze contro sacerdoti e fedeli.

Questo ci fa capire come l’Islam (alla stregua di altre religioni) non è poi cosí forte come potrebbe apparire. Ciò non significa che non esista un reale pericolo di islamizzazione dell’Europa. Ma la colpa, in questo caso, non è dell’Islam, bensí dell’Europa. È l’Europa che si sta suicidando. Prendete il problema demografico: se gli europei non fanno piú figli, è colpa dei musulmani? È ovvio che, prima o poi, il posto degli europei, nel frattempo scomparsi, verrà preso da qualcun altro. Capisco che una prospettiva del genere ci mette in agitazione; ma, a quanto pare, non modifica per nulla le nostre abitudini. La cosa non mi meraviglia piú di tanto. Sono sempre stato del parere che la grande colpa dell’Europa sia l’apostasia; e l’apostasia (“impugnare la verità conosciuta”) è uno dei peccati contro lo Spirito Santo, che non possono essere perdonati.

Dobbiamo perciò rassegnarci a vedere un’Europa islamizzata? Spero di no. La mia speranza (qualcuno la chiamerà “illusione”) è che i musulmani diventino cristiani. Solitamente si afferma che ciò è impossibile, perché l’Islam è successivo al Cristianesimo e pretende di essere la rivelazione definitiva: diventare cristiani sarebbe come un tornare indietro (come se un cristiano si facesse ebreo). Questo è un ragionamento completamente astratto che non tiene conto di un fatto semplicissimo: che il Cristianesimo è l’unica vera religione. Le religioni non possono essere giudicate solo su un piano storico, per cui quella che viene dopo è, di per sé, migliore della precedente; se noi crediamo che Gesú Cristo è il Figlio di Dio, inevitabilmente saremo anche convinti che prima o poi egli sarà riconosciuto e accolto da tutti i popoli. Come si spiega allora l’Islam, che è venuto dopo la rivelazione cristiana? Possiamo interpretarlo in due modi diversi, ripresi entrambi dalla tradizione: o come una “eresia” cristiana (cosí era considerato nel Medioevo) o come una praeparatio evangelica (come vennero considerate le filosofie pagane dai primi cristiani). Nell’uno e nell’altro caso, non si può escludere una conversione dell’Islam al Cristianesimo.

Io voglio guardare al fenomeno in corso delle migrazioni con l’occhio con cui alcuni cristiani guardarono al fenomeno delle invasioni barbariche. Ovviamente, a quel tempo, molti, legati alla civiltà romana (come noi lo siamo oggi alla civiltà europea), erano terrorizzati dall’arrivo dei barbari, perché avrebbero distrutto la civiltà romana e la religione cristiana. Ma c’era qualcuno che invece, con lungimiranza, vedeva in quel fenomeno la mano della Provvidenza. Vi cito quanto scriveva lo storico Paolo Orosio, contemporaneo di Sant’Agostino, alla fine della sua Storia:

«Quamquam si, ob hoc solum Barbari Romanis finibus immissi forent, quod vulgo per Orientem et Occidentem ecclesiae Christi Hunnis et Suevis, Vandalis et Burgundionibus, diversisque et innumeris credentium populis replentur, laudanda et attollenda Dei misericordia videretur [= se anche i barbari fossero stati introdotti nel territorio romano solo a questo scopo, perché dovunque, in Oriente e in Occidente, le chiese di Cristo si riempissero di Unni e Svevi, di Vandali e Burgundi, e di diversi e innumerevoli popoli, sembrerebbe che si debba lodare ed esaltare la misericordia di Dio]» (Historiae adversus paganos, VII, 41).

Poteva sembrare assurdo, a quell’epoca, pensare che i barbari potessero un giorno riempire le chiese. Eppure avvenne. E nacque una nuova civiltà: l’Europa, appunto. Chi ci impedisce di nutrire oggi la stessa speranza? Chi ci impedisce di sperare che le nostre chiese, disertate dagli europei, possano un giorno riempirsi di arabi, di turchi e di persiani, non perché nel frattempo quelle chiese saranno state convertite in moschee (come avvenne, ahimè, per Santa Sofia), ma perché nel frattempo quelle genti si saranno convertite a Cristo? Qualcuno dirà: Impossibile! Io non sarei cosí categorico. Gesú ha detto: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio” (Mc 10:27).

domenica 2 agosto 2009

XVIII domenica "per annum"

Quando la folla vide che Gesú non era piú là e nemmeno i suoi discepoli salí sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesú ... "In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati".

La folla cerca Gesú; ma la loro ricerca non è disinteressata; li spinge un tornaconto materiale: Gesú è colui che può sfamarli gratuitamente. Per questo volevano farlo re. Avevano visto il miracolo, ma non avevano capito niente. Gesú non se la prende, ma cerca di farli maturare spiritualmente: "Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna".

"Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?".

Ancora non capiscono. Gesú dice loro: "Datevi da fare"; e loro, da buoni giudei, pensano che si tratti di fare qualcosa, che sia tutto una questione di opere. Ma Gesú precisa: "Questa è l'opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato". Ciò che conta non sono le opere, ma la fede.

"Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?
".

"OK, siamo disposti a crederti; ma prima devi dimostrarci la tua autorità: per favore, dacci un segno, possibilmente uno simile a quello della manna nel deserto". Ma come? Rimaniamo strabiliati: avevano appena assistito a un segno simile a quello della manna, e ora vanno cercando altri segni? Abbiamo qui la riprova che non avevano capito nulla. Forse, la maggior parte di loro non s'era neppure accorta del miracolo: avevano mangiato, senza neppure chiedersi da dove provenisse quel pane; forse pensavano che Gesú si fosse portato dietro un rifornimento di pane e di pesci per i suoi simpatizzanti... Gesú, ancora una volta, non si scompone. Lui, che aveva appena finito di dare un segno — e che segno! — precisa che non darà alcun segno; meglio, che non sarà lui a dare il segno che attendono; è il Padre che dà tale segno: "È il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero". Gesú stesso è il segno che il Padre dà agli uomini, il pane di cui loro sono alla ricerca, non quello materiale, ma quello vero, quello dal cielo: "Io sono il pane della vita". Per cogliere questo segno, è necessaria la fede: "Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!".

sabato 1 agosto 2009

Compromesso o chiarezza?

