mercoledì 24 gennaio 2018

Un inganno durato cinquant’anni?



Nei giorni scorsi “Cesare Baronio” ha scritto sul suo sito Opportune importune una “Lettera ad un sacerdote. Considerazioni su un inganno durato cinquant’anni”. Io non so chi sia “Cesare Baronio”; da alcuni indizi mi par di capire che si tratti di un Monsignore (almeno, cosí tutti si rivolgono a lui) col quale potrei avere alcuni tratti in comune: bazzica Campo de’ Fiori (qui), in prossimità del quale sono nato e cresciuto (ho frequentato la scuola materna ed elementare in Via de’ Giubbonari); avendo scelto come pseudonimo il nome del celebre Cardinale oratoriano, potrebbe avere, come il sottoscritto, ascendenze sorane. Mi pare di poter cogliere dei riferimenti autobiografici nella descrizione del “vecchio monsignore brontolone” presente nella stessa lettera:
Eppure quel vecchio monsignore brontolone, sempre vestito in talare e col cappello romano in castorino, che vedevi scoprirsi il capo quando passava davanti alla tua chiesa, era stato mandato in pensione anzitempo, perché non voleva celebrare il Novus Ordo e criticava il Concilio. Lo avevano invitato ad andarsene in modo un po’ spicciativo, confinandolo in un ufficio polveroso e togliendogli la cura d’anime. Ma lui, come altri tradizionalisti, era un fanatico, uno che accusava la Chiesa di aver rinnegato se stessa e il proprio passato, di aver fatto propri gli errori degli eretici. Anche se, quando lo incontravi per via, ti salutava sempre, e una volta l’hai anche chiamato a confessare durante le missioni al popolo e non ti era parso poi cosí rigido.
In qualche modo, mi considero fra i destinatari della lettera. Il problema è che non è del tutto chiaro a chi essa sia indirizzata. Ho l’impressione che nella lettera vengano sovrapposte due generazioni, contigue, ma distinte: da una parte, essa si rivolge ai coetanei di Monsignore (formati prima del Concilio e che erano già sacerdoti quando hanno dovuto cominciare ad attuare le riforme volute dal Concilio); dall’altra, accenna in alcuni passaggi a chi, come me, il Concilio lo ha vissuto da bambino, ha fatto appena in tempo a servire la Messa antica, ha svolto tutta la sua formazione ed è divenuto sacerdote dopo il Concilio. 

A mio parere, la generazione a cui appartiene Baronio potrebbe essere divisa, grosso modo, in tre gruppi: quelli che, come il Card. Martini, si sentivano mancare il respiro nella Chiesa preconciliare e hanno considerato il Concilio come una liberazione; quelli che, come il nostro Monsignore, nella Chiesa preconciliare si sentivano pienamente a loro agio, non hanno mai capito perché si dovesse fare un Concilio, non lo hanno capito, non lo hanno accettato e continuano a considerarlo all’origine di tutti i mali della Chiesa; infine, e sono la maggioranza, quelli che il Concilio lo hanno “subíto” e, con diverso grado di convinzione (che va da una passiva obbedienza all’entusiasmo), lo hanno accettato e si sono sforzati, bene o male, di attuarlo. Mi sembra che la lettera di Baronio sia indirizzata in primo luogo a questi ultimi.

La mia generazione si trova in una situazione diversa. Anche se probabilmente solo pochi anni ci separano dalla generazione precedente, il nostro rapporto col Concilio è differente. Quando questo si è svolto, noi eravamo bambini; quando siamo entrati in seminario, il Concilio si era concluso da una decina d’anni; tutta la nostra formazione si è svolta alla luce di esso. Potremmo dire che il Concilio lo abbiamo assimilato con il latte materno (il “latte” di Santa Madre Chiesa). Noi il Concilio non lo abbiamo subíto; per noi era un dato scontato. Sembrerebbero rivolte a noi alcune delle espressioni iniziali della lettera di Baronio: «Tu, come tanti altri sacerdoti, sei stato formato alla scuola del Vaticano II, hai imparato a celebrarne i riti, ne hai studiato i documenti. Quel Concilio ti ha plasmato». Per noi il Concilio non era oggetto di disputa (a favore o contro); era l’aria che respiravamo. Ma, proprio perché estranei alle opposte tifoserie dei nostri predecessori, potevamo guardare al Concilio e alla sua attuazione, ancora in corso, con un certo distacco, liberi di individuarne anche i limiti e, soprattutto, le interpretazioni e le applicazioni piú discutibili. Ovviamente anche all’interno della mia generazione c’erano e continuano a esserci diverse sensibilità e orientamenti; ma l’atteggiamento di fondo di fronte al Concilio credo che sia per la stragrande maggioranza di noi piú o meno lo stesso.

