sabato 31 gennaio 2009

Shoah di ieri e di oggi

Ho l'impressione che si stia passando la misura. È di ieri il commento del padre Federico Lombardi, Direttore della Sala Stampa vaticana, sulla Shoah: "Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo". Non voglio entrare nel merito della realtà della Shoah (questione su cui non posso pronunciarmi per incompetenza, ma su cui dovrebbero avere la possibilità di discutere liberamente gli storici), quanto piuttosto su una questione di metodo. Non mi sembra molto corretto trasferire un evento storico (che per tale motivo, ripeto, dovrebbe rimanere oggetto di libera disputa scientifica) su un piano teologico, trasformandolo cosí in una sorta di dogma da accettare senza discussioni, pena l'esclusione dalla fede della Chiesa ("non sa nulla del mistero di Dio, né della Croce di Cristo"). Non ricordo di aver sentito usare espressioni altrettanto forti quando si trattava, in altre occasioni, di difendere la fede cattolica. Né ricordo di aver sentito alcuna interpretazione teologica dell'olocausto dei nostri giorni, quello del popolo palestinese.
A questo proposito, giacché sono in vena di rivelazioni, permettetemi di riportare la mia lettera al padre Bernardo Cervellera, Direttore di AsiaNews, lo scorso 17 gennaio, in seguito alla pubblicazione di un articolo del francescano israeliano David-Maria Jaeger (C'è chi non capisce il "pacifismo" del Vaticano)

"Caro Padre Cervellera,
Sono ancora io (...) Ma oggi, dopo la pubblicazione dell'articolo di P. Jaeger, mi sembra di dover nuovamente intervenire, spero non precipitosamente, ma perché mi sembra che la posta in gioco sia veramente notevole.
L'articolo di P. Jaeger dimostra come, nella presente situazione, non sia possibile un atteggiamento di equidistanza. Non è un caso che sia un israeliano a difendere la posizione estremamente ambigua che la Santa Sede ha scelto di adottare. L'articolo di P. Jaeger dimostra che essere equidistanti, nelle presenti circostanze, significa prendere posizione, significa mettersi dalla parte dell'oppressore, significa dare per buona la propaganda diffusa da Israele, quando è sotto gli occhi di tutti la vera realtà: quella di un popolo che da sessanta anni è oppresso e che ora si vorrebbe definitivamente cacciare dalla propria terra. Non mi sembra che i profeti, di fronte a simili ingiustizie, fossero equidistanti; non mi sembra che Gesú, di fronte alle ipocrisie di scribi e farisei, fosse equidistante. Ci sono delle situazioni di fronte alle quali è inevitabile prendere posizione: non perché si debba intervenire nel conflitto, ma semplicemente perché bisogna dire la verità e denunciare l'ingiustizia. È ovvio che, in ogni caso, l'obiettivo è la pace; ma è illusorio pensare di poter costruire la pace sull'ingiustizia e sulla menzogna.
Ricordo che in altre situazioni la Santa Sede non ha esitato a prendere posizioni nette: si pensi alla ex-Jugoslavia o alle due guerre del Golfo. Anche a proposito della Terra Santa, un tempo la politica della Sede Apostolica, pur nel suo tradizionale equilibrio, era molto chiara. Da qualche anno essa è diventata estremamente confusa. Perché? Perché si vogliono avere a tutti i costi buoni rapporti con gli Ebrei? Basta vedere quanto siano apprezzate da parte ebraica tali attenzioni nella dichiarazione di questi giorni del rabbino-capo di Venezia: con Benedetto XVI "stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa"! Perché si ha paura di mandare all'aria i negoziati per l'attuazione degli accordi del 1993 (!) con lo Stato di Israele? Beh, allora significherebbe che le questioni di bottega sono piú importanti della verità e della giustizia. Se cosí fosse, sarebbe molto triste e la Chiesa dovrebbe prepararsi, ancora una volta, ad affrontare, ahimè, il giudizio della storia. Già, la storia... Mi sembra impossibile che proprio nel momento in cui la Chiesa si trova costretta a difendere uno dei suoi Papi (di cui, per altro, resta indiscussa la santità) dall'accusa di silenzio, stia commettendo esattamente l'errore che le viene addebitato. Che differenza fra l'atteggiamento risoluto di Pio XI e quello eccessivamente diplomatico di Pio XII! Pio XI non esitò a lasciare l'Urbe all'arrivo di Hitler; ebbe il coraggio di scrivere due encicliche contro Nazismo e Comunismo. Se vogliamo seguire quell'esempio, oggi come minimo si dovrebbe annunciare l'accantonamento di qualsiasi ipotesi di viaggio del Santo Padre in Terra Santa (a che pro? per stringere mani grondanti di sangue?). Ma non escluderei interventi ancor piú decisi, tipo — perché no? — il richiamo del Nunzio e una enciclica sul Sionismo, ideologia non meno perniciosa di Nazismo e Comunismo. Sto sognando? Forse; ma mi sembra che in una situazione del genere non si possa tacere. Non c'è ragion di stato che tenga. Finora l'unico che abbia avuto il coraggio di alzare sommessamente la voce è stato il povero Card. Martino. E la Segreteria di Stato? Completamente latitante. Non bisogna aver paura della verità; non c'è nulla da perdere. Prima o poi essa verrà a galla; ma a quel punto diventerà molto difficile trovare scusanti. Non si potrà dire: "Non sapevamo", quando la realtà è sotto gli occhi di tutti. Prego perché il Signore illumini e dia coraggio al Santo Padre e ai suoi collaboratori.
Un cordiale saluto".

