Il mio ultimo post sul caso Maciel ha provocato, come era prevedibile, qualche reazione di dissenso, non tanto sulla tesi centrale del discorso (preferibile sospendere qualsiasi giudizio sul Padre Maciel), quanto piuttosto sul modo di interpretare la metafora evangelica dell’albero e dei frutti.
Forse è opportuno tornare brevemente su tutta la questione. Vorrei chiarire, se ancora ce ne fosse bisogno, che non voglio e non posso (innanzi tutto perché non sono nessuno; in secondo luogo perché non ho gli elementi per esprimere un giudizio) assolvere Padre Maciel dagli addebiti che gli sono stati mossi. Non mi sembra giusto però, allo stato delle cose, emettere contro di lui una sentenza di condanna. Il motivo che ho portato («finora si è sempre parlato di “testimonianze” e mai di “prove”») è stato nei giorni scorsi corroborato da una riflessione di Vittorio Messori su La Bussola Quotidiana. Lo scrittore cattolico si lamentava di un servizio televisivo sulle sètte, interamente costruito su testimonianze di “ex” (tali sono tutte le testimonianze contro Maciel):
«Se sto alla mia esperienza di cronista, non di sociologo, poche cose sono fuorvianti come le accuse alla sua antica organizzazione da parte di chi è uscito sbattendo la porta. Ci sono addirittura degli “ex” di professione, sempre intervistati su qualunque giornale e tv … Sta di fatto che, nel mio lavoro di giornalista, non mi sono mai fidato né di questi né di altri pentiti: per esempio, dei gruppi, assai affollati, di ex-geovisti o ex-scientologisti. Prendo poco sul serio anche gli ex-comunisti e, in generale, ogni reduce deluso. Magari, con tutto il rispetto, anche qualche transfuga da seminari e conventi … Non occorre essere psicologi per comprendere il perché di una doverosa diffidenza: chi ha abbandonato una strada, magari una vocazione, un ideale, deve giustificarsi davanti a se stesso e al prossimo, ha bisogno di aumentare la responsabilità degli altri per diminuire la propria, per contrastare il senso di colpa che cova, magari nell’inconscio e che in qualche caso è devastante. Non mi azzardo oltre in questi intrighi emotivi. Volevo solo avvertire, sulla base della esperienza: qualunque realtà discussa contestata dobbiate giudicare, non fatelo prendendo sul serio sempre e solo le testimonianze, magari impressionanti, di chi se ne è andato».
Un esempio di tale tipo di testimonianze, di cui è bene diffidare, è quella di un ex-legionario che ci ha proposto in questi giorni Sandro Magister sul sito www.chiesa. Andate a cercare lo straccio di una prova nel lungo articolo di Padre Gill: naturalmente si danno per scontate tutte le accuse, quasi che non ci fosse bisogno di provare nulla. Qua e la però spuntano alcune presunte “prove” della colpevolezza di Padre Maciel:
«Maciel periodicamente spariva per settimane o per un mese senza che nessuno sollevasse domande … Era risaputo tra i superiori della Legione che egli di rado diceva la messa o recitava il breviario o partecipava ai ritiri …».
Con tutto il rispetto, se queste sono prove… Mentre alla fine dell’articolo viene fuori qualcosa di interessante: il contrasto culturale esistente fra la componente messicana della Legione e quella europea e nordamericana. Un contrasto che potrebbe spiegare molte cose…
Quanto alla questione della metafora dell’albero e dei frutti, ne riconosco tutta la problematicità. Mi è stato fatto notare che non è corretto applicare in maniera automatica il principio evangelico al fondatore di un istituto religioso; i “frutti buoni”, prima che frutti del fondatore, sarebbero frutti dei tanti buoni religiosi che compongono la congregazione. È vero. La TOB infatti spiega il passo di Matteo riferendo la metafora all’individuo:
«L’immagine del frutto … applicata alla situazione umana ha la sua importanza in Mt. Al singolare collettivo oppure al plurale, indica il comportamento concreto dell’uomo, sia nelle sue azioni che nelle sue parole, comportamento che permette di discernere o di riconoscere … l’autenticità dell’attività dei profeti» (ad Mt 7:16).
È altrettanto vero, come dicevo la volta scorsa, che Dio può servirsi di strumenti imperfetti per compiere la sua opera. È tutto vero. Però, secondo me, il problema rimane. È possibile che da un “falso profeta” derivi tanto bene? Non nego che nella Legione possano esserci diverse storture da raddrizzare (e per questo nel mio post riconoscevo l’opportunità della visita apostolica e del commissariamento); ma vorrei soffermarmi su un aspetto che costringe a riflettere. Mi riferisco al numero delle vocazioni che, contrariamente a qualsiasi attuale trend nella Chiesa, continua a caratterizzare la Legione. Checché ne dica Padre Gill, il 24 dicembre 2010 sono stati ordinati 61 (diconsi “sessantuno”!) nuovi sacerdoti (vedi qui). Come si può spiegare un tale fenomeno? Che cos’è che spinge tanti giovani ad aderire alla Legione e, dopo tutto quel che è successo, a rimanervi? Ci sarà pure un “sistema di potere” che controlla le coscienze; ma possibile che siano tutti plagiati? Come mai questi giovani non vengono nelle nostre congregazioni e nelle nostre diocesi, dove potrebbero respirare un’atmosfera di piena libertà e potrebbero incontrare tanti esempi di dirittura morale e di santità? Perché mai andare a rinchiudersi in un ambiente asfissiante e oppressivo e per di più passare per seguaci di uno stupratore? Scusate, ma non riesco a capire; c’è qualcosa che non torna. Potrei capire che ci fossero 61 ordinazioni quando Padre Maciel veniva osannato in Piazza San Pietro ed elogiato dal Papa; ma adesso, stando a quanto afferma Padre Gill, ci si aspetterebbe che solo una manciata di messicani si ostini a rimanere nella Legione. E invece i 61 neo-ordinati provengono da ogni parte del mondo: Germania (1), Brasile (4), Canada (3), Corea del Sud (1), Spagna (7), USA (7), Italia (6), Messico (28), Nuova Zelanda (1), Venezuela (2) e Vietnam (1). Mah… decisamente meglio sospendere qualsiasi giudizio.