Sandro Magister continua a pubblicare interventi sempre estremamente interessanti (a parte la querelle, non proprio edificante, col Direttore dell’Osservatore Romano...). Fra gli ultimi articoli, pubblicati sul sito www.chiesa, ce ne sono due che, a prima vista, non hanno alcun rapporto fra loro, ma che, a uno sguardo piú attento, possono perlomeno ispirare qualche riflessione comune. Mi riferisco all’articolo, pubblicato il 25 gennaio, “Il papa è il primo tra i patriarchi”. Tutto sta a vedere come, e quello pubblicato ieri, dal titolo Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario.
Partiamo da quest’ultimo. Lungi da me voler intervenire su una questione di cui non so praticamente nulla: non sono un ambrosiano; conosco solo molto approssimativamente il rito della Chiesa milanese; sapevo a mala pena che era stato pubblicato un nuovo lezionario (che non ho avuto ancora l’occasione di avere fra mano); per cui non potrei in alcun modo pronunciarmi su questa nuova pubblicazione. Però, leggendo le osservazioni del Card. Biffi, non posso non riconoscere che si tratta di rilievi di grande buon senso. Si potrà pure discutere su questa o quella obiezione, ma non si può negare che, nel loro insieme, le riserve avanzate provengono da un valente teologo e da un pastore di grande esperienza. Non lo si può accusare né di tradizionalismo né di progressismo: le critiche da lui mosse non sono mai preconcette, ma frutto di una approfondita riflessione.
Il Card. Biffi non è nuovo a certe uscite. Ricordo che, quando, giovane sacerdote, mi trovavo a Bologna come viceparroco, partecipai alla “Tre giorni” del Clero, durante la quale il nostro Arcivescovo ci diede alcune preziosissime Note pratiche sulla celebrazione della Messa, che ho sempre conservato. A quell’epoca era stata da poco pubblicata la seconda edizione del Messale italiano. Ebbene, a proposito delle nuove preghiere eucaristiche inserite in questo Messale, Biffi ebbe a dire:
«Personalmente non amo dire le preghiere eucaristiche dell’appendice. Trattandosi di testi destinati alle Chiese italiane, sarebbe stato desiderabile sottoporli al giudizio di tutti i vescovi interessati. Personalmente, avrei fatto presente che la cosí detta preghiera eucaristica quinta evita con troppa cura il concetto di transustanziazione (“manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue”); concetto che è evitato, con maggior garbo, anche dalla seconda preghiera eucaristica “della riconciliazione”. Avrei altresí segnalato che la stessa preghiera [la quinta, ndr] non esprime l’idea dell’“offerimus”, cioè la verità che il sacrificio di Cristo nell’Eucaristia è offerto anche da noi (“Guarda, Padre santo, questa offerta: è Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te”)» (10 settembre 1986: Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna, 9/1986, p. 523; testo ripreso poi in Fonti pastorali della Chiesa di Bologna, vol. I, Bologna 1994, n. 577).
Beh, bisogna dire che in quel caso il Card. Biffi fu ascoltato: nella terza edizione latina del Messale Romano la cosí detta “quinta preghiera eucaristica” è stata accolta, ma completamente rifusa e con il seguente titolo: “Prex eucharistica quae in Missis pro variis necessitatibus adhiberi potest”. I passaggi criticati da Biffi sono stati cosí riformulati:
«Rogamus ergo te, Pater clementissime, ut Spiritum Sanctum tuum emittas, qui haec dona panis et vini sanctificet, ut nobis Corpus et Sanguis fiant Domini nostri Iesu Christi»;
«In oblationem Ecclesiae tuae, in qua paschale Christi sacrificium nobis traditum exhibemus, respice propitius, et concede, ut virtute Spiritus caritatis tuae, inter Filii tui membra, cuius Corpori communicamus et Sanguini, nunc et in diem aeternitatis numeremur».
Come si può vedere, l’intervento di revisione è stato radicale. Si potrà continuare a discutere sull’opportunità di quell’inserimento (per me se ne poteva tranquillamente fare a meno), ma perlomeno la nuova formulazione risulta ora ineccepibile dal punto di vista dottrinale. Tutto è bene quel che finisce bene.
Orbene, la riflessione che mi veniva da fare a questo proposito era che non sempre l’approvazione vaticana è garanzia di correttezza dottrinale e opportunità pastorale; in certi casi forse si farebbe meglio a dare maggiore ascolto ai Vescovi. Non so come sia andata l’approvazione del nuovo lezionario ambrosiano: è abbastanza comprensibile che in tal caso non si sia consultato il Card. Biffi, il quale, pur rimanendo uno dei maggiori esperti di cose ambrosiane, non ricopre alcun ruolo nella Chiesa milanese (ormai egli è semplicemente l’Arcivescovo emerito di Bologna). Ma posso testimoniare che nel lontano 1986, quando pronunciava le parole che ho riportato sopra, si mostrò notevolmente irritato per la mancata consultazione dei Vescovi italiani: praticamente, la pubblicazione della seconda edizione del Messale italiano era stata una specie di blitz dei “tecnici”, i quali, “baipassando” (si può dire?) bellamente i Vescovi, avevano sottoposto all’approvazione della Congregazione del culto divino quella che allora era conosciuta come la “preghiera eucaristica svizzera”, inserendola cosí di fatto nel nuovo sacramentario.
