Mi ero ripromesso di tornare
sulla notizia della costituzione, presso la Congregazione per il culto divino e
la disciplina dei sacramenti (CCDDS), di una commissione incaricata di rivedere
Liturgiam authenticam, e cioè la “quinta istruzione per la retta
applicazione della Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II sull’uso
delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana” del
28 marzo 2001 (qui il testo originale latino; qui la traduzione inglese; qui il comunicato stampa in italiano).
Ne aveva parlato per primo Sandro Magister sul blog Settimo Cielo, in un
post dell’11 gennaio;
successivamente, il 26 gennaio, la notizia era stata confermata da Gerard
O’Connel sulla rivista dei gesuiti America.
Magister indicava, fra gli
ispiratori della decisione di Papa Francesco, il liturgista Andrea Grillo, il
quale, sulla rivista Munera, esattamente un anno fa, il 7 febbraio 2016, auspicava una sesta istruzione, che quanto
prima rimediasse “a questo chiavistello che spranga la porta sul futuro”. Una
conferma indiretta ci viene ora da Lorenzo Bertocchi, il quale ci informa sulla
Nuova Bussola Quotidiana di un incontro di lavoro riservato che si
sarebbe svolto nei giorni scorsi fuori Roma e al quale «dovrebbero aver preso
parte oltre a Roche [l’Arcivescovo Arthur Roche, Segretario della CCDDS
chiamato a presiedere la nuova commissione; non sono stati ancora resi noti i
nomi dei membri della commissione], il Sotto-Segretario Padre Silvano Maggiani,
Andrea Grillo, professore al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, e i Vescovi Piero
Marini e Domenico Sorrentino».
Mi ero già occupato del problema
delle traduzioni liturgiche e bibliche in un post del 2 aprile 2009,
nel quale, riprendendo la classica distinzione fra “corrispondenza letterale o
formale” (word for word) ed “equivalenza letteraria o dinamica” (meaning
for meaning), optavo per la prima nel caso delle traduzioni bibliche e per
la seconda nel caso delle traduzioni liturgiche. Beh, nel frattempo ho cambiato
idea: credo che in entrambi i casi si debba privilegiare una traduzione il piú
possibile letterale. Non che non mi renda conto della difficoltà di uno sforzo
del genere. Sono reduce dalla traduzione in italiano delle Costituzioni latine
dei Barnabiti del 1579 e posso attestare che è stato praticamente impossibile
fare una traduzione letterale; per poter esprimere fedelmente il significato
del testo, ho dovuto ricorrere il piú delle volte alla parafrasi. Ma si tratta
di un caso diverso: un testo giuridico-spirituale non è la stessa cosa che un
testo biblico o un testo liturgico. In questi ultimi due casi è necessario
rimanere fedeli non soltanto al significato, ma alle stesse parole portatrici
di quel significato (e di possibili altri significati).
Voi vi chiederete come mai abbia avuto un ripensamento a proposito della traduzione dei testi liturgici.
Nel mio post di otto anni fa, la preferenza per una traduzione a senso si
fondava sulla convinzione che non fosse possibile una traduzione letterale. Ma
nel frattempo è avvenuto un fatto che mi ha fatto ricredere: la pubblicazione
della nuova traduzione del Messale Romano in inglese. Quando scrivevo quel post,
sebbene il Messale non fosse ancora uscito (sarebbe stato approvato nel 2010 e
pubblicato nel 2011), si conosceva già la traduzione dell’Ordinario della
Messa, e potevo quindi già rendermi conto della differenza fra la banalità di
certe formule usate nella precedente traduzione e la corrispondenza letterale
delle stesse nella nuova; ma non potevo immaginare che si sarebbe riusciti a
essere altrettanto fedeli nella traduzione del Proprio. Ebbene, ora sono due
anni che utilizzo quotidianamente la nuova traduzione; confesso che in
principio, avendo ancora nell’orecchio i vecchi testi, ho fatto un po’ di
fatica ad abituarmi; ma ora, superato l’ostacolo iniziale, non cesso di
meravigliarmi di come si sia riusciti a rendere fedelmente in perfetto inglese
l’originale latino. Chiaramente il registro adottato non è quello informale
dell’inglese di ogni giorno; ma dove sta scritto che il linguaggio liturgico
debba ricalcare la parlata colloquiale quotidiana? Ogni contesto ha il suo
linguaggio specifico, fatto non solo di termini peculiari a quell’ambiente, ma
anche di uno stile proprio che lo distingue da altri contesti. L’importante è
che sia comprensibile; ma, per esserlo, non è necessario che rinunci alla sua
specificità. Ebbene, l’inglese che viene utilizzato nel nuovo Messale è un
inglese colto, elegante, raffinato, ma certamente non incomprensibile. Usare il
nuovo Messale inglese è come usare il Messale latino; come se non bastasse,
tutti i testi sono stati musicati con una melodia gregoriana, per cui si può
tranquillamente celebrare la Messa solenne in inglese, come se si celebrasse in
latino. Ritengo che sia stato fatto un lavoro eccellente. Cosa che non sarebbe
stata possibile senza Liturgiam authenticam.
