Ricorreva l’altro giorno il terzo anniversario dell’entrata in vigore delle norme emanate col motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. Negli ultimi tempi ci sono stati diversi interventi, divergenti fra loro, su una corretta interpretazione del suddetto motu proprio.
In agosto è stata diffusa la prefazione di Mons. Raymond Leo Burke a un commento al Summorum Pontificum scritto da Gero P. Weishaupt (Päpstliche Weichenstellungen. Das Motu Proprio Summorum Pontificum Papst Benedikts XVI. und der Begleitbrief an die Bischöfe. Ein kirchenrechtlicher Kommentar und Überlegungen zu einer “Reform der Reform”, Verlag für Kultur und Wissenschaft, 2010). Chi legge il tedesco può trovare il testo completo della prefazione sul sito Summorum Pontificum; gli altri dovranno accontentarsi di un breve resoconto in italiano sul quotidiano on line Petrus.
A parte la questione delle chierichette o dei ministri straordinari della comunione, quel che ora ci interessa è l’interpretazione che il Prefetto della Segnatura Apostolica dà del motu proprio: esso è un “atto di legislazione universale”, che “riguarda tutta la Chiesa in tutto il mondo”. Citiamo da Petrus:
«Non si tratta, quindi, di un “favore fatto a un qualsiasi individuo o gruppo”, ma di una legge finalizzata “alla salvaguardia e promozione della vita di tutto il corpo mistico di Cristo e alla massima espressione di questa vita, cioè la liturgia sacra”. Dunque, il motu proprio del Papa non va letto come una concessione o, peggio, un favore, fatto ai gruppi ultratradizionalisti come quello dei lefebvriani, ma anzi l’atto di governo con cui il Santo Padre si rivolge alla Chiesa nel suo complesso. L’intera comunità della Chiesa, sostiene il Prefetto della Segnatura Apostolica, ha “l’obbligo di preservare la tradizione liturgica e di mantenere la legittima celebrazione di entrambe le forme del rito romano”, quello precedente al Concilio Vaticano II e quello successivo all’assise conciliare».
Nello stesso mese di agosto, il mensile dei Paolini Jesus ha dato un’interpretazione alquanto diversa del Summorum Pontificum, mettendo in rapporto il motu proprio con il movimento lefebvriano. In tal modo, Jesus sembrerebbe restringere la portata del documento, dandogli come unica finalità di tentare una riconciliazione con la FSSPX.
Giorni fa anche Padre Matias Augé nel suo blog è entrato nel dibattito, facendo notare che il motu proprio è stato emanato per venire incontro a quei fedeli che si sentono legati alla liturgia tradizionale e opponendosi all’interpretazione “massimalista” data dai gruppi tradizionalisti.
È ovvio che ciascuno cerchi di portare l’acqua al proprio mulino; ma chi è che ha ragione: Mons. Burke, Jesus o Padre Augé? Probabilmente un po’ di ragione ce l’hanno tutti e tre. Mi sono andato a rileggere sia il motu proprio, sia la lettera ai Vescovi che l’accompagnava, e mi sono accorto che tutte e tre le diverse posizioni trovano un fondamento in quanto scrive il Papa.
Ha perfettamente ragione Padre Augé a scrivere che il motu proprio è stato emanato per quei fedeli che si sentono legati alla liturgia tradizionale. Non se lo è inventato lui, ma è ciò che scrive Benedetto XVI nel Summorum Pontificum. Dopo aver fatto riferimento alle modifiche che furono apportate ai libri liturgici in seguito al Concilio Vaticano II, il Papa aggiunge:
«Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto cosí profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell’anno 1984 con lo speciale indulto “Quattuor abhinc annos”, emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell’anno 1962; nell’anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica “Ecclesia Dei”, data in forma di motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.
A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue…».
ll Summorum Pontificum dunque, pur differenziandosi profondamente dai precedenti interventi, si pone di fatto, per espressa indicazione di Benedetto XVI, sulla scia di quelli: esso vuole, con modalità diverse, venire incontro alle esigenze dei fedeli che “continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche”.
E dove ha tirato fuori Jesus la storia dei lefebvriani? Vi fa esplicito riferimento il Papa nella lettera inviata ai Vescovi contestualmente alla pubblicazione del Summorum Pontificum. A un certo punto il Santo Padre arriva addirittura al punto di dire che si tratta della “ragione positiva” che lo ha spinto a emanare il motu proprio:
«Sono giunto, cosí, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo motu proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente».
D’accordo, per quanto non si possano identificare tout court i lefebvriani con i fedeli semplicemente legati alla liturgia tradizionale, si tratta pur sempre di gruppi che condividono la medesima sensibilità. Il problema nasce quando Mons. Burke afferma che il Summorum Pontificum non è una concessione fatta a individui o gruppi, ma un atto di legislazione universale che in qualche modo coinvolge tutta la Chiesa. Dove fonda il Prefetto della Segnatura Apostolica questa sua opinione? La questione è tanto piú urgente in quanto qualcuno ha voluto vedere nelle parole di Mons. Burke, a causa della posizione che ricopre nella Curia Romana, una sorta di “interpretazione autentica” del motu proprio.