Fin qui la mia lettera al P. Cervellera, dove appunto mi lamentavo del silenzio vaticano sulla vicenda di Gaza. Come mai allora, con una shoah in corso, nessun intervento, nessuna riflessione teologica? E ora non passa giorno senza un intervento sulla memoria dell'Olocausto?

venerdì 30 gennaio 2009

Il Concilio, la scomunica e l'Olocausto

Alcuni mesi fa, precisamente nel giugno 2008, avevo sentito il bisogno di scrivere alcune riflessioni sul Concilio Vaticano II e le avevo inviate a un paio di siti web, solitamente attenti a tale tipo di problematiche, nella speranza di vederle pubblicate. Ma in un caso fui completamente ignorato; nel secondo caso ricevetti solo un gentile riscontro. OK, pensai, forse le mie riflessioni non interessano a nessuno. Devi pur essere pronto ad accettare che il mondo è piú grande di te e che quello che tu pensi non sia poi cosí importante.
Ma quelle riflessioni mi sono tornate in mente in questi giorni, dopo la revoca della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani, con tutte le polemiche che tale remissione e soprattutto le dichiarazioni negazioniste del vescovo Williamson hanno comportato.

Permettetemi perciò di pubblicare oggi quelle riflessioni. Se avrete la pazienza di leggerle, alla fine capirete perché.


CONCILIO E “SPIRITO DEL CONCILIO”

A oltre quarant’anni dalla conclusione del Vaticano II (8 dicembre 1965), e soprattutto dopo l’ormai famoso discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana (22 dicembre 2005) e il motu proprio “Summorum Pontificum” (7 luglio 2007), mi sembra che possa considerarsi non solo legittimo, ma in certa misura doveroso procedere a un ripensamento del Concilio. Naturalmente, le seguenti note non hanno alcuna pretesa di definitività; esse vogliono essere solo una riflessione ad alta voce, aperta a qualsiasi ulteriore contributo. La riflessione sarà caratterizzata da estrema franchezza, ma allo stesso tempo da profondo attaccamento alla Chiesa. Per esigenze di chiarezza, dividerò la trattazione in quattro punti: opportunità, valore, interpretazione e “spirito” del Concilio.

