martedì 7 febbraio 2017

Traduzioni e ideologia



Mi ero ripromesso di tornare sulla notizia della costituzione, presso la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (CCDDS), di una commissione incaricata di rivedere Liturgiam authenticam, e cioè la “quinta istruzione per la retta applicazione della Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana” del 28 marzo 2001 (qui il testo originale latino; qui la traduzione inglese; qui il comunicato stampa in italiano). Ne aveva parlato per primo Sandro Magister sul blog Settimo Cielo, in un post dell’11 gennaio; successivamente, il 26 gennaio, la notizia era stata confermata da Gerard O’Connel sulla rivista dei gesuiti America.

Magister indicava, fra gli ispiratori della decisione di Papa Francesco, il liturgista Andrea Grillo, il quale, sulla rivista Munera, esattamente un anno fa, il 7 febbraio 2016, auspicava una sesta istruzione, che quanto prima rimediasse “a questo chiavistello che spranga la porta sul futuro”. Una conferma indiretta ci viene ora da Lorenzo Bertocchi, il quale ci informa sulla Nuova Bussola Quotidiana di un incontro di lavoro riservato che si sarebbe svolto nei giorni scorsi fuori Roma e al quale «dovrebbero aver preso parte oltre a Roche [l’Arcivescovo Arthur Roche, Segretario della CCDDS chiamato a presiedere la nuova commissione; non sono stati ancora resi noti i nomi dei membri della commissione], il Sotto-Segretario Padre Silvano Maggiani, Andrea Grillo, professore al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, e i Vescovi Piero Marini e Domenico Sorrentino».

Mi ero già occupato del problema delle traduzioni liturgiche e bibliche in un post del 2 aprile 2009, nel quale, riprendendo la classica distinzione fra “corrispondenza letterale o formale” (word for word) ed “equivalenza letteraria o dinamica” (meaning for meaning), optavo per la prima nel caso delle traduzioni bibliche e per la seconda nel caso delle traduzioni liturgiche. Beh, nel frattempo ho cambiato idea: credo che in entrambi i casi si debba privilegiare una traduzione il piú possibile letterale. Non che non mi renda conto della difficoltà di uno sforzo del genere. Sono reduce dalla traduzione in italiano delle Costituzioni latine dei Barnabiti del 1579 e posso attestare che è stato praticamente impossibile fare una traduzione letterale; per poter esprimere fedelmente il significato del testo, ho dovuto ricorrere il piú delle volte alla parafrasi. Ma si tratta di un caso diverso: un testo giuridico-spirituale non è la stessa cosa che un testo biblico o un testo liturgico. In questi ultimi due casi è necessario rimanere fedeli non soltanto al significato, ma alle stesse parole portatrici di quel significato (e di possibili altri significati).

Voi vi chiederete come mai abbia avuto un ripensamento a proposito della traduzione dei testi liturgici. Nel mio post di otto anni fa, la preferenza per una traduzione a senso si fondava sulla convinzione che non fosse possibile una traduzione letterale. Ma nel frattempo è avvenuto un fatto che mi ha fatto ricredere: la pubblicazione della nuova traduzione del Messale Romano in inglese. Quando scrivevo quel post, sebbene il Messale non fosse ancora uscito (sarebbe stato approvato nel 2010 e pubblicato nel 2011), si conosceva già la traduzione dell’Ordinario della Messa, e potevo quindi già rendermi conto della differenza fra la banalità di certe formule usate nella precedente traduzione e la corrispondenza letterale delle stesse nella nuova; ma non potevo immaginare che si sarebbe riusciti a essere altrettanto fedeli nella traduzione del Proprio. Ebbene, ora sono due anni che utilizzo quotidianamente la nuova traduzione; confesso che in principio, avendo ancora nell’orecchio i vecchi testi, ho fatto un po’ di fatica ad abituarmi; ma ora, superato l’ostacolo iniziale, non cesso di meravigliarmi di come si sia riusciti a rendere fedelmente in perfetto inglese l’originale latino. Chiaramente il registro adottato non è quello informale dell’inglese di ogni giorno; ma dove sta scritto che il linguaggio liturgico debba ricalcare la parlata colloquiale quotidiana? Ogni contesto ha il suo linguaggio specifico, fatto non solo di termini peculiari a quell’ambiente, ma anche di uno stile proprio che lo distingue da altri contesti. L’importante è che sia comprensibile; ma, per esserlo, non è necessario che rinunci alla sua specificità. Ebbene, l’inglese che viene utilizzato nel nuovo Messale è un inglese colto, elegante, raffinato, ma certamente non incomprensibile. Usare il nuovo Messale inglese è come usare il Messale latino; come se non bastasse, tutti i testi sono stati musicati con una melodia gregoriana, per cui si può tranquillamente celebrare la Messa solenne in inglese, come se si celebrasse in latino. Ritengo che sia stato fatto un lavoro eccellente. Cosa che non sarebbe stata possibile senza Liturgiam authenticam.