Certe cose succedono spesso nella Curia Romana: non è raro che i Dicasteri ignorino il parere di interi episcopati e finiscano poi per fidarsi di qualche “esperto” di dubbia competenza. Per esempio, ricordo le giuste rimostranze dei Vescovi di paesi lontani che, dopo aver curato la traduzione dei libri liturgici nella loro lingua locale, se la vedevano respinta da Roma, dove non c’era nessun membro del Dicastero che conoscesse quella lingua e ci si doveva perciò affidare a qualche studente di teologia delle università pontificie. È ovvio che il problema è alquanto complesso e non lo si può liquidare con una battuta. Sono convinto che qualche volta Roma faccia piú che bene a resistere alle posizioni di certi episcopati (come, per esempio, rimanendo nell’ambito delle traduzioni liturgiche, nel caso della nuova edizione del Messale in inglese).
Ma il problema, secondo me, non è tanto quello delle pur reali — e inevitabili — tensioni fra il Papa e i Vescovi, quanto piuttosto quello degli “abusi di potere” delle rispettive burocrazie (la Curia Romana e le Conferenze episcopali). Sí, perché noi in genere siamo portati a identificare la Curia Romana con il Papa e le Conferenze episcopali con i Vescovi: teoricamente dovrebbe essere cosí, ma di fatto non lo è. La Curia Romana e le Conferenze episcopali sono realtà burocratiche, di cui certo non si può fare a meno, ma con tutti i limiti che la burocrazia per sua natura comporta. Gli ufficiali di Curia e i funzionari delle Conferenze episcopali sono preziosi collaboratori del Papa e dei Vescovi; ma devono ricordare che non sono loro i pastori. È ovvio che Papa e Vescovi debbano necessariamente delegare molte competenze ai loro “tecnici”; ma questi non dovrebbero mai dimenticare che esiste un’autorità personale dei pastori, che non può in alcun modo essere delegata.
A questo punto, voi direte: che c’entra tutto questo con l’altro articolo di Magister, che pubblicava un documento su Il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, documento su cui la Commissione mista internazionale per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sta lavorando? Il nesso c’è, dal momento che quel documento affronta una questione spinosissima, l’unica praticamente che continua a dividere cattolici e ortodossi: quella del rapporto fra collegialità e primato. Noi cattolici, nonostante le “aperture” del Vaticano II, ammaestrati dalla storia, siamo portati a guardare con un certo sospetto a un'ulteriore sottolineatura della collegialità episcopale, a scapito del primato pontificio; cosí come gli ortodossi, pur riconoscendo in linea di principio il primato del Vescovo di Roma, temono che poi questo possa in qualche modo limitare il principio, a loro cosí caro, della sinodalità. Ci sarà pure una via di uscita a questo impasse! Il documento pubblicato da Magister (le lagnanze del Consiglio per l’unità dei cristiani per la sua pubblicazione risultano, per la verità, piuttosto incomprensibili) mi sembra un buon punto di partenza. Lo strumento di lavoro si apre con una citazione del documento finale di Ravenna del 2007, in cui cattolici e ortodossi riconoscevano il vincolo inseparabile fra conciliarità e primato a tutti i livelli di vita della Chiesa:
«Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Questo è il motivo per cui il primato ai diversi livelli di vita della Chiesa — locale, regionale e universale — deve sempre essere considerato nel contesto della conciliarità, e similmente la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43).
Vedo già qualcuno arricciare il naso, pronto a tacciare tale testo di “conciliarismo”; ma il conciliarismo è ben altro. Mi sembra piuttosto che, almeno come dichiarazione di principio, esso sia pienamente accettabile (e di fatto lo è stato) sia da parte cattolica che da parte ortodossa. Il problema semmai sarà come mettere in pratica il principio della reciproca interdipendenza di collegialità e primato.
Ebbene, io credo che tutto si riduca ad assumere un diverso stile di rapporto. Gli esempi su riportati, riguardanti il Card. Biffi, dovrebbero insegnarci che il sistema oggi utilizzato all’interno della Chiesa cattolica spesso non va: Roma, da sola, non può arrivare a tutto e spesso, di fatto, prende delle cantonate; ha bisogno della collaborazione dei Vescovi. Non perché qualcuno voglia negare il primato pontificio, ma semplicemente perché la Curia Romana è fatta di uomini con i loro limiti, che di per sé non godono del carisma dell’infallibilità. La consultazione dei Vescovi — dei Successori degli Apostoli, intendo, non dei monsignori delle Conferenze episcopali — non può far che bene alla Chiesa. Piú vasta è la consultazione, specialmente sulle questioni delicate, meglio è. Ciò da cui bisogna guardarsi non è la collegialità episcopale, ma lo strapotere delle burocrazie, centrali o periferiche che siano.
Non si tratta di introdurre nella Chiesa un principio rivoluzionario; si tratta semplicemente di seguire l’immemorabile tradizione romanistica ed canonica: «Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» (Giustiniano, Corpus iuris civilis, 5, 59, 5, 2; Bonifacio VIII, Liber sextus decretalium, 5, 12, 29; cf Codex iuris canonici, can. 119, 3°).