L’opportunità del Concilio

Fino a qualche tempo fa ero fermamente convinto dell’utilità del Concilio. Nonostante gli innegabili abusi, dicevo: “Ce n’era bisogno”. La mia convinzione si basava sull’esperienza — diretta (per quel che può valere l’esperienza di un bambino) e indiretta (attraverso gli studi e le testimonianze di quelli un po’ piú vecchi di me) — della Chiesa pre-conciliare. Oggi direi piuttosto: “C’era bisogno di un profondo rinnovamento della Chiesa”. Il fatto è che di tale rinnovamento c’è ancora bisogno. Ciò significa che l’auspicato rinnovamento non c’è stato. Dunque, il Concilio ha fallito il suo obiettivo. Il Concilio, è vero, ha promosso tutta una serie di riforme: talvolta, a seconda dei casi, utili, opportune o necessarie; talaltra inutili, se non addirittura dannose (si pensi alla burocratizzazione della Chiesa con l’istituzione dei vari sinodi, consigli pastorali, commissioni, e quant'altro). Ma tali riforme strutturali non hanno prodotto ipso facto il rinnovamento della Chiesa, che rimane un fatto eminentemente spirituale ed esclusivamente dipendente dalla grazia dello Spirito Santo e dalla nostra personale conversione. È stata una pia illusione pensare che bastasse un concilio per rinnovare la Chiesa. Anzi, sembrerebbe che gli effetti del Concilio siano stati opposti a quelli sperati: la riforma liturgica ha rese deserte le chiese; il rinnovamento della catechesi ha diffuso l’ignoranza religiosa; la revisione della formazione sacerdotale ha svuotato i seminari; l’aggiornamento della vita religiosa sta mettendo a rischio l’esistenza di molti istituti; l’apertura della Chiesa al mondo, nonché favorire la conversione del mondo, ha significato la mondanizzazione della Chiesa stessa. È vero che dobbiamo guardare a queste cose con un certo distacco e con senso storico: la Chiesa ha affrontato nel passato ben altre difficoltà e le ha sempre felicemente superate. Per cui, se crediamo, non c’è da preoccuparsi piú di tanto. Ma un fatto è certo: aspettavamo la “nuova Pentecoste”, ed è arrivata la settimana santa; aspettavamo la “primavera dello Spirito”, e sono arrivate le nebbie dell’autunno.

Dirò di piú. Solitamente si guarda al Concilio (sia da parte tradizionalista, sia da parte progressista) come a un fungo spuntato durante la notte. Dimenticandosi che esso si situa sulla scia di un cammino di riforma della Chiesa in corso già da alcuni decenni: pensiamo al movimento liturgico, al rinnovamento degli studi biblici, al movimento ecumenico, ecc., che erano già in corso da lunga data. I Papi solitamente piú ammirati dai conservatori (Pio X e Pio XII) sono stati tra i maggiori esponenti di tali movimenti. Tanto per fare un esempio, la riforma liturgica non è incominciata con il Vaticano II, ma era già in corso da svariati anni. Pio XII aveva dato un notevole contributo a tale riforma (si pensi alla revisione dei riti della settimana santa). Certo, essa era appena iniziata e avrebbe dovuto proseguire. Ma si rende inevitabile una domanda: era proprio necessario un concilio per continuare una riforma già egregiamente avviata, gradualmente attuata e, quel che piú conta, condivisa da tutti? Mi sembra assai significativo che nessuno tra i tradizionalisti abbia mai avuto nulla da eccepire sul Messale riformato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962, che pure si differenzia da quello promulgato da San Pio V. Lo stesso discorso potrebbe farsi sulla rivalutazione della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa o sulla promozione del dialogo ecumenico. Dunque, c’era proprio bisogno di un concilio? Le stesse riforme promosse dal Vaticano II non avrebbero potuto essere attuate (forse meglio, perché condotte con piú prudenza e tenute sotto maggiore controllo) dalla Sede Apostolica, come era avvenuto fino a quel momento? Non posso ancora dare una risposta definitiva a tali domande; ma, da quel che ho detto finora, appare evidente la mia propensione per una risposta negativa alla prima domanda e affermativa alla seconda.