So bene che il nuovo Messale in inglese ha avuto e continua ad avere molti oppositori nel mondo anglosassone. E sono convinto che all’origine della costituzione della nuova commissione ci siano proprio i circoli che si oppongono a quel Messale. Nell’articolo di America si tira in ballo il Giappone («I giapponesi, per esempio, hanno avuto un lungo braccio di ferro con la Congregazione su chi debba decidere quale sia una traduzione giapponese accettabile dei testi»), perché sa tanto di esotico; ma nessuno mi toglie dalla mente che il vero motivo del contendere sia il Messale inglese, che a molti liberal non è proprio andato giú. Perché? Perché quel Messale sconfessa tutti i dogmi dell’ideologia “inculturazionista”. Secondo quei dogmi ci dovrebbe essere un Messale in Inghilterra, uno negli Stati Uniti (e Canada), uno in Australia (e Nuova Zelanda), uno in India, uno (o piú) in Africa, ecc., perché l’inglese che si parla in ciascun paese è diverso, perché la cultura è diversa, e quindi non è possibile imporre un unico Messale a tutti questi paesi (dimenticando che, nel frattempo, l’inglese è diventato lingua franca parlata in ogni parte del mondo). Il nuovo Messale invece dimostra che è possibile; dimostra che i cristiani, sia che vivano in Europa o in America o in Africa o in Asia o in Oceania, possono pregare allo stesso modo, senza correre il rischio di “non capire”.

Il bello è che viviamo in un mondo globalizzato, che va verso una sempre maggiore omologazione ai modelli occidentali; dobbiamo tutti pensare allo stesso modo, mangiare allo stesso modo, vestirci allo stesso modo; ci viene imposta la conoscenza dell’inglese a livello planetario. Ma nella Chiesa, che ha sempre avuto — si badi bene — un carattere universale ben prima che arrivasse la globalizzazione, bisogna “inculturarsi” a prescindere. Io non so che cosa accada in Africa o in America Latina; conosco però abbastanza bene la situazione in alcuni paesi asiatici, dove sono stati attuati dei tentativi di inculturazione liturgica che trovo quanto meno opinabili. Se c’è un popolo profondamente orientale, ma di cultura occidentale (spagnola prima e ora americana), è il popolo filippino. È stato composto un vero e proprio rito filippino della Messa, che per fortuna nessuno usa, perché fatto a tavolino, senza alcun rapporto con la realtà. I filippini conservano gelosamente non poche tradizioni religiose ispaniche, che però non vengono valorizzate nella liturgia (forse perché in qualche modo ritenute un retaggio coloniale); e poi si inventa un rito liturgico che pretende di fondarsi su una cultura “indigena” praticamente inesistente. In India esistono almeno tre riti liturgici: latino, malabarese (siro-orientale) e malankarese (siro-occidentale). Mentre il rito malabarese sta giustamente attuando uno sforzo di recupero della propria identità, forzatamente latinizzata in passato (non conosco la situazione del rito malankarese, che fu introdotto in India appunto come reazione alla latinizzazione del rito siriaco), per quanto riguarda il rito romano, all’inizio della riforma liturgica, Mons. Bugnini autorizzò alcuni adattamenti (di solito conosciuti come “dodici punti”), alcuni accettabili senza grosse difficoltà (come l’uso dell’inchino accompagnato dall’anjali hasta o un maggiore uso dell’incenso o l’utilizzo di lampade a olio), altri sicuramente piú problematici (come il celebrare accovacciati dinanzi all’altare costituito da un tavolino molto basso o l’offerta dell’arati di luce, incenso e fiori). Tali adattamenti sono totalmente estranei alla tradizione cristiana dell’India. Qualcuno si è giustamente chiesto se si tratti di una “indianizzazione” o non piuttosto di una “induizzazione” della liturgia cattolica (un’altra discutibile pratica ripresa dall’induismo e imprudentemente adottata da non pochi cristiani è quella di applicare sulla fronte delle donne il bindi e sulla fronte degli uomini il tilak).

