lunedì 22 agosto 2016

Accorto nel tacere, tempestivo nel parlare


Nell’intervista rilasciata al sito Cooperatores veritatis, rispondendo a una domanda sulla “pastoralità”, citavo le lettere pastorali di San Paolo e la Regola pastorale di San Gregorio Magno. Rinviando a un futuro intervento un approfondimento sulle lettere pastorali (cosa che richiede un certo impegno), per il momento mi limiterò a riportare una pagina tratta dalla Regola pastorale di Gregorio Magno. Ve la propongo non solo perché molto attuale, ma anche e soprattutto perché mi pare illuminante, per comprendere l’abisso che separa l’idea di “pastorale” odierna da quella che aveva in mente il Santo Dottore. Il brano è ripreso dalla Liturgia delle ore, Officium lectionis della domenica XXVII per annum (ciclo unico) e della domenica XXI per annum (anno II del ciclo biennale). Mi sono permesso di apportare qualche ritocco alla traduzione italiana.
Q


Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò che è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato. Infatti, come un discorso imprudente trascina nell’errore, cosí un silenzio inopportuno lascia nell’errore coloro che potevano essere istruiti. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò che è giusto e, al dire di Cristo che è la verità, non attendono piú alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all’arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio.

Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56:10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13:5). “Salire sulle brecce” significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. E “resistere al combattimento nel giorno del Signore” vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi.

Che cos’è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un mostrare le spalle col proprio silenzio? Chi invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d’Israele. Per questo al popolo che ricade nell’infedeltà vien detto: «I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità, per spronarti alla conversione» (cf Lam 2:14). Nella Sacra Scrittura col nome di “profeti” sono chiamati talvolta quei maestri che, mentre fanno vedere la caducità delle cose presenti, manifestano quelle future. La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano invano i colpevoli con le promesse di sicurezza, e non svelano l’iniquità dei peccatori, ai quali mai rivolgono una parola di riprensione. 

Il rimprovero è una chiave che apre la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da colui che l’ha commessa. Per questo Paolo dice: «Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1:9). Per questo il profeta Malachia asserisce: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2:7). Per questo il Signore ammonisce per bocca di Isaia: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» (Is 58:1). 

Chiunque accede al sacerdozio si assume l’incarico di araldo, e avanza gridando prima dell’arrivo del giudice, che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, araldo muto qual è, come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, perché coloro che aveva riempito, li rese subito capaci di annunziarlo.

(Regula pastoralis, l. II, c. 4: Migne, Patrologia Latina, t. 77, coll. 30-31)