Beh, va precisato che al massimo si può parlare di una opinione autorevole, ma certo non di una interpretazione autentica, che non può venire dal Prefetto della Segnatura Apostolica, né, tanto meno, può essere affidata alla prefazione di un libro. In ogni caso, non si tratta di una opinione campata in aria.
È ovvio che i documenti pontifici, a meno che non siano espressamente diretti a individui o gruppi determinati, sono rivolti all’intera Chiesa. Questo allora significa che tutti i sacerdoti e fedeli devono diventare “biritualisti” (o, se si preferisce, visto che non si tratta di due riti distinti, “biformalisti”)? Non direi proprio. Le due forme del rito romano, pur essendo poste in diretta continuità fra di loro, non sono messe sullo stesso piano. Non mi sembra un caso che il rito uscito dalla riforma liturgica postconciliare venga indicato nel motu proprio con l’espressione “forma ordinaria”, mentre al rito precedente si attribuisca la qualifica di “forma straordinaria”. Se il Novus Ordo è la “forma ordinaria”, significa che esso continua a essere il rito comune, normale, normativo — “ordinario” appunto — per tutti i fedeli. L’usus antiquior, del quale è stata riconosciuta la piena legittimità, rimarrà pur sempre la “forma straordinaria” del Rito romano destinata ad alcuni; per cui non si potrà pretendere che esso si diffonda su un piano di perfetta parità in tutta la Chiesa (tanto per intenderci, non si può pretendere che in tutte le parrocchie si debba adottare il criterio del fifty-fifty: se ci sono due messe, una deve essere nella forma ordinaria, l’altra nella forma straordinaria, come pure alcuni autorevoli personaggi sembrerebbero aver suggerito).
Ma allora quale era l’intenzione profonda di Benedetto XVI nel liberalizzare l’uso dei libri liturgici precedenti alla riforma postconciliare? Al di là della doverosa attenzione alle legittime esigenze di alcuni gruppi (i fedeli legati alla tradizione e, in particolare, i lefebvriani), ho l’impressione che ci sia una motivazione piú profonda, di carattere “ideologico” (in senso buono): voler riaffermare la continuità fra le due forme della liturgia romana. Papa Ratzinger lo ribadisce esplicitamente nella lettera ai Vescovi:
«Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura».
Non sentite, in queste parole, l’eco del discorso del Pontefice alla Curia Romana del 22 dicembre 2005? Mi sembra di vedere, nel motu proprio Summorum Pontificum, l’applicazione liturgica del principio dell’“ermeneutica della riforma” o “del rinnovamento nella continuità” da Benedetto XVI usato in riferimento al Concilio Vaticano II. Liberalizzando l’uso del Messale del 1962, il Papa ha voluto riaffermare che tra la Messa di San Pio V e quella di Paolo VI non esiste contraddizione; che esse costituiscono fondamentalmente la stessa Messa, la “Messa di sempre” (come oggi è diventato di moda, fra i gruppi tradizionalisti, definire la Messa tridentina, in contrapposizione alla Messa postconciliare). È ovvio che non si possa negare una certa diversità esteriore fra le due Messe (anche nel discorso del 2005 Papa Ratzinger non escludeva una certa discontinuità fra la Chiesa pre- e post-conciliare); ma ciò non toglie la continuità di fondo fra le due forme dello stesso Rito romano.
Si tratta di un punto qualificante del magistero di Benedetto XVI, una specie di “scommessa”, su cui egli sta giocando il suo pontificato. Il Papa vuole fare entrare questa convinzione tra i fedeli: che non esiste un “prima” e un “dopo” il Concilio; che il Vaticano II non costituisce una rottura, un “nuovo inizio”, ma semplicemente una tappa importante nel cammino della Chiesa, che rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Ciò che vale per la Chiesa in generale, vale, in particolare, per la liturgia: la Messa che oggi celebriamo non è una “nuova Messa”, ma la “Messa di sempre”, che ha subito qualche adattamento (come del resto era già avvenuto infinite volte nel corso dei secoli).
Probabilmente, su un piano teorico, tutti si dichiareranno d’accordo col Papa. Ma a questa adesione astratta — dispiace dirlo — non sempre corrisponde un atteggiamento coerente. Alla faccia della continuità, c’è chi rifiuta la Messa tridentina come anticaglia del passato e chi rifiuta la Messa di Paolo VI come ereticheggiante. Ho l’impressione che, nonostante gli sforzi del Santo Padre, rimanga ancora raro quel sensus Ecclesiae, che va al di là degli atteggiamenti ideologici (questa volta, in senso negativo) di parte e ci fa amare la Chiesa cosí come essa realmente è e non come dovrebbe essere secondo i nostri schemi mentali.
Non che non rimangano ancora diversi (forse, molti) punti da chiarire (tanto per fare un esempio, la contraddizione fra quanto affermato dal Papa nel motu proprio a proposito di un “reciproco arricchimento” fra le due forme del Rito romano, e l’atteggiamento fin qui assunto della Commissione “Ecclesia Dei”, che esclude per principio qualsiasi intervento sul Messale del 1962). Ma ciò che importa è accogliere la “sfida” lanciata dal Santo Padre, che a tutti noi chiede di abbandonare le nostre certezze e di essere disponibili ad accettare le novità dello Spirito.