Qualcuno di voi si chiederà: Che ne è stato della lettera aperta a Mons. Fellay di lunedí scorso? Beh, devo dire che gli angeli hanno svolto molto bene il loro lavoro… Quella lettera ha avuto una enorme diffusione (è stata letta da centinaia di persone); e ho fondati motivi di pensare che sia giunta a destinazione.

Nei giorni scorsi questo blog ha visto aumentare notevolmente il numero dei contatti giornalieri. La lettera è stata poi ripresa o segnalata da non pochi altri blog e siti, in Italia e all’estero.

In Italia, la lettera è stata pubblicata integralmente da Rinascimento sacro (che ringrazio per l’attenzione che sta dedicando ultimamente ai miei post) ed è stata segnalata da Papa Ratzinger blog [2] e dai forum Oriens e Cattolici Romani.

Beatrice, come al solito, ha immediatamente tradotto la lettera in francese e l’ha postata sul suo sito Benoît et moi. Di lí essa è stata ripresa da Eucharistie Miséricordieuse, Forum Catholique (a tutt’oggi, 775 contatti!), TradiNews, Le blog de Saint Michel Archange, Saint Michel de Rolleboise, Le Nouvelliste.

Padre Clécio Silva dos Santos, a sua volta, ha tradotto la lettera in portoghese e l’ha postata sul suo blog Oblatus.

In genere, i commenti sono stati piú che favorevoli, con qualche stonatura (ci sarà sempre qualcuno che ha da ridire su tutto e su tutti...). D’altra parte, non ho scritto la lettera per ricevere apprezzamenti da chicchessia, ma semplicemente per favorire, se possibile, la riconciliazione nella Chiesa. Mi fa in ogni caso piacere rilevare come il clima sia, da entrambe le parti, positivo: mi pare di percepire che c’è in tutti un gran desiderio di arrivare presto a una ricomposizione della frattura; il che fa ben sperare in un successo dei colloqui.

Ovviamente, da parte della Fraternità di San Pio X, nessuna reazione ufficiale: non era né prevista né richiesta né attesa. Mi basta sapere che il messaggio sia giunto a destinazione. In ogni caso, ho letto con piacere, proprio ieri, su APCom un’intervista a Mons. Fellay (se ne veda il testo completo su Papa Ratzinger blog [2]). Sarà certamente un caso che essa giunga pochi giorni dopo il mio intervento, ma in ogni modo, io la considero come una specie di risposta indiretta alla mia lettera. In tale intervista, il Superiore generale della FSSPX non dice nulla di nuovo (se non che i colloqui inizieranno molto probabilmente in autunno) e ribadisce la tesi dello “stato di necessità” per giustificare la posizione della Fraternità. Mons. Fellay, che è persona intelligente, di solito sa smarcarsi abbastanza bene di fronte alle domande insidiose. Questa volta però mi pare di cogliere un certo imbarazzo nella sua risposta all’obiezione di possibili divisioni esistenti all’interno della Fraternità. Mons. Fellay passa al contrattacco, evidenziando divisioni anche in Vaticano (e non ha tutti i torti); ma poi, per quanto cerchi di giustificare la diversità di punti di vista, a un certo punto non sa come venirne fuori: si veda la contorta reazione al giudizio di Williamson sul Concilio (“torta avvelenata da gettare nella pattumiera”): “Direi il concetto in un altro modo. Ma non lo so se non sono d’accordo”. In ogni caso, è piú che comprensibile: chiunque, al suo posto, si comporterebbe allo stesso modo.

Molto interessante come Mons. Fellay risponde alla domanda: “E sul Concilio, accetterete il compromesso con Roma?”. Risposta: “Non dobbiamo fare alcun compromesso sul Concilio. Non ho nessuna intenzione di fare un compromesso. La verità non sopporta il compromesso. Non vogliamo un compromesso, chiediamo chiarezza sul Concilio”. Penso che possiamo trovarci tutti d’accordo su questa posizione. Non si tratta di fare compromessi (questi potranno essere fatti su altre questioni, per esempio di carattere canonico e disciplinare). I problemi dottrinali non si risolvono con i compromessi. Si tratta piuttosto di un problema di chiarezza. Una chiarezza che non solo Mons. Fellay e i lefebvriani attendono, ma di cui tutta la Chiesa sente urgente bisogno. Solo nella chiarezza (nello “splendore della verità”) sono possibili l’unità e la riconciliazione.

venerdì 31 luglio 2009

Che cosa è andato storto?

Giorni fa ZENIT ha pubblicato una recensione del libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto? (Fede & Cultura, Verona 2009), successivamente ripresa da altri siti. Siccome questo blog si è sempre interessato delle problematiche concernenti il Concilio Vaticano II, non posso ignorare tale pubblicazione. Premetto che non possiedo il volume, e perciò devo basarmi esclusivamente su quanto riportato nella suddetta recensione.

A quanto pare, la tesi dell’Autore, è che il problema non sta nel Concilio in quanto tale, ma nella sua interpretazione. E fin qui ci troviamo perfettamente d’accordo: penso che ormai tale distinzione possa considerarsi appurata. Secondo lui, il problema è nato nel 1968, anno in cui la contestazione non entrò solo nelle università, ma anche nella Chiesa, specialmente in concomitanza con la pubblicazione dell’Humanae vitae. Il rifiuto di tale enciclica, afferma McInerny, va al di là delle questioni di morale sessuale e si pone come contestazione globale dell’autorità del Papa e del Magistero. “Per McInerny, è questa confusione ed aperta ribellione culminata con l’opposizione alla Enciclica Humanae vitae che ha indebolito la Chiesa e generato la crisi di vocazioni e di perdita di fede”.