So bene che il nuovo Messale in
inglese ha avuto e continua ad avere molti oppositori nel mondo anglosassone. E
sono convinto che all’origine della costituzione della nuova commissione ci
siano proprio i circoli che si oppongono a quel Messale. Nell’articolo di America si tira in ballo il Giappone («I giapponesi, per esempio, hanno avuto un lungo
braccio di ferro con la Congregazione su chi debba decidere quale sia una
traduzione giapponese accettabile dei testi»), perché sa tanto di esotico; ma
nessuno mi toglie dalla mente che il vero motivo del contendere sia il Messale
inglese, che a molti liberal non è proprio andato giú. Perché? Perché
quel Messale sconfessa tutti i dogmi dell’ideologia “inculturazionista”.
Secondo quei dogmi ci dovrebbe essere un Messale in Inghilterra, uno negli
Stati Uniti (e Canada), uno in Australia (e Nuova Zelanda), uno in India, uno
(o piú) in Africa, ecc., perché l’inglese che si parla in ciascun paese è
diverso, perché la cultura è diversa, e quindi non è possibile imporre un unico
Messale a tutti questi paesi (dimenticando che, nel frattempo, l’inglese è
diventato lingua franca parlata in ogni parte del mondo). Il nuovo
Messale invece dimostra che è possibile; dimostra che i cristiani, sia che
vivano in Europa o in America o in Africa o in Asia o in Oceania, possono
pregare allo stesso modo, senza correre il rischio di “non capire”.
Il bello è che viviamo in un
mondo globalizzato, che va verso una sempre maggiore omologazione ai modelli
occidentali; dobbiamo tutti pensare allo stesso modo, mangiare allo stesso
modo, vestirci allo stesso modo; ci viene imposta la conoscenza dell’inglese a
livello planetario. Ma nella Chiesa, che ha sempre avuto — si badi bene — un
carattere universale ben prima che arrivasse la globalizzazione, bisogna “inculturarsi”
a prescindere. Io non so che cosa accada in Africa o in America Latina; conosco
però abbastanza bene la situazione in alcuni paesi asiatici, dove sono stati
attuati dei tentativi di inculturazione liturgica che trovo quanto meno
opinabili. Se c’è un popolo profondamente orientale, ma di cultura occidentale
(spagnola prima e ora americana), è il popolo filippino. È stato composto un
vero e proprio rito filippino della Messa, che per fortuna nessuno usa, perché
fatto a tavolino, senza alcun rapporto con la realtà. I filippini conservano
gelosamente non poche tradizioni religiose ispaniche, che però non vengono valorizzate
nella liturgia (forse perché in qualche modo ritenute un retaggio coloniale); e
poi si inventa un rito liturgico che pretende di fondarsi su una cultura
“indigena” praticamente inesistente. In India esistono almeno tre riti
liturgici: latino, malabarese (siro-orientale) e malankarese
(siro-occidentale). Mentre il rito malabarese sta giustamente attuando uno
sforzo di recupero della propria identità, forzatamente latinizzata in passato
(non conosco la situazione del rito malankarese, che fu introdotto in India
appunto come reazione alla latinizzazione del rito siriaco), per quanto
riguarda il rito romano, all’inizio della riforma liturgica, Mons. Bugnini
autorizzò alcuni adattamenti (di solito conosciuti come “dodici punti”), alcuni
accettabili senza grosse difficoltà (come l’uso dell’inchino accompagnato dall’anjali hasta o un maggiore uso
dell’incenso o l’utilizzo di lampade a olio), altri sicuramente piú
problematici (come il celebrare accovacciati dinanzi all’altare costituito da un
tavolino molto basso o l’offerta dell’arati di luce, incenso e fiori). Tali adattamenti sono totalmente estranei alla
tradizione cristiana dell’India. Qualcuno si è giustamente chiesto se si tratti
di una “indianizzazione” o non piuttosto di una “induizzazione” della liturgia
cattolica (un’altra discutibile pratica ripresa dall’induismo e imprudentemente
adottata da non pochi cristiani è quella di applicare sulla fronte delle donne
il bindi e sulla
fronte degli uomini il tilak).