Monsignore, nella sua lettera, fa una carrellata di questi cinquant’anni, descrivendo in maniera dettagliata la progressività delle riforme, soprattutto negli anni immediatamente successivi al Concilio. Siccome quegli anni me li ricordo bene, mi sembra che la narrazione di Baronio corrisponda esattamente alla realtà. Assai piú sommario e approssimativo appare il racconto degli anni piú recenti, soprattutto quelli del lungo pontificato di Giovanni Paolo II, forse per arrivare velocemente a Benedetto XVI (“una parentesi”) e all’attuale pontificato. Con quale intento? Quello di dimostrare che quanto sta accadendo oggi nella Chiesa non è in contrasto con ciò che era avvenuto finora, ma va letto come la logica conclusione di un processo iniziato cinquant’anni fa. Si rilegga il titolo dell’articolo: “Un inganno durato cinquant’anni”. Eh sí, perché questo è il succo della lettera: tutto era stato scritto cinquant’anni fa; ciò che sta avvenendo ai nostri giorni era stato programmato ed è stato realizzato gradualmente. Leggere per credere:
Quello che ti hanno fatto, quello hanno fatto a ciascuno di noi, è stato farti credere, a piccoli passi, che non cambiasse nulla, anche se nei fatti stava cambiando tutto. E non solo le cose superficiali, ma anche la stessa dottrina, la morale, la liturgia, la spiritualità. Una truffa colossale, nella quale sono caduti non solo i fedeli ed il basso Clero, ma anche molti Vescovi e tanti Cardinali. Un inganno tremendo, condotto con un’astuzia luciferina. […]
Ma se ammetti di esserti lasciato ingannare; se riconosci di aver prestato fede ed obbedienza a qualcuno che in cuor suo aveva ben chiari gli obiettivi da raggiungere; se inizi a capire di esser stato usato per dare una parvenza di rispettabilità a chi in seno alla Chiesa tramava per demolirla, non puoi fingere che l’apostasia presente sia nata dal nulla, e che gli equivoci deliberatamente insinuati nei testi del Concilio non fossero finalizzati al raggiungimento di scopi che, se annunciati apertamente allora, avrebbero suscitato una ribellione di tutti i sacerdoti, ed anche da parte tua. 
Personalmente, sono convinto che ci fosse un piano di demolizione della Chiesa; ma tale piano non è stato formulato in Concilio; è ad esso precedente. Il Concilio faceva certamente parte di quel piano, ma non è andato come previsto; come non sono andati secondo programma i cinquant’anni successivi al Concilio. Non per nulla, le forze della dissoluzione hanno continuato a tramare in questi cinquant’anni, finché non sono riuscite a conquistare il potere. Sarà un caso che il loro obiettivo ora è lo smantellamento di tutto ciò che era stato a fatica ricostruito dopo la demolizione generalizzata dell’immediato post-concilio?

Monsignore è convinto che all’origine dell’attuale situazione ci sia il Concilio e che questa sia la prova irrefutabile di quanto solo pochi avevano capito fin da principio («Quello che è avvenuto in questi cinquant’anni non poteva essere compreso da tutti»), che cioè il Concilio era intrinsecamente cattivo:
Se quel Concilio fosse buono, non avrebbe avuto sorte diversa di quella ch’è stata riservata agli altri Concilj che l’hanno preceduto, non credi? Se quel Concilio fosse buono, non darebbe adito ad equivoci, non legittimerebbe quanti — citandolo — legittimano le peggiori deviazioni dottrinali e morali. Se quel Concilio fosse buono, conterrebbe come gli altri la condanna degli errori che si oppongono al suo insegnamento. E, ad essere onesti fino in fondo: se quel Concilio fosse buono, non sarebbe stato la causa della crisi della Chiesa, della defezione del Clero, dell’immoralità nei Seminarj e negli Atenei, dell’abbandono delle vocazioni, del decremento della frequenza dei Sacramenti, della perdita della Fede nel popolo.
D’altra parte, chi l’ha fatto, quel Concilio? Eruditi teologi, o piuttosto eretici già condannati dal Sant’Ufficio? Dotti moralisti, o personaggi dalla condotta quantomeno discutibile, e dalle idee rivoluzionarie? Esperti liturgisti, o seguaci del modernismo, assieme a pastori luterani? Come puoi pensare, onestamente, che la ribellione a Dio ed il tradimento della Chiesa possa aver dato dei risultati buoni?
Quando mai, ti chiedo, un Concilio ha causato tanti e tali danni alla Chiesa? È forse accaduto con il Concilio di Nicea, con quello di Costantinopoli, col Tridentino, con il Concilio Vaticano I? Certo che no: dopo tutti questi Concilj la Chiesa ha beneficiato di conversioni, vere riforme, nuovi Ordini religiosi, rinnovato slancio apostolico, Santi e Sante d’esempio ed edificazione per i fedeli. E cosa ha prodotto, questo Vaticano II? 
In questa, che è la conclusione della lettera di Baronio, appaiono chiaramente tutti i limiti della sua denuncia. Innanzi tutto, un’affrettata semplificazione storica: tutti i concili del passato hanno avuto effetti benefici; solo il Vaticano II ha avuto effetti disastrosi. Forse, se si studiasse la storia con maggiore attenzione, ci si accorgerebbe che anche in passato i concili sono stati accompagnati da polemiche e lotte spesso violente. Del resto, basterebbe andare a rileggersi il discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005:
Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro: «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede…» (De Spiritu Sancto, XXX, 77: PG 32, 213 A; SCh 17bis, p. 524). 
Il Concilio, si afferma, viene citato per legittimare le peggiori deviazioni dottrinali e morali. Se devo essere sincero, non mi sembra che il Vaticano II sia poi cosí citato ai nostri giorni. Semmai, ci si riferisce a un vago “spirito del Concilio”; ma non si cerca nei testi conciliari il fondamento alle suddette deviazioni. Anche perché, per quanto ci possano essere nel Concilio ambiguità di linguaggio, mi sembra piuttosto arduo trovare in esso il sostegno a certe teorie. Del resto, tale atteggiamento di noncuranza nei confronti dei testi conciliari non meraviglia: fa parte della tesi della Scuola di Bologna, secondo cui ciò che conta è l’evento conciliate, non i suoi documenti, frutto di compromessi al ribasso. I testi conciliari venivano sicuramente piú citati nei cinquant’anni passati, quando sono serviti di base per la “ricostruzione” di cui dicevamo (si pensi, tanto per fare un esempio, al Catechismo della Chiesa Cattolica). 