Molto probabilmente la domanda (non so se posta da McInerny o dall’autore della recensione, Antonio Gaspari) se l’attuale crisi della Chiesa vada ricondotta a cause esterne alla Chiesa stessa o sia una diretta conseguenza del Concilio non avrà mai una risposta. La storia non si fa con i “se”: non sapremo mai che cosa sarebbe avvenuto alla Chiesa se non ci fosse stato il Vaticano II. Quel che sappiamo è che il Concilio c’è stato; che in esso non si possono rinvenire veri e propri errori; al massimo, possiamo addebitargli qualche eccessiva illusione circa le “magnifiche sorti e progressive” del mondo moderno e qualche ambiguità nei suoi documenti. Ma sappiamo pure che, durante e soprattutto dopo il Concilio, si è diffuso nella Chiesa un forte dissenso, che ha provocato confusione e disorientamento nei fedeli. Non sarà dunque proprio questo dissenso la causa dell’attuale crisi della Chiesa? Non saprei dare una risposta definitiva. Mi sembra però che si tratti di una tesi degna della massima attenzione.

Anche perché — aggiungo io — se cosí fosse, il problema della crisi della Chiesa non potrebbe essere piú ricondotto al Concilio stesso (che anzi andrebbe rivalutato) e neppure soltanto alla corrente progressista, che ha interpretato a suo modo il Vaticano II (mettendo lo “spirito del Concilio” al di sopra del Concilio stesso), ma anche a coloro che hanno rifiutato il Concilio e contestato l’autorità pontificia da posizioni tradizionaliste (anche costoro hanno dato, oggettivamente, al di là delle loro intenzioni, un contributo al dissenso ecclesiale).

Io, almeno per il momento, sospendo qualsiasi giudizio; ma voi capite bene che assumendo la tesi di McInerny e portandola alle sue logiche conseguenze, cambia tutto. In ogni caso, mi pare che McInerny, con la sua tesi, si faccia interprete di quella che era la posizione di Paolo VI. Papa Montini, che, nonostante lo si dipinga spesso come Papa “progressista”, era perfettamente consapevole e “geloso” del proprio ruolo primaziale, ha sempre considerato il rifiuto del Vaticano II e delle riforme ad esso seguite (come la riforma liturgica) come un rifiuto dell’autorità della Chiesa (che nel Concilio si era manifestata) e di quella pontificia (che approvava ed emanava quelle riforme). I tradizionalisti hanno sempre descritto il loro atteggiamento come una reazione alla demolizione della Chiesa operata dalle forze progressiste; essi hanno sempre invocato lo “stato di necessità” come giustificazione di un’aperta opposizione alla legittima autorità della Chiesa. Non sta a me dire se tale posizione sia giusta o sbagliata. Dico solo (pur sapendo che la storia non si fa con i “se”): ma se invece di opporsi a Roma, ci si fosse tutti stretti intorno al Papa, le cose non sarebbero andate in modo diverso?

mercoledì 29 luglio 2009

Moralismo senza frontiere

Questa mattina ho letto un bellissimo articolo di Antonio Socci dal titolo “Gesú, i peccatori e il caso Berlusconi”. È stato pubblicato su Libero del 24 luglio; potete trovarlo sul blog dell’Autore lo Straniero.

Sempre questa mattina ho letto su ZENIT la notizia, che già conoscevo, della “ferma intenzione” del sacerdote Eddie Panlilio di presentarsi come candidato nelle elezioni presidenziali nelle Filippine, previste per il prossimo anno.

C’è una certa connessione fra i due articoli, perché la situazione in cui attualmente si trovano il Presidente del Consiglio italiano (Silvio Berlusconi) e la Presidente delle Filippine (Gloria Macapagal-Arroyo) è molto simile. Sia in Italia che nelle Filippine sono in corso dure campagne contro i rispettivi presidenti, ambedue accusati di corruzione.

Personalmente ritengo che all’origine di tali campagne ci siano, in entrambi i casi, alcuni “passi falsi” commessi dagli interessati. Abbiamo già parlato del caso Berlusconi, per cui non c’è bisogno di tornarci sopra; ma può essere interessante sapere che cosa è avvenuto alla Signora Arroyo. Divenne Presidente la prima volta nel 2001, in seguito alla seconda rivoluzione popolare filippina (“People Power Revolution” o “EDSA Revoluition”) contro il corrotto Presidente Estrada (la prima rivoluzione era stata quella contro Marcos nel 1986, la cosiddetta “Yellow Revolution”, la prima delle tante “rivoluzioni colorate”). La Arroyo, essendo Vicepresidente, divenne automaticamente Presidente e vi rimase fino allo scadere del precedente mandato, nel 2004, quando si presentò alle elezioni e fu confermata Presidente. Tutto sembrava andare liscio. Ma ben presto alcuni soldati filippini furono rapiti in Iraq. La richiesta per il rilascio era che il contingente filippino lasciasse l’Iraq. La Arroyo cedette al ricatto, ritirò le sue truppe e i soldati furono rilasciati. Io dissi immediatamente fra me: “Ha commesso un errore. Prima o poi glielo faranno pagare”. E infatti, ben presto, nel 2005, incominciarono a fioccare sul suo capo accuse di corruzione (a cominciare dall’accusa di brogli nelle elezioni dell’anno precedente). Accuse che saranno — sia bene inteso — anche vere (devo ancora incontrare il politico incorrotto a cui non possano essere mosse accuse di sorta); ma come mai solo in quel momento venivano fuori?