Mi rimane solo una perplessità. Forse era opportuno, se non addirittura necessario, convocare un concilio per continuare il lavoro iniziato dal Vaticano I. Non dimentichiamo che tale Concilio era stato interrotto; in piú occasioni si era pensato di riprenderlo, senza poi farne nulla. A quanto pare, Pio XII lasciò il progetto nel cassetto, perché si rendeva conto di quel che sarebbe potuto accadere alla Chiesa convocando un concilio. Ci volle la santa incoscienza di Giovanni XXIII per riprendere quel progetto e darvi attuazione (anche se poi, non so per quale motivo, egli preferí convocare un nuovo concilio, il Vaticano II appunto, piuttosto che riprendere il Vaticano I). In ogni caso, era evidente a chiunque che l’opera del Vaticano I era rimasta incompiuta: la sua “Costituzione dogmatica prima sulla Chiesa di Cristo” Pastor æternus aveva trattato del primato e dell’infallibilità del Romano Pontefice, ma non aveva avuto tempo (forse provvidenzialmente) di considerare gli altri aspetti del mistero della Sposa di Cristo. Anche in questo caso la riflessione sulla Chiesa era continuata nei decenni successivi (si veda l’enciclica Mystici Corporis di Pio XII) e sfociò nel Vaticano II, che cercò di dare una visione piú completa ed equilibrata della Chiesa rispetto a quella forzatamente sbilanciata del precedente Concilio. Giustamente Paolo VI, nel suo discorso del 21 novembre 1964 (quello in cui proclamò Maria “Madre della Chiesa”), ebbe a dire che con la promulgazione della Lumen gentium era stata « compiuta l’opera del Concilio Ecumenico Vaticano I ». Va detto peraltro che tale opera non può ancora dirsi del tutto esaurita: dopo il Vaticano II la riflessione sulla Chiesa è continuata, dando ulteriori apprezzabili frutti. Si pensi alla cosiddetta “ecclesiologia di comunione”, che può realmente costituire un ripensamento radicale della teologia sulla Chiesa, che permette a tutti gli aspetti (anche a quelli apparentemente contrapposti come collegialità e primato, Chiese particolari e Chiesa universale) di trovare il loro posto.

Il valore del Concilio

Veniamo al secondo aspetto, quello del valore del Concilio. Il Vaticano II è stato convocato e si è autocompreso come un “concilio pastorale”. Che io sappia, era la prima volta nella storia della Chiesa che veniva convocato un concilio pastorale. Al massimo si erano avuti dei concili disciplinari, guarda caso tutti clamorosamente falliti (come avvenne per il Concilio Lateranense V, che solo pochi anni prima del Concilio di Trento aveva tentato invano di riformare la Chiesa del tempo); ma concili pastorali, mai. Solitamente i concili venivano convocati per definire la dottrina in cui credere; questa volta invece ciò veniva escluso ex professo: « Lo scopo principale di questo Concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa ... Per questo non occorreva un Concilio ... È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo ... Si dovrà ricorrere a un modo di presentare le cose che piú corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale » (Giovanni XIII, Discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). Dunque, il problema non era definire la dottrina (in quanto già definita), ma trovare un modo nuovo di presentarla. Obiettivo piú che legittimo per la Chiesa, che ha non solo il compito di definire e custodire la verità, ma anche quello di diffonderla. Ma si potrebbe obiettare ancora una volta, usando le stesse parole del Pontefice: Per questo occorreva un concilio? Non ci si rendeva conto che, non trattandosi di questioni dottrinali, ma solo di strategie pastorali, si correva il rischio di fare uno sforzo immane, destinato a essere presto superato dall’evolversi degli eventi? Non ci si rendeva conto che, cosí facendo, si dava a quel Concilio un carattere assolutamente contingente, legato alla transitorietà di quel momento storico? Non è chi non veda che il mondo di oggi è totalmente diverso da quello di quaranta anni fa. Possiamo considerare ancora attuale nel mondo d’oggi, segnato dal disincanto se non dal pessimismo e dalla disperazione, la Costituzione Gaudium et spes col suo ingenuo ottimismo?

