domenica 2 maggio 2010

San Francesco Saverio Maria Bianchi

L’altro giorno il blog Messainlatino ha pubblicato alcune “Orazioni giaculatorie per allontanare i divini flagelli” composte dal santo barnabita Francesco Saverio Maria Bianchi. Chi era costui? Se qualcuno fosse interessato ad approfondire la figura, straordinaria ma poco conosciuta, di questo religioso, può leggersi la seguente relazione, da me svolta lo scorso 23 aprile nella chiesa di Santa Maria di Caravaggio a Napoli (dove si venerano le reliquie del Santo), nellambito di un convegno organizzato dalla Provincia Italiana Centro-Sud dei Barnabiti in occasione dellAnno sacerdotale. Al convegno è intervenuto anche il Vescovo di Sora-Aquino-Pontecorvo Mons. Filippo Iannone.




SAN FRANCESCO SAVERIO MARIA BIANCHI
LUCE E SPERANZA IN UN TEMPO DI CRISI


Credo che sia stata un’ottima iniziativa, da parte della Consulta provincializia, voler riproporre, in occasione dell’Anno sacerdotale, la figura di san Francesco Saverio Maria Bianchi. Forse, durante questo anno (che si avvia alla sua conclusione), noi sacerdoti ci siamo concentrati quasi esclusivamente su san Giovanni Maria Vianney: certamente focalizzarsi sul Curato d’Ars non può che averci fatto bene; ma non possiamo dimenticare che, accanto a lui, esiste una miriade di santi sacerdoti a cui volgere il nostro sguardo. Fra questi, come Barnabiti, non possiamo ignorare il nostro confratello arpinate, che si pone innanzi a noi non solo come una gloria di cui andar fieri, ma anche e soprattutto come un modello da imitare. Si tratta di una figura straordinaria, per alcuni versi paragonabile, ai nostri giorni, con quella di Padre Pio, ma con un destino totalmente diverso: mentre il Santo di Pietrelcina è conosciuto da tutti e il suo culto è diffuso in ogni parte del mondo, il Bianchi è pressoché ignoto al di fuori della ristretta cerchia dei concittadini e dei confratelli (e anche fra questi la conoscenza è spesso piuttosto limitata). Penso che sia l’unico iscritto all’albo dei santi che, al momento, non possa vantare neppure una chiesa dedicata al suo nome, né nella sua città natale, né in questa città (dove è vissuto ed è morto e che pure lo venera come il suo “apostolo”), né nella sua Congregazione. Forse meriterebbe un po’ piú di attenzione.


Il “secolo dei lumi”

Dal punto di vista storico, il periodo che dobbiamo considerare è quello che va dal 1743 al 1815, rispettivamente anno di nascita e di morte del Bianchi (un arco di 72 anni).

Dal punto di vista geografico, il contesto è quello del Regno di Napoli (che nel 1816 verrà unificato con quello di Sicilia, dando origine al “Regno delle Due Sicilie”). A scuola ci hanno insegnato che si trattava della regione piú arretrata d’Italia; probabilmente la realtà non era cosí catastrofica come vorrebbero farci credere. Anzi...

Il contesto culturale in cui ci muoviamo è quello dell’Illuminismo. Anche qui, abbiamo appreso dai manuali scolastici che il Settecento è il “secolo dei lumi”, quasi che esso sprigioni solo luce; mentre forse la realtà è un tantino piú complessa. Giorni fa Avvenire ha pubblicato in anteprima un capitolo del volume Oltre l’abisso, del filosofo-sociologo francese, tuttora vivente, Edgar Morin. Nel capitolo, intitolato “Oltre i Lumi”, l’autore sostiene che «la Rivoluzione francese si è fondata contemporaneamente sul trionfo e sulla crisi dei Lumi. Il trionfo, con il messaggio di emancipazione del 1789 [la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”]. La crisi, con il terrore e il culto della ragione (penso a Alejo Carpentier, nel suo splendido romanzo Il secolo dei lumi, in cui dice che i Lumi arrivarono ai Caraibi con la ghigliottina)» (“Agorà”, 11 aprile 2010, p. 4).

Ma, prima di arrivare alla Rivoluzione francese (che corrisponde, nella vita del Bianchi, al periodo della sua graduale trasformazione spirituale), non possiamo dimenticare il precedente fenomeno, non meno devastante per la Chiesa, dell’assolutismo illuminato, quando cioè i sovrani si accordarono con i “filosofi” (vale a dire gli intellettuali illuministi) per introdurre nei loro regni alcune “riforme”. Ci furono due serie di riforme. Innanzi tutto gli interventi sulla grande proprietà fondiaria, laica ed ecclesiastica, per introdurvi la borghesia con la nuova mentalità capitalistica tendente a sfruttare la terra che, in molti casi, rimaneva incolta. Tali interventi perlopiú fallirono; mentre ebbe successo un’altra serie di riforme, quelle ecclesiastiche. Si affermò in quel periodo il cosiddetto “giurisdizionalismo”, grazie al quale il sovrano rivendicava il diritto di dare il suo gradimento per la nomina di vescovi e parroci (“placet”) e pretendeva che le leggi ecclesiastiche fossero da lui approvate, perché potessero avere vigore (“exequatur”). Voi capite che si trattava di una drastica limitazione della libertà della Chiesa. Si voleva che il clero dipendesse dallo Stato; i beni ecclesiastici venivano spesso e volentieri espropriati; addirittura, in qualche caso (si pensi all’imperatore Giuseppe II, il cosiddetto “re sagrestano”), si giungeva al punto di voler regolamentare anche il culto; soprattutto, si voleva sottrarre alla Chiesa l’educazione, che fino ad allora era stata praticamente monopolio del clero; si cercò, sebbene senza molto successo, di formare delle chiese nazionali (“febronianesimo”); i religiosi venivano sottratti alla dipendenza dai loro superiori centrali; si