La prova della bontà di un concilio starebbe, secondo Monsignore, nella condanna degli errori che si oppongono al suo insegnamento. Certamente si può discutere sull’opportunità della scelta del Vaticano II di non formulare dogmi e di non lanciare anatèmi; come si può discutere sulla convenienza di considerarsi semplicemente come concilio pastorale. Ma ciò non toglie nulla alla sua legittimità e autorevolezza e al valore dei suoi insegnamenti.

Un’altra prova della natura perversa del Concilio sarebbe data, secondo Baronio, dall’identità dei suoi autori. Alla domanda: «Chi l’ha fatto, quel Concilio?», risponde elencando eretici, personaggi dalla condotta discutibile e dalle idee rivoluzionarie, seguaci del modernismo e pastori luterani, che ci saranno pur stati, ma dimenticando completamente i principali protagonisti del Concilio, vale a dire i Vescovi. Non mi sembra un dettaglio secondario: un Concilio è fatto, innanzi tutto, dai Vescovi. Che poi questi si servano dell’opera di teologi e periti (che possono essere piú o meno ortodossi), è vero; ma alla fin fine sono i Vescovi che approvano i documenti finali; ed è a loro che è garantita l’assistenza dello Spirito Santo.

Mi sembra pertanto che la tesi secondo cui «la causa della crisi della Chiesa, della defezione del Clero, dell’immoralità nei Seminarj e negli Atenei, dell’abbandono delle vocazioni, del decremento della frequenza dei Sacramenti, della perdita della Fede nel popolo» è stato il Concilio rimanga ampiamente indimostrata; essa viene semplicemente affermata con una sorta di petitio principii. I fenomeni elencati — innegabili — possono trovare una spiegazione esauriente in tanti fattori diversi dal Vaticano II. Il fatto che essi siano avvenuti dopo il Concilio non dimostra che essi siano avvenuti a causa del Concilio (post hoc, ergo propter hoc). Personalmente, ritengo che tali fenomeni non vadano attribuiti al Vaticano II, ma piuttosto alla mancata applicazione di esso. Per fare un esempio, i conventi sono vuoti non perché gli ordini religiosi hanno attuato il rinnovamento voluto dal Concilio, ma esattamente perché non lo hanno fatto. Il Concilio non ha chiesto ai religiosi di rilassare la disciplina, ma semmai di ritrovare la primitiva ispirazione. Quegli istituti (pochi, per la verità) che lo hanno fatto non hanno sperimentato alcuna crisi di vocazioni. Piú in generale, ritengo che la Chiesa sia in crisi non perché c’è stato il Vaticano II, ma perché quel Concilio è stato tradito.

Pensare che, per contrastare l’attuale deriva, sia necessario abiurare il Vaticano II e tornare alla situazione ante è pura illusione. Non solo perché la storia non torna indietro, ma anche e soprattutto perché, senza il Concilio, non avremmo a disposizione gli strumenti per leggere correttamente l’attuale situazione, valutarne l’effettiva gravità e porvi adeguato rimedio.
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