Anche qui, però, una perplessità. Una perplessità che scaturisce da un’osservazione sulla Chiesa d’oggi. Se facciamo un raffronto tra le diverse Chiese locali, ci accorgiamo che il Concilio è stato applicato in esse in maniera alquanto differenziata. Ebbene, in quesi paesi dove piú che il Concilio è stato applicato (vedremo piú avanti la distinzione) lo “spirito del Concilio” (si pensi alla Francia o all’Olanda), il risultato è stato... il deserto. La situazione però non può dirsi migliore in quei paesi, come la Polonia o l’Irlanda, dove il Concilio è stato attuato senza molta convinzione e solo in maniera formale. Solo in quei paesi, come l’Italia, dove, pur fra mille limiti e contraddizioni, ci si è sforzati di promuovere il rinnovamento pastorale voluto dal Concilio, la Chiesa continua a registrare una certa vitalità. Dunque, forse non è stato del tutto inutile un concilio pastorale.

L’interpretazione del Concilio

Mi sembra particolarmente importante definire con chiarezza il valore del Concilio, perché da esso dipende la sua corretta interpretazione. Opportuno o inopportuno che fosse, il Concilio c’è stato. È un dato di fatto. Se anche fosse stato un errore, mi sembra abbastanza impensabile che oggi lo si possa ignorare o addirittura, come qualche tradizionalista vorrebbe, abrogare. Non resta che interpretarlo correttamente. È la posizione assunta dal Papa Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, a pochi mesi dalla sua elezione, in occasione del 40° anniversario della conclusione del Vaticano II. La posizione del Papa è chiara: una “ermeneutica della riforma” in contrapposizione a una “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. Il Concilio va interpretato alla luce della ininterrotta tradizione della Chiesa. Nulla da eccepire su questo. Semmai andrebbero indicati alcuni ulteriori criteri ermeneutici.

Primo fra tutti, appunto, la considerazione del carattere specifico del Concilio: se vogliamo interpretare correttamente il Vaticano II, dobbiamo sempre ricordare che si tratta, come dicevamo, di un concilio pastorale: questo significa che esso ha un carattere contingente, legato alle condizioni della Chiesa e del mondo del tempo in cui esso si è svolto. Non possiamo assolutizzare il Vaticano II. E invece questo è esattamente ciò che è successo: quello che era voluto essere, ed effettivamente era stato, un concilio pastorale (e quindi con tutti i limiti che ciò comportava), a un certo punto è diventato piú vincolante di un concilio dogmatico. Si potevano mettere in discussione tutti i dogmi della fede cattolica, ma guai a mettere in discussione il Vaticano II. Un esempio di questo assurdo: la riconciliazione coi lefevriani a tutt’oggi viene dai piú subordinata a un’accettazione incondizionata del Concilio. Ma non ci si rende conto dell’assurdità? Nel dialogo ecumenico ci si sforza giustamente di individuare l’essenziale su cui tutti possiamo ritrovarci d’accordo (in necessariis unitas), trascurando le diversità accidentali (in dubiis libertas); all’interno della Chiesa cattolica ciò che ci unisce non sarebbe piú la stessa fede, ma l’accettazione di un Concilio autodefinitosi pastorale!

Secondo criterio: il Concilio ha emanato svariati documenti, non tutti con il medesimo valore: ci sono quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni. Non sarebbe corretto mettere sullo stesso piano una dichiarazione e una costituzione. Le stesse costituzioni non hanno tutte lo stesso valore: una, quella sulla liturgia, non è definita da alcun aggettivo; due, quella sulla Chiesa e quella sulla divina rivelazione, si dichiarano “dogmatiche” (sebbene non definiscano alcun nuovo dogma); l’ultima, la Gaudium et spes, si presenta come una costituzione “pastorale”. Credo sia importante fare ricorso a tale criterio ermeneutico, perché di fatto le principali contestazioni di parte tradizionalista al Concilio vertono, guarda caso, su dichiarazioni, non su costituzioni dogmatiche: ciò che i lefevriani maggiormente criticano del Concilio è la libertà religiosa (Dichiarazione Dignitatis humanæ) e il rapporto con le religioni non-cristiane (Dichiarazione Nostra ætate). Mi sembra che, sulla base dei criteri ermeneutici su esposti, sia piú che legittimo mantenere su tali argomenti posizioni differenziate.