La Chiesa filippina, che è stata e continua a essere molto politicizzata (forse a causa del Card. Sin, che guidò in prima persona le rivolte popolari contro Marcos ed Estrada), si è prestata pienamente al gioco, mettendosi alla guida dell’opposizione contro la Arroyo, forse sperando in un terzo “People Power”. Finora non è successo nulla, perché l’episcopato è diviso; lo era anche in passato, ma allora c’era Sin, che col suo carisma imponeva la propria linea; ora Sin non c’è piú, e nessuno riesce a creare unanimità, per cui le iniziative che si prendono contro la Presidente rimangono iniziative personali di singoli Vescovi, singoli sacerdoti o gruppi di religiosi (le suore appaiono le piú arrabbiate…). Quelli che sembrano piú tranquilli sono proprio i laici.

In questo agitarsi ecclesiastico contro la Arroyo si situa la figura di Padre Eddie Panlilio (non è religioso, ma nelle Filippine chiamano “Father” anche i sacerdoti diocesani). Nel 2007 decise di darsi alla politica e si presentò alle elezioni provinciali della provincia di Pampanga (la provincia di origine della Arroyo). Vinse e diventò Governatore. Naturalmente, essendo tale carica incompatibile con il ministero sacerdotale, fu sospeso a divinis. Ma questo non va considerato come una punizione, ché anzi non pochi Vescovi, sacerdoti, seminaristi (significativo che fra i suoi sostenitori ci sia una sorprendente “Alleanza degli ex-seminaristi delle Filippine”) e religiose non solo lo sostengono, ma lo considerano una specie di eroe.

Ora (ma non è una novità, perché se ne parlava da tempo) Padre Panlilio ha annunciato la sua “ferma intenzione” di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno (un caso simile a quello del Vescovo Fernando Lugo divenuto lo scorso anno Presidente del Paraguay). Molti lo accusano di sfruttare il suo ruolo ecclesiale per attirare voti e lo invitano a chiedere la riduzione allo stato laicale prima di presentarsi alle elezioni; lui sembra invece preferire attendere il risultato delle elezioni, perché, in caso di sconfitta, non gli dispiacerebbe riprendere l’esercizio del ministero, che — a suo dire — ama tanto, e a cui è disposto a rinunciare solo per un amore piú grande, quello per il proprio paese. A noi certe cose appaiono incredibili, ma nelle Filippine, che sono un paese cattolico vecchio stile, non destano meraviglia.

Che dire? Ho vissuto nelle Filippine per cinque anni, per cui penso di conoscere abbastanza la situazione di quel paese (e della sua Chiesa). Fino a qualche mese fa non avrei osato pronunciarmi; ma ora che non vivo piú lí, penso di potermi permettere qualche riflessione… senza peli sulla lingua.

Innanzi tutto direi che la Chiesa filippina deve fare ancora un notevole cammino di maturazione. Essa conserva ancora un grande potere, non solo morale, ma anche politico (basta che i Vescovi facciano una dichiarazione, riescono a bloccare persino una legge in discussione in parlamento). La situazione, naturalmente sta cambiando anche nelle Filippine; ma la Chiesa continua a essere molto influente. E fin qui niente di male: finché si tratta di difendere i valori morali (nelle Filippine non sono ammessi né divorzio né aborto), ben venga anche l’autorevolezza (o il “potere”, chiamatelo come vi pare) della Chiesa.

Il problema nasce quando dai valori morali si passa alla politica spicciola. Non mi sembra che sia compito della Chiesa interferire in questo campo, che non le compete. O meglio, è il campo dove i cattolici possono (e devono), a titolo personale o raggruppati nelle loro associazioni, intervenire. Ma non è questo un ruolo che spetta alla gerarchia (Vescovi e sacerdoti). Il loro compito, semmai, è quello di formare il laicato, di educare la coscienza cristiana dei fedeli, perché possano poi svolgere un ruolo politico. E invece è un continuo interferire in questioni strettamente politiche: Vescovi che chiedono alla Presidente di dimettersi, preti che manifestano contro il governo, suore che si fanno sostenitrici e protettrici di leader dell’opposizione, ecc.

È ovvio che il piú delle volte tali interventi strettamente politici vengono ammantati di motivazioni morali. Ed ecco che si cade nel moralismo, di cui ci siamo già occupati e che ora viene cosí bene descritto da Socci nel suo articolo. Anche nel caso delle Filippine, come in Italia, gli uomini e le donne di Chiesa non si accorgono di essere strumentalizzati; non si accorgono che le varie “questioni morali” sono delle armi di cui altri si servono per sbarazzarsi dei loro nemici politici. Preti e monache, nella loro ingenuità, non se ne accorgono, e si prestano al gioco. Talvolta viene da pensare che farebbero meglio, anziché criticare i politici, a guardarsi in casa, dove non sempre le cose vanno come dovrebbero…

Ma l’aspetto che mi fa piú riflettere della candidatura di Padre Panlilio è che essa rappresenta una sconfitta per la Chiesa e la società di quel paese. Se ci si deve mettere nella mani di un prete per risollevare le sorti di una nazione, significa che la società è messa proprio male, non essendo in grado di esprimere un candidato decente. Ma è anche un fallimento per la Chiesa, che, venendo meno al suo compito specifico, non è stata capace di educare nessun laico ad assumere responsabilità politiche. Significa che è una Chiesa ancora clericale.

Infine sarà una sconfitta per Padre Panlilio stesso: non perché perderà le elezioni (se si presenta, do per scontata la sua elezione), ma perché inevitabilmente diventerà (lo è già nella sua provincia) un uomo di parte, quando il compito di un sacerdote dovrebbe essere quello di stare al di sopra delle parti, segno e strumento di unità.

martedì 28 luglio 2009

Cristianesimo e Islam

Di tanto in tanto torna alla ribalta il problema del rapporto fra Cristianesimo e Islam; segno, questo, che si tratta di una questione molto viva e attuale.

