venerdì 12 agosto 2016

Un progetto che ci precede



È stata recentemente pubblicata la costituzione apostolica Vultum Dei quaerere sulla vita contemplativa femminile, recante la data del 29 giugno 2016. Nella sua presentazione, avvenuta il 22 luglio scorso, è stata evidenziata la distanza temporale che la separa dalla precedente costituzione apostolica in materia, la Sponsa Christi di Pio XII, promulgata nel 1950 (66 anni fa!). Il Segretario della Congregazione per gli IVC e le SVA, il francescano Mons. José Rodríguez Carballo, nel presentare il documento, ha rilevato che le monache di clausura negli ultimi decenni erano state trascurate a livello legislativo, tanto da essere ancora sottoposte alle norme emanate da Pio XII, e che quindi la nuova costituzione apostolica veniva a colmare una “lacuna di cui si iniziavano a sentire sensibilmente le conseguenze”. Ciò che i mezzi di informazione hanno rilanciato a proposito di questo nuovo documento pontificio praticamente si riduce all’invito a non “reclutare candidate alla vita contemplativa da altri Paesi, al solo scopo di mantenere la sopravvivenza del monastero” (art. 3, § 6) e alla raccomandazione di fare un uso prudente dei mezzi di comunicazione (n. 34).

Se devo essere sincero, non avevo intenzione di leggere la nuova costituzione apostolica, dal momento che non mi riguarda direttamente; ma poi, non resistendo alla curiosità, me la sono letta non una, ma due volte. Sí, perché dopo averla letta una prima volta ed essere rimasto perplesso su alcuni passaggi, mi è venuta la voglia di conoscere quale fosse la normativa precedente; per cui mi sono andato a leggere la costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (21 novembre 1950), l’istruzione Venite seorsum del 15 agosto 1969 (sul sito della Santa Sede c’è solo il testo latino; per la traduzione italiana bisogna ricorrere all’Enchiridion Vaticanum) e l’istruzione Verbi Sponsa del 13 maggio 1999. Terminata la lettura di questi documenti, ho sentito il bisogno di tornare sulla Vultum Dei quaerere, per poter fare un confronto.

Il semplice elenco dei summenzionati testi dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che non è del tutto vero quanto affermato da Mons. Carballo nella conferenza di presentazione: non corrisponde a verità che le povere monache continuavano a osservare le norme del 1950, quasi che dopo il Concilio Vaticano II non ci fossero stati altri interventi legislativi. Già nel 1969 l’istruzione Venite seorsum (neppure citata nella nuova costituzione, tamquam non esset…) si proponeva di applicare le disposizioni del Concilio (e del motu proprio Ecclesiae Sanctae) alla clausura delle monache; nel 1999 poi (e quindi successivamente alla pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico e della esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata) era stata emanata una nuova istruzione, la Verbi Sponsa, che aveva adeguato le norme riguardanti la clausura al nuovo contesto. Per cui non c’è mai stato un vuoto legislativo: le monache avevano a disposizione il Codice di diritto canonico, le loro costituzioni e l’istruzione Verbi sponsa per sapere come comportarsi. Anzi, mi chiedo se proprio ci fosse bisogno di questo ulteriore intervento. Ma è una domanda destinata a rimanere senza risposta, dal momento che non conosco quale fosse la reale situazione dei monasteri di clausura. Le osservazioni che seguono, pertanto, si fondano esclusivamente sulla lettura dei testi, sul loro confronto e sulla mia personale esperienza di vita religiosa (ma non su una diretta conoscenza della vita claustrale che, ovviamente, mi manca).

La prima impressione che ho avuto nel leggere questi documenti è stata quella di trovarmi di fronte, nel caso dei primi tre (Sponsa Christi; Venite seorsum; Verbi Sponsa), a dei testi, diversi fra loro, ma tutti “robusti” dal punto di vista dottrinale e chiari e precisi sul piano normativo; nel caso della nuova costituzione invece, ho avuto l’impressione di avere a che fare con una specie di “pia esortazione”, che si mostra poi incerta e confusa in fase legislativa. Ciò che mi ha maggiormente colpito nel leggere la costituzione apostolica di Pio XII è stato il suo interessantissimo excursus storico; leggendo l’istruzione Venite seorsum (che per me rimane il testo migliore), sono rimasto impressionato dalla fondazione biblico-teologica della vita claustrale (basta scorrere le note per rendersi conto della ricchezza di riferimenti); l’istruzione Verbi Sponsa — la quale, dopo aver riaffermato “i fondamenti dottrinali della clausura proposti dall’Istruzione Venite seorsum”, si proponeva solo di aggiornare le norme della clausura papale (n. 2) — mi ha dato l’impressione di essere ancora pienamente attuale e non bisognosa di ulteriori revisioni.