Lo “spirito del Concilio”

Un ultimo punto. Quando si interpreta un testo, uno dei criteri ermeneutici fondamentali è quello di stabilire l’intenzione dell’autore; se il testo è giuridico, si ricerca la mens del legislatore (cf can. 17 CJC). Non hanno allora ragione i progressisti (fra loro, in primis, la cosiddetta “Scuola di Bologna”), a far riferimento allo “spirito del Concilio”, che si situerebbe al di là della lettera dei suoi documenti e di cui loro stessi sarebbero i depositari? Se devo essere sincero, sono giunto alla conclusione che i “dossettiani” (chiamiamoli pure cosí per comodità, senza con ciò voler esprimere alcun giudizio su Don Giuseppe Dossetti) non hanno tutti i torti ad appellarsi allo “spirito del Concilio”. Voglio dire: quello “spirito” non è una loro fantasia; quello era veramente lo spirito di buona parte dei padri conciliari; non saprei dire se della maggioranza o solo di un’agguerrita minoranza (oggi diremmo: una potente lobby). A leggere le cronache del Concilio, c’è da rimanere allibiti (molto interessante in proposito può risultare la lettura, sul sito Una vox, del resoconto “Il Concilio giorno per giorno”). Ricordo che Mons. Ettore Cunial una volta ci confidò di non aver mai sentito nella sua vita tante eresie come durante il Concilio: se non ci fosse stata l’assistenza dello Spirito Santo e se avessero prevalso quelle posizioni, si sarebbe distrutta la Chiesa in pochi giorni. Ma, per l’appunto, c’era lo Spirito Santo (Dio sa scrivere diritto sulle righe storte) e, aggiungiamo pure, c’era anche il buon Paolo VI, che tenne in pugno la situazione e seppe guidare il Concilio alla sua conclusione. Anche considerando le cose da un punto di vista puramente umano, le discussioni tra i diversi gruppi presenti in Concilio portò a onorevoli compromessi, che trovarono espressione nei documenti conciliari, equilibrati e fondamentalmente condivisi da tutti (a quanto mi risulta, anche Mons. Lefebvre firmò tutti i documenti, compresa la Dignitatis humanæ). Ma proprio perché frutto di umani compromessi, i dossettiani hanno continuato ad appellarsi allo “spirito del Concilio” (vale a dire allo spirito della lobby progressista del Concilio) come all’unica legittima chiave di lettura del Concilio. Dal loro punto di vista, non hanno tutti i torti: i documenti conciliari sono frutto di un compromesso; essi non riflettono lo spirito di chi aveva voluto il Concilio e avrebbe voluto un ben diverso esito di esso. Il problema è: siamo sicuri che quello “spirito” coincida con lo Spirito di Dio? Siamo proprio sicuri che lo Spirito Santo si sia espresso attraverso lo “spirito del Concilio” e non piuttosto attraverso la lettera dei documenti conciliari, quella lettera frutto di umani compromessi?

Il problema è tanto piú grave, in quanto quella mentalità (lo “spirito del Concilio” identificato con l’intentio auctoris o mens del legislatore) non era diffusa solo fra i circoli progressisti della Chiesa, ma influenzò in certa misura la stessa attuazione del Concilio da parte delle supreme gerarchie. Faccio un esempio tratto dalla riforma liturgica. Il Concilio aveva previsto la conservazione dell’uso della lingua latina nella liturgia in genere (Sacrosanctum Concilium, n. 36), nella celebrazione della Messa (ibid., n. 54) e nella recita dell’ufficio divino (ibid., n. 101). Ebbene, non è stato qualche prete ribelle a disattendere tali norme, ma è stato lo stesso Sommo Pontefice ad autorizzare la traduzione integrale della liturgia nelle lingue volgari (con conseguente, inevitabile abbandono della lingua latina). Perché questo? Perché, sebbene contro la lettera del Concilio, ciò sembrava corrispondere alla sua mens.