Circa un mese fa AsiaNews pubblicava l’intervento di Padre Samir Khalil Samir all’annuale incontro del Comitato scientifico della rivista Oasis, fondata dal Card. Scola, incontro svoltosi a Venezia, sull’isola di San Giorgio, nei giorni 22-23 giugno scorsi.

Ieri Sandro Magister ha postato, sul sito www.chiesa, un articolo, in cui si riprende un editoriale di Padre Giovanni Sale per La Civiltà Cattolica (quaderno 3817 del 4 luglio 2009), insieme con i risultati di una ricerca condotta recentemente sui programmi trasmessi dalle reti tv dei paesi arabi (risultati pubblicati in Italia nel volume Media arabi e cultura nel Mediterraneo, a cura di Ornella Milella e Domenico Nunnari, Gangemi Editore, Roma, 2009).

In entrambi i casi si tratta di interventi interessanti, sui quali mi trovo sostanzialmente d’accordo, ma con qualche riserva.

1. Condivido l’attenzione che si rivolge verso il mondo islamico. Si tratta di una realtà importante del mondo contemporaneo, che non possiamo in alcun modo ignorare. Anche perché non è piú una realtà lontana da noi, ma ce la ritroviamo in casa e siamo costretti a fare i conti con essa. Un cristiano, inoltre, deve essere sempre molto attento a ciò che accade intorno a lui, per individuare eventuali spazi che gli si possono aprire per l’annuncio del Vangelo. Il cristianesimo non è una religione etnica, che si possa identificare con un determinato popolo; esso è, per sua natura, una religione universale, non solo aperta, ma destinata a tutti gli uomini.

2. Mi lascia invece un po’ perplesso l’atteggiamento che i cristiani hanno assunto recentemente verso l’Islam (e le altre religioni in genere). Con la scusa del rispetto e del dialogo, non sono piú preoccupati di convertire gli uomini a Cristo, ma semplicemente di convivere con loro, lasciando che ciascuno rimanga com’è. Ma quello che meraviglia ancora di piú è che i cristiani, mentre hanno rinunciato a farsi missionari del Vangelo, sembrano essersi trasformati in “missionari” dell’Occidente e dei suoi valori (tolleranza, libertà, democrazia, ecc.). Per carità, non è che un cristiano debba essere contro tali valori (che condivido pienamente), ma mi pare strano che debba essere proprio il cristiano a farsi portatore di tali valori presso i popoli. Non possiamo piú annunciare il Vangelo, ma dovremmo diffondere la democrazia nel mondo? C’è qualcosa che non mi torna. Padre Samir si chiede se noi cristiani, che abbiamo una piú lunga esperienza di confronto con la modernità, possiamo aiutare i musulmani a compiere lo stesso cammino che noi abbiamo compiuto. Padre Sale si chiede se le società islamiche possano trasformarsi in democrazie compiute di tipo occidentale. Ma perché tali preoccupazioni? Che importa a noi? Lasciamo che i musulmani facciano la loro strada: è un problema loro, non nostro. Oltretutto, non ci accorgiamo di avere ancora una mentalità totalmente eurocentrica, per cui solo ciò che facciamo noi è buono e tutto quello che fanno gli altri è sbagliato; la nostra esperienza è l’unica possibile e tutti gli altri sono destinati a percorrere il nostro stesso cammino; la nostra è una civiltà superiore e tutte le altre sono retrograde? A parte il fatto che è ancora tutto da dimostrare che noi siamo liberi e gli arabi non lo sono, che i nostri paesi sono democratici e quelli musulmani no, perché escludere che possano esistere dei modelli alternativi? In ogni caso, mi fa piacere sapere che fra gli Stati islamici ce ne siano almeno due democratici (Libano e Turchia); finora ci era sempre stato detto che Israele era l’unica democrazia del Medio Oriente…

3. Sono d’accordo che buona parte dei musulmani sia contro l’Occidente, perché vedono in esso un pericolo per la sopravvivenza della loro religione, della loro cultura, della loro civiltà. Essi sono contro l’Occidente non perché esso sia sinonimo di Cristianesimo, ma perché, al contrario, esso è diventato sinonimo di secolarizzazione; e non hanno tutti i torti. Personalmente, ho sempre spiegato in questo modo il fenomeno del fanatismo religioso, che si va via via diffondendo fra i musulmani (sia ben chiaro che “fanatismo” non si identifica con “terrorismo”, fenomeno su cui preferisco non esprimermi). Il fanatismo non fa parte della tradizione dell’Islam, che anzi è sempre stato piuttosto tollerante. Esso può essere spiegato solo come una forma di reazione a un supposto attacco, una forma di autodifesa, quanto si vuole irrazionale ma comprensibile, della propria civiltà.

4. In questa analisi del moderno Occidente, noi cristiani potremmo pure trovarci d’accordo con i musulmani. Che cosa è rimasto di cristiano all’Occidente? Praticamente nulla. Perché allora farci suoi difensori presso gli altri popoli? Semplicemente perché noi viviamo in Occidente? Ma non ci rendiamo conto che ormai la maggior parte dei cristiani non vive piú in Occidente? Perché piuttosto non ci chiediamo anche noi come potremmo rispondere al fenomeno della secolarizzazione? Il fanatismo, come giustamente rileva Padre Samir, può insinuarsi anche fra i cristiani. L’unica risposta valida sta nel ravvivare la nostra fede.