Bisogna riconoscere che la nuova costituzione apostolica contiene numerosi elementi assenti nei documenti precedenti; e quindi potrebbe dare l’impressione di una maggiore completezza. Ma, se si analizza attentamente la natura di tali novità, ci si accorgerà che si tratta di elementi comuni a ogni forma di vita consacrata: essi erano già presenti nei numerosi documenti post-conciliari rivolti ai consacrati, fra i quali sono da annoverare anche le monache di clausura. L’obiettivo dei precedenti documenti era quello di considerare esclusivamente gli elementi specifici della vita contemplativa (la clausura, l’autonomia dei monasteri con la possibilità di federarsi fra loro, il lavoro e lo specifico apostolato). Gli elementi presi in esame da Vultum Dei quaerere sono dodici: formazione, preghiera, Parola di Dio, Eucaristia e Riconciliazione, vita fraterna in comunità, autonomia, federazioni, clausura, lavoro, silenzio, mezzi di comunicazione e ascesi. Va riconosciuto che era forse opportuno trattare alcune di queste tematiche, anche se poi il modo in cui lo si è fatto potrebbe non risultare sempre del tutto soddisfacente (come, p. es., a proposito dei mezzi di comunicazione).

Nella presentazione della vita claustrale (che però, come accennato, si confonde spesso con la semplice vita consacrata) si rilevano alcune sottolineature tipiche dell’attuale teologia della vita religiosa: ho notato un’insistenza (che personalmente trovo eccessiva, se messa in rapporto con altre prospettive che sono state o trascurate o del tutto ignorate) sulla sua dimensione profetica (nn. 2; 3; 4; 5; 6; 16; 23; 35; 36; art. 13); mentre ho percepito una specie di riluttanza a riconoscere l’oggettiva superiorità della vita claustrale (n. 4: «Le comunità di oranti, e in particolare quelle contemplative … non propongono una realizzazione piú perfetta del Vangelo ma, attuando le esigenze del Battesimo, costituiscono un’istanza di discernimento e convocazione a servizio di tutta la Chiesa»). Ho riscontrato una certa compiacenza a ripetere affermazioni oggi di moda:  «La vita monastica, elemento di unità con le altre confessioni cristiane» (n. 4), il che è vero solo per quanto riguarda i rapporti con l’Ortodossia; i monasteri considerati come “scuole di preghiera” (nn. 17; 21; 36) o la raccomandazione a condividere il frutto della meditazione sulla parola di Dio (n. 19; art. 5, § 2), cose difficilmente realizzabili, e in ogni caso discutibili, se si tiene conto della clausura. Non potevano mancare i ricorrenti slogan di Papa Francesco: le “periferie” (n. 6); l’“autoreferenzialità” (n. 29); la “mondanità” (n. 35); la “cultura dello scarto” (n. 36). Chiedo: è davvero necessario che, in qualsiasi contesto, debbano sempre venir fuori le medesime tematiche? Era proprio cosí importante raccomandare alle monache di clausura: «Abbiate cura di preservarvi “dalla malattia dell’autoreferenzialità”»? A parte il fatto che non so che cosa capiranno (io, personalmente, faccio fatica); ma, in fin dei conti, è un peccato tanto grave?

Nel documento si insiste molto — e giustamente — sulla formazione. Ma anche qui lo si fa concedendo molto alle tendenze del momento: si parla di “formazione permanente”, dentro la quale dovrebbe inserirsi la stessa formazione iniziale (art. 3, § 1); di “formazione delle formatrici” (art. 3, § 3); di partecipazione a “corsi di formazione” fuori del monastero (art. 3, § 4); di case comuni di formazione (art. 3, § 7). Cose che si fanno in tutti gli istituti, ma di cui si fa tuttora fatica a scorgere la reale utilità. 

Non saprei esprimere un giudizio sugli aspetti giuridici dell’autonomia e delle federazioni. Per chi, come me, appartiene a un Ordine religioso centralizzato non è facile capire quali siano i meccanismi giuridici che regolano la vita dei monasteri. Certo, meraviglia che ciò che finora era solo una possibilità sia ora diventato un obbligo. L’istruzione Verbi Sponsa affermava chiaramente: «La scelta di aderirvi o meno [alle federazioni] dipende dalla singola comunità, la cui libertà dev’essere rispettata» (n. 27); adesso viene disposto: «Inizialmente tutti i monasteri dovranno far parte di una federazione» (art. 9, § 1). Non so quale sia stato il motivo che ha portato a questo cambiamento; suppongo si tratti della situazione di molti monasteri che non riescono piú, per la scarsità delle monache e per la loro età avanzata, a essere completamente autonomi. Ma certo si tratta di una evoluzione che fa riflettere.