È questo che ha rovinato la Chiesa. La colpa della crisi della Chiesa non può essere addebitata al Concilio in quanto tale, o per lo meno ai documenti che ne sono scaturiti, e neppure alla mancata attuazione di esso da parte di qualche irriducibile contestatore, ma alla diffusione a tutti i livelli di quello che si credeva essere il vero “spirito del Concilio”, ma era in realtà, per usare l’immagine di Paolo VI, il “fumo di Satana” che si stava insinuando nella Chiesa. Con questo non si vuole criminalizzare nessuno, tanto meno il povero Paolo VI, che fece di tutto per opporsi alle interpretazioni estremistiche del Concilio. Ma purtroppo il clima era quello; tutti ne furono in qualche modo contagiati e, magari in buona fede, furono portati a discostarsi dalla lettera del Concilio. Lo “spirito del Concilio” è stato come un veleno che ha ammorbato la Chiesa in tutte le sue fibre. Se ora vogliamo risanare la Chiesa, non dobbiamo annullare il Concilio, ma liberarla dal preteso “spirito del Concilio”. Quale l’antidoto? Tornare alla lettera del Concilio, nella quale si esprime il vero spirito del Concilio, che è poi lo spirito dell’ininterrotta tradizione della Chiesa.

Questo può comportare, se necessario, anche la revisione di alcune riforme, laddove queste si siano discostate dalla volontà esplicita del Concilio. Si parla con sempre maggiore insistenza di una “riforma della riforma” liturgica. Perché no? L’attuale soluzione (la coesistenza di due forme del medesimo rito) può essere accettata solo come soluzione transitoria, ma non può certo essere considerata la soluzione ideale e definitiva. Si rende sempre piú necessaria quella reciproca interazione dei due usi liturgici, prevista dal Santo Padre nella lettera ai Vescovi accompagnatoria del motu proprio: «
Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi ... Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è stato finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso ». Ancor piú esplicita si rivela la lettera del 23 giugno 2003 dell’allora Card. Ratzinger al Dott. Heinz-Lothar Barth: « Credo che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso con più scelta di prima, ma non troppa, una “oratio fidelium”, cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione ». Piú o meno quanto aveva previsto il Concilio.

Pertanto, per quanto sia legittimo discutere sul Concilio, dobbiamo ammettere che, se si vuole trovare un punto di equilibrio tra le diverse anime della Chiesa, probabilmente quel punto non lo si troverà se non nella lettera del Concilio stesso, frutto degli sforzi dei padri conciliari, della sapiente mediazione di Paolo VI e, soprattutto, dell’assistenza dello Spirito Santo.



Fin qui le mie riflessioni del giugno scorso. Orbene questa mattina, aprendo la mia posta elettronica, leggo sull'agenzia ZENIT la dichiarazione dei Vescovi tedeschi sulla vicenda della remissione della scomunica ai Vescovi lefebvriani: "Esprimiamo la chiara e grande aspettativa e la richiesta urgente che nel corso dei colloqui, i quattro Vescovi e la Fraternità di S. Pio X manifestino in modo inequivocabile e credibile la loro fedeltà al Concilio Vaticano II e in particolare alla dichiarazione Nostra Aetate, le cui istanze vennero fatte proprie da Papa Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato in maniera insistente e con risultati benefici". Come volevasi dimostrare! Ciò che ci rende cattolici non è l'accettazione dello stesso Credo, ma la "fedeltà al Concilio Vaticano II e in particolare alla dichiarazione Nostra Aetate". Non solo tale dichiarazione conferma le preoccupazioni da me espresse sei mesi fa, ma mi fa venire un altro cattivo pensiero: sta' a vedere che ora, per essere riammessi alla comunione (e forse, chissà, anche per rimanere in comunione) con la Chiesa cattolica, sarà necessaria un professione di fede nell'Olocausto...