5. Una volta che si vive saldi nella fede, l’unica preoccupazione è quella di conservare tale fede e di diffonderla intorno a noi, infischiandocene di quel che nel frattempo accade all’Occidente e ai suoi valori. Chi vive nella fede non si angoscia piú di tanto per quel che vede avvenire intorno a sé; anzi, scopre delle opportunità (come oggi si dice) lí dove gli altri vedono solo rovina. Il mio ex-Superiore generale, che promosse la fondazione nelle Filippine (con un occhio alla Cina), soleva dire che il comunismo aveva reso un grande servizio alla Chiesa, perché aveva fatto piazza pulita di tutte le pseudo-religioni e le superstizioni diffuse fra i popoli, spianando cosí la strada all’evangelizzazione. Forse, aggiungo io, il comunismo non ha fatto in tempo a compiere la sua opera, ed è giunta la globalizzazione a proseguire il lavoro, con la secolarizzazione di cui si fa portatrice. Sta a noi cristiani scoprire in questo un’occasione per annunciare il Vangelo. A una condizione: che, anziché piangerci addosso e lasciarci a nostra volta sopraffare dalla secolarizzazione, teniamo viva la fiamma della fede, pronti ad appiccare il fuoco, non appena possibile, in ogni angolo della terra.

lunedì 27 luglio 2009

Lettera aperta a Mons. Fellay

Eccellenza Reverendissima,

Non so se questa "lettera aperta" giungerà mai nelle Sue mani. Io l'affido agli angeli, perché Gliela recapitino personalmente. Già altra volta avevo scritto un articolo avendo in mente la vostra Fraternità; lo pubblicai su questo blog (fu il mio primo post), ed esso giunse miracolosamente a destinazione: fu ripreso dai vostri siti e definito "molto interessante".

Questa volta mi rivolgo a Lei, perché so che sono in corso i preparativi dei colloqui dottrinali con la Santa Sede, da voi a lungo richiesti e finalmente, con la remissione della scomunica, accordati da Papa Benedetto XVI. A quanto mi risulta, Lei è già stato a Roma per prendere i primi contatti con la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Personalmente, sono sempre stato del parere che non ci sia bisogno di "colloqui" per la riammissione nella comunione della Chiesa cattolica. L'unica cosa necessaria, a parer mio, dovrebbe essere la professione di fede prevista dai sacri canoni. Una volta che condividiamo la stessa fede, dovremmo essere in piena comunione. Sul resto, che non è compreso in quella professione di fede, ritengo che sia sempre possibile discutere liberamente, ma stando all'interno, non all'esterno della Chiesa. L'accettazione di un Concilio, che si è autodefinito "pastorale", non dovrebbe, secondo me, essere una condizione per la riammissione nella comunione ecclesiastica. Sono d'accordo che sia quanto mai urgente una riflessione sul valore e l'interpretazione del Vaticano II; ma non mi sembra che questo debba essere oggetto di una trattativa fra la Santa Sede e la Fraternità di San Pio X; mi sembra piuttosto un problema che riguarda l'intera Chiesa. È per questo motivo che ho proposto piú volte da questo blog che il prossimo Sinodo dei Vescovi sia dedicato all'interpretazione del Concilio.

Ma tant'è: a quanto pare, sia da parte vostra, sia da parte della Sede Apostolica un chiarimento sul Vaticano II è considerato come una condizione previa a qualsiasi altro tipo di accordo. Di qui la necessità di "colloqui dottrinali". Orbene, visto che tali colloqui dottrinali ci saranno, mi permetta di darLe qualche consiglio. Non perché pretenda di saperne piú di Lei, ma solo per esprimerLe, in spirito di fraterna carità, quel che sento in questo delicato momento.

Innanzi tutto, quando verrà a Roma per discutere con la CDF, non venga nella veste di colui che contesta o, peggio, rifiuta il Concilio. Questo significherebbe il fallimento immediato di qualsiasi dialogo. Venga piuttosto come uno che accetta il Vaticano II per quello che esso ha voluto essere, ed è effettivamente stato, cioè un concilio pastorale. Dica pure al Card. Levada che l'unica cosa che voi rifiutate — e su questo siamo tutti d'accordo — è l'assolutizzazione e l'ideologizzazione del Concilio, non il Concilio in quanto tale. Gli dica pure che voi trovate nei documenti del Vaticano II alcuni testi ambigui. Anche su questo, il Card. Levada dovrebbe convenire con Lei. Lo stesso Paolo VI trovò ambigua la trattazione della collegialità episcopale fatta dalla Lumen gentium, tanto è vero che sentí il bisogno di allegare a quella costituzione una "Nota praevia". Aggiunga che, essendoci delle ambiguità nei testi conciliari, si rende necessaria un'opera di interpretazione. Ma, per favore, non si presenti con la pretesa di essere Lei o la Sua Fraternità gli interpreti autorevoli del Concilio. Chieda piuttosto che sia la Sede Apostolica a dare un'interpretazione autentica dei passi piú oscuri. Qualcosa è stato già fatto (la detta "Nota praevia"; la spiegazione del significato dell'espressione "subsistit in"), ma molto rimane ancora da fare. Il criterio generale di tale interpretazione è stato già indicato da Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: l'ermeneutica della riforma in contrapposizione all'ermeneutica della discontinuità e della rottura. E gli dica che voi, su questo, non solo siete pienamente d'accordo col Santo Padre, ma volete mettervi a sua completa disposizione per aiutarlo in quest'opera di rilettura del Concilio nel solco della ininterrotta tradizione della Chiesa.

Eccellenza Reverendissima, sono sicuro che su quanto ho scritto finora Lei si trovi in buona misura d'accordo. Mi pare di percepirlo dal tono dei Suoi ultimi interventi, molto piú concilianti e possibilisti di un tempo. Ma so pure che deve fare i conti, all'interno della Fraternità, con posizioni piú massimaliste, che La mettono in guardia dall'essere troppo arrendevole nei confronti della Santa Sede. A mio modesto parere, dovrebbe far capire a questi Suoi confratelli che non c'è nulla da guadagnare, in questo momento, a irrigidirsi su posizioni intransigenti. Il Santo Padre ha già fatto molti passi verso di voi; ora sta a voi fare qualche passo verso di lui.