Il problema dell’inculturazione sicuramente esiste e non è certo qui il luogo per affrontarlo. Mi limiterò a dire che, per quanto attiene al problema delle traduzioni che stiamo trattando, bisognerebbe guardare a ciò che fecero gli ebrei prima e i cristiani poi, quando si trattò di tradurre rispettivamente  l’Antico Testamento in greco e l’intera Bibbia in latino. Essi non si preoccuparono di tradurre i sacri testi nel greco o nel latino classici, ma si preoccuparono di rendere il piú fedelmente possibile l’originale ebraico e greco. I salmi hanno dovuto attendere il 1945 per essere tradotti in un latino un poco piú elegante. È assai significativa la “conversione stilistica” di Agostino dallo stile retorico ciceroniano a quello piú rude della latinitas biblica (vedi qui).

L’obiezione che di solito si fa alla CCDDS è che a Roma non ci sarebbe disponibilità di esperti in tutte le lingue del mondo, che possano giudicare sulla qualità di una traduzione liturgica. Da questa constatazione, che in qualche caso può risultare vera, si giunge sbrigativamente alla conclusione: meglio che a decidere sulle traduzioni siano i Vescovi del luogo. E voi pensate che in in loco ci sia tutta questa abbondanza di esperti in grado di fare una traduzione liturgica? Pensate che in tutti i paesi del mondo ci siano liturgisti capaci di tradurre dal latino il Messale Romano? Lo stesso problema si pone per le traduzioni bibliche: in molti paesi non ci sono biblisti con le competenze linguistiche per tradurre la Scrittura dai testi originali. Nel post del 2 aprile 2009 facevo notare che nelle Filippine (che sono il paese piú cattolico dell’Asia) non esiste ancora una traduzione cattolica della Bibbia. Per la liturgia si usa la Magandang Balita Biblia, che non è altro che la ritraduzione in tagalog (la lingua nazionale filippina) della Good News Bible o Today’s English Version (che adotta il criterio dell’equivalenza dinamica: “Seeks to state clearly and accurately the meaning of the original texts in standard, everyday, natural form of English”). Anche le traduzioni liturgiche sono in genere ritraduzioni dall’inglese. Una prova? Prendete il rito della Messa: come hanno tradotto Dominus vobiscum. Et cum spiritu tuo? Sumainyo ang Panginoon (= “con voi il Signore”); At sumayo rin (= “e con te pure”). Non vi ricorda tanto la banalissima risposta della vecchia traduzione inglese: And also with you? Lasciare che siano esclusivamente le conferenze episcopali a decidere sulle traduzioni liturgiche sarà pure una forma di decentramento (ma ce n’è proprio bisogno o è anche questo uno schema ideologico?), ma non costituisce certo una garanzia che si avranno delle buone traduzioni.

Non vorrei infine che dietro l’avversione per Liturgiam authenticam ci fosse un tentativo di rivalsa da parte dei circoli liberal per il rigetto, da parte di essa, del linguaggio inclusivo, che ormai si è imposto nel mondo anglosassone ed è stato adottato anche in numerose traduzioni bibliche. Ebbene, il nuovo Messale inglese, fedele alle disposizioni di Liturgiam authenticam in proposito (nn. 30-31), mi sembra che sia riuscito a rimanerne abbastanza immune. E questo sembra proprio un affronto all’ideologia, che non può essere tollerato…
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