Nutro qualche perplessità a proposito della clausura. A parte il fatto che nel documento si parla di quattro forme (n. 31: «La clausura è stata codificata in quattro diverse forme e modalità [cf VC 59; can. 667]: oltre a quella comune a tutti gli Istituti religiosi, ve ne sono tre caratteristiche delle comunità di vita contemplativa, dette papale, costituzionale e monastica»), mentre, nella conferenza di presentazione, Mons. Carballo parla di tre («vengono ridefiniti i tre tipi di clausura già contemplati in certo modo da Vita consacrata 59, cioè clausura papale, costituzionale e monastica»), personalmente ritengo che non sia corretto parlare, a proposito delle monache di clausura, né di quattro né di tre forme di clausura: per loro esistono esclusivamente la “clausura papale” e la “clausura costituzionale”; il loro unico punto di riferimento è il § 3 del can. 667, dove appunto si parla di questi due tipi di clausura. E in quel paragrafo viene enunciato anche il criterio per l’adozione dell’uno o dell’altro tipo: 
«I monasteri femminili ordinati interamente alla vita contemplativa, devono osservare la clausura papale, ossia regolata dalle norme stabilite dalla Sede Apostolica. Gli altri monasteri femminili osservino la clausura rispondente alla propria indole e definita nelle costituzioni».
Mi sembra che il testo sia sufficientemente chiaro: i monasteri interamente dediti alla vita contemplativa devono (si noti, “devono”) osservare la clausura papale; gli altri (ossia quelli che, accanto alla vita contemplativa, legittimamente esercitano qualche attività apostolica) osserveranno la clausura costituzionale (cioè definita nelle loro costituzioni). Mi lascia pertanto assai perplesso la disposizione di Vultum Dei quaerere: 
«Ogni monastero, dopo un serio discernimento e rispettando la propria tradizione e quanto esigono le Costituzioni, chieda alla Santa Sede quale forma di clausura vuole abbracciare, qualora si richieda una forma diversa da quella vigente» (art. 10, § 1). 
Che significa “quale forma di clausura vuole abbracciare”? Il criterio non è la “volontà” soggettiva del monastero (ciò che in questo momento piace alle monache), ma la sua fisionomia oggettiva (se cioè il monastero è esclusivamente dedito alla contemplazione o se invece si dedica anche a qualche forma di apostolato). È ovvio che c’è sempre la possibilità di cambiare; ma si può cambiare solo perché cambia la fisionomia del monastero, non perché cambiano i gusti delle monache.

Questo mi sembra che sia il punto piú debole del documento, che d’altronde riflette una mentalità oggi piuttosto diffusa nella vita religiosa (e se ne possono constatare le conseguenze...): siamo noi che dobbiamo “inventare” la nostra vita religiosa, dimenticando che essa è innanzi tutto un dono che riceviamo e al quale dobbiamo semplicemente adeguarci. Tale mentalità si manifesta in un altro elemento ricorrente nella costituzione apostolica: l’adozione, anche per i monasteri di clausura, del “progetto comunitario” (art. 3, § 1; art. 6, § 1; art. 7, § 2; art. 13). A quanto mi risulta, finora i documenti della Santa Sede sulla vita religiosa non ne avevano mai parlato (ho trovato un fugace accenno solo ne La vita fraterna in comunità, n. 32); ma negli istituti religiosi è una pratica che ha avuto una larga diffusione negli ultimi decenni (penso che l’origine sia l’America Latina). Il progetto comunitario è stato presentato come uno strumento di rivitalizzazione delle comunità, praticamente come una panacea a tutti i mali della vita religiosa. Nella mia Congregazione fu adottato dal Capitolo generale del 1988 e poi si è trascinato fino a nostri giorni diventando una pratica burocratica come tante altre (il Superiore che all’inizio di ogni anno manda al Provinciale il progetto comunitario, riducendosi a fare uso del “copia e incolla”). Ma ciò che è sbagliato è la mentalità che c’è dietro: l’idea che ogni anno la comunità debba “reinventare” la propria vita religiosa, come se il vangelo, il diritto canonico e le costituzioni non bastassero. Ora si vuole che anche i monasteri di clausura si adeguino a una pratica di cui, sinceramente, finora non s’è visto alcun frutto nelle altre comunità religiose. Quand’è che riusciremo a liberarci dalle categorie della progettualità, della creatività, della fantasia, dell’invenzione (non sono forse altrettante forme di “autoreferenzialità”?), che hanno arrecato non pochi danni alla vita religiosa, e impareremo ad accogliere e a conformarci a un progetto che ci precede, un progetto che non è nostro, ma ci è stato dato da Dio, dalla Chiesa, dai nostri fondatori?
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