Questo non significa cedere sui vostri principi; perché, se veramente avete a cuore le sorti della Chiesa, non c'è luogo migliore, per far valere quei principi, che la Chiesa stessa. Rimanendone fuori, voi lascerete la Chiesa in balia di quelle forze distruttive che la stanno a poco a poco portando alla rovina. Finché voi continuerete a rifiutare il Concilio, queste forze avranno buon gioco a dire: "Vedete? Loro sono fuori della Chiesa, perché rifiutano il Concilio; noi siamo la vera Chiesa, perché accettiamo, difendiamo e attuiamo il Concilio". Se anche voi accettate il Concilio, rimarranno spiazzati; e a quel punto si rivelerà chi è veramente cattolico e chi non lo è; chi interpreta il Concilio alla luce della tradizione e chi lo interpreta ideologicamente, appellandosi a un suo preteso "spirito".

Questo non significa neppure tradire l'eredità dell'Arcivescovo Lefebvre. Lei sa meglio di me che il vostro Fondatore partecipò al Concilio, dando un notevole contributo alle discussioni e all'elaborazione dei suoi documenti, che approvò e firmò nella loro totalità. Come mai? Non si rendeva conto delle ambiguità in essi contenute? Evidentemente sperava che se ne potesse dare un'interpretazione ortodossa. Fu solo quando vide che l'interpretazione e l'applicazione del Concilio era diventata monopolio dei modernisti che irrigidì le sue posizioni. Sono convinto che, se avesse visto che c'era spazio nella Chiesa per continuare le sue battaglie dall'interno, non sarebbe mai giunto a una rottura con la Sede Apostolica. Ora che questo spazio esiste, ed è lo stesso Sommo Pontefice a offrirvelo, mi sembrerebbe sciocco non sfruttare questa occasione irripetibile. Si tratta di scegliere se rimanere nel seno della Chiesa e di lí svolgere un ruolo, certamente difficile, ma prezioso per la salvaguardia della tradizione e la rivitalizzazione della Chiesa stessa; oppure preferire di rimanere ai margini o addirittura fuori della Chiesa, col rischio di trasformarsi nel tralcio separato dalla vite, destinato a seccare.

Eccellenza, mi scusi se mi sono permesso di intervenire su tali delicate questioni. La posso assicurare che, da parte mia, non c'è alcuna pretesa e alcun interesse, c'è solo il desiderio di vedere il ristabilimento della piena comunione nella Chiesa. La Chiesa ha bisogno di voi e voi avete bisogno della Chiesa.

Colgo l'occasione per confermarmi, con sensi di distinto ossequio, dell'Eccellenza Vostra Rev.ma

dev.mo

Giovanni Scalese, CRSP

domenica 26 luglio 2009

XVII domenica "per annum"

«Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?»

«C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?»


Gesú aveva diverse possibilità per saziare la fame della folla che lo seguiva. Essendo il Figlio di Dio, la piú ovvia sembrerebbe quella di creare pane dal nulla: colui che aveva creato dal nulla tutte le cose non avrebbe potuto creare qualche chilo di pane per sfamare cinquemila uomini?

Un'altra opzione, altrettanto praticabile per il Figlio di Dio, poteva essere quella suggerita dal diavolo durante le tentazioni: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane» (Mt 4:3). È vero che «c'era molta erba in quel luogo», ma si sarebbero pure trovate un po' di pietre da trasformare in pane...

Eppure Gesú non sceglie nessuna di queste possibilità: non crea, non trasforma; preferisce moltiplicare pane già esistente. Perché? Probabilmente perché non vuole fare tutto da sé, ma vuole coinvolgerci nei suoi miracoli; vuole che anche noi facciamo la nostra parte.

In questo caso il prescelto a collaborare con l'onnipotenza divina di Cristo è un povero ragazzo, il quale, piú previdente di tanti adulti, s'era portato il suo pranzo al sacco, cinque pani e due pesci, sufficienti per lui, ma... «che cos'è questo per tanta gente?». Eppure quei pochi pani e pesci, messi nelle mani di Gesú, sono sufficienti a sfamare tutta quella folla (e ce ne sarà d'avanzo).

Se quei pani fossero rimasti nella bisaccia di quel ragazzo, sarebbero appena bastati a soddisfare la sua fame; nelle mani di Gesú si sono inspiegabilmente moltiplicati, tanto da saziare migliaia di persone. Ma perché questo avvenisse, è stato necessario che quel ragazzo rinunciasse a quel poco che aveva e lo mettesse a disposizione di Gesú.

Quel che abbiamo — poco o tanto, non importa — se messo generosamente e disinteressatamente a disposizione del Signore, può prodigiosamente moltiplicarsi e diventare fonte di salvezza per l'umanità.

sabato 25 luglio 2009

Ancora su Bugnini

I miei ultimi post in materia liturgica hanno avuto una certa risonanza nella blogosfera cattolica, segno, questo, che si tratta di un argomento che desta un notevole interesse. Ringrazio tutti per l'attenzione; non ho alcun problema se i miei articoli vengono, parzialmente o integralmente, ripresi (purché sia citata la fonte): una volta che un testo viene pubblicato, perciò stesso è di dominio pubblico e può quindi liberamente diffondersi. Il bello di internet è di permettere alle idee di circolare senza ostacoli; per cui non ho mai compreso le limitazioni poste dai vari copyright, assurdi in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo.

Fra le diverse reazioni, mi sembra doverosa una risposta a Padre Matias Augé, che negli ultimi giorni ha citato per ben tre volte Senza peli sulla lingua sul suo interessantissimo blog Liturgia opus Trinitatis. Nel suo ultimo intervento, Padre Augé riprende parte del mio post Mons. Bugnini e la riforma liturgica, nel quale a mia volta riportavo alcune informazioni contenute in una Newsflash del Dr. Robert Moynihan, Direttore della rivista Inside the Vatican.

Padre Augé afferma che nel mio post intendevo "collegare una serie di fatti avvenuti fra il 1962 e il 1964. Questi fatti però sono riportati in modo distorto". E pertanto fa una serie di precisazioni, di cui lo ringrazio. Certamente egli è meglio informato di me, sia perché è un esperto di liturgia, sia perché ha avuto e ha la possibilità di contatti che io non ho mai avuto né, tanto meno, posso avere ora. Al momento, debbo accontentarmi di quanto leggo su internet, letto naturalmente con un certo senso critico e applicando alcuni criteri piú o meno scientifici (p. es., il collegamento dei fatti non è solo una possibilità, ma direi un dovere per uno storico: fare storia non significa solo riportare alcuni fatti, ma collegarli fra loro, cercando di scoprirne i rapporti di causalità e reciproca dipendenza).

Nel mio post mi sono basato sulle informazioni contenute nel dossier pubblicato dal Dr. Moynihan — che reputo giornalista serio — nella sua "Letter from Rome, #23". I fatti a cui facevo riferimento li ho ripresi di lí. Ovviamente conoscevo già l'accusa di massoneria risolta a Mons. Bugnini, ma non sapevo del suo "primo esilio" (tale espressione — The First Exile — è contenuta nell'articolo di Michael Davies Annibale Bugnini: The Main Author of the Novus Ordo). Padre Augé dice che non è vero che Mons. Bugnini "fu sospeso dal suo incarico [di segretario della Commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II] nel 1962". Questo perché in quell'anno tale commissione fu sciolta e fu costituita la Commissione conciliare della sacra liturgia, di cui fu nominato segretario il Padre Ferdinando Antonelli (il futuro cardinale). Secondo il Card. Larraona, interrogato dal Padre Augé, la prassi era di non nominare segretari delle commissioni conciliari le persone che avevano ricoperto tale incarico nelle commissioni preconciliari. A me sta bene qualsiasi spiegazione, purché storicamente e razionalmente fondata. Io avevo usato l'espressione "fu sospeso dal suo incarico nel 1962" cercando di rendere in un italiano piú soft la piuttosto brusca frase inglese di Davies: "He was summarily dismissed from his chair at the Lateran University and from the secretaryship of the Liturgical Preparatory Commission". Quanto alla testimonianza del Card. Larraona, non mi sembra molto attendibile, essendo lui la persona meno adatta per dare una spiegazione, se è vero che lo stesso Bugnini lo accusò di tale rimozione: "In his posthumous La Riforma Liturgica, Archbishop Bugnini blames Cardinal Arcadio Larraona for this action, which, he claims, was unjust and based on unsubstantiated allegations. 'The first exile of P. Bugnini' he commented." (p. 41; io non ho il libro di Bugnini, ma pregherei Padre Augé, che certamente lo possiede, di controllare la citazione).

Il secondo fatto da me riportato è la data dell'iscrizione di Bugnini alla massoneria (23 marzo 1963). Tale informazione non viene dall'intervista del Dr. Moynihan all'innominato Monsignore indicatogli dal Card. Gagnon, ma dall'Addendum allegato alla citata Newsflash, che riprende, come dice Padre Augé, notizie di stampa della seconda metà degli anni Settanta. Padre Augé cerca di smentire l'affiliazione di Bugnini alla massoneria attraverso una confidenza ricevuta da un Monsignore agli inizi degli anno Ottanta. Sinceramente, con tutto il rispetto per l'altrettanto innominato Monsignore, non mi sembra, questa, una prova determinante. La spiegazione data dal prelato appare piuttosto debole. Anche perché non rende ragione di un fatto incontrovertibile: la rimozione di Mons. Bugnini da segretario della Congregazione per il Culto divino e il suo allontanamento da Roma disposto da Paolo VI. È vero che di tale fatto non sono mai state date spiegazioni ufficiali; ma se non ci fossero stati motivi gravissimi e se il Papa non ne avesse avuto la prova piú certa, tale fatto non sarebbe mai avvenuto. Che Mons. Bugnini si sia sempre difeso dalle accuse che gli venivano mosse, mi sembra piú che comprensibile (anche Padre Maciel ha fatto lo stesso), ma questo non è sufficiente a scagionarlo.

Il terzo punto che Padre Augé mi contesta è la connessione da me compiuta fra il "primo esilio" di Bugnini (1962), la sua iscrizione alla massoneria (1963) e la sua nomina a segretario del Consilium ad exsequandam Constitutionem de sacra Liturgia (1964). Postillavo: "L'iscrizione alla massoneria aveva avuto effetto immediato...". In ciò Padre Augé ha tutto il diritto di contestarmi, dal momento che non si tratta di una connessione provata, ma semplicemente di una mia congettura. Come dicevo, il lavoro dello storico (con ciò non voglio atteggiarmi a storico, ma vorrei solo seguire il loro metodo) non è tanto quello di riportare dei fatti, quanto piuttosto quello di collegarli fra loro, per verificare se intercorra fra loro un rapporto di causa-effetto. Ovviamente, si tratta di un lavoro rischioso, perché si possono prendere delle forti cantonate; ma è un rischio che va corso, se si vuole capire qualcosa. La mia esperienza ("limitata, ma sufficiente", ripeto) m'insegna che certe cose sono possibili, e di fatto avvengono, nella società e, ahimè, nella Chiesa. La cosa non mi scandalizza piú di tanto e, se devo proprio essere sincero, neppure mi interessa piú di tanto (non ho alcuna intenzione di giudicare né Mons. Bugnini né alcun altro: sono questioni che riguardano esclusivamente la loro coscienza).

L'intento del mio post — ma questo sono sicuro che Padre Augé lo abbia capito perfettamente — non era quello di ritornare sulla disputata quaestio Bugnini massone sí – massone no; ma semplicemente quello di anticipare l'ovvia (tanto è vero che il Dr. Moynihan l'ha posta) obiezione: ma se l'artefice della riforma liturgica era davvero massone, allora la sua creatura non dovrebbe essere rimessa in discussione? Il mio intento era solo quello di cercare di dare una risposta a questa domanda.