Il problema dell’inculturazione
sicuramente esiste e non è certo qui il luogo per affrontarlo. Mi limiterò a
dire che, per quanto attiene al problema delle traduzioni che stiamo trattando,
bisognerebbe guardare a ciò che fecero gli ebrei prima e i cristiani poi, quando
si trattò di tradurre rispettivamente l’Antico Testamento in greco e l’intera
Bibbia in latino. Essi non si preoccuparono di tradurre i sacri testi nel greco o nel latino classici, ma si preoccuparono di rendere il piú fedelmente
possibile l’originale ebraico e greco. I salmi hanno dovuto attendere il 1945
per essere tradotti in un latino un poco piú elegante. È assai significativa la
“conversione stilistica” di Agostino dallo stile retorico ciceroniano a quello
piú rude della latinitas biblica (vedi qui).
L’obiezione che di solito si fa alla
CCDDS è che a Roma non ci sarebbe disponibilità di esperti in tutte le lingue del
mondo, che possano giudicare sulla qualità di una traduzione liturgica. Da
questa constatazione, che in qualche caso può risultare vera, si giunge
sbrigativamente alla conclusione: meglio che a decidere sulle traduzioni siano
i Vescovi del luogo. E voi pensate che in in loco ci sia tutta questa
abbondanza di esperti in grado di fare una traduzione liturgica? Pensate che in
tutti i paesi del mondo ci siano liturgisti capaci di tradurre dal latino il
Messale Romano? Lo stesso problema si pone per le traduzioni bibliche: in molti
paesi non ci sono biblisti con le competenze linguistiche per tradurre la
Scrittura dai testi originali. Nel post del 2 aprile 2009 facevo notare che
nelle Filippine (che sono il paese piú cattolico dell’Asia) non
esiste ancora una traduzione cattolica della Bibbia. Per la liturgia si usa la Magandang
Balita Biblia, che non è altro che la ritraduzione in tagalog (la lingua
nazionale filippina) della Good News Bible o Today’s English Version
(che adotta il criterio dell’equivalenza dinamica: “Seeks to state clearly and
accurately the meaning of the original texts in standard, everyday, natural
form of English”). Anche le traduzioni liturgiche sono in genere ritraduzioni dall’inglese. Una prova? Prendete il rito della Messa: come hanno
tradotto Dominus vobiscum. Et cum spiritu tuo? Sumainyo ang Panginoon
(= “con voi il Signore”); At sumayo rin (= “e con te pure”). Non vi
ricorda tanto la banalissima risposta della vecchia traduzione inglese: And
also with you? Lasciare che siano esclusivamente le conferenze episcopali a
decidere sulle traduzioni liturgiche sarà pure una forma di decentramento
(ma ce n’è proprio bisogno o è anche questo uno schema ideologico?), ma non costituisce certo una garanzia che si avranno
delle buone traduzioni.
Non vorrei infine che dietro
l’avversione per Liturgiam authenticam ci fosse un tentativo di rivalsa
da parte dei circoli liberal per il rigetto, da parte di essa, del
linguaggio inclusivo,
che ormai si è imposto nel mondo anglosassone ed è stato adottato anche in numerose
traduzioni bibliche. Ebbene, il nuovo Messale inglese, fedele alle disposizioni
di Liturgiam authenticam in proposito (nn. 30-31), mi sembra che sia
riuscito a rimanerne abbastanza immune. E questo sembra proprio un affronto all’ideologia,
che non può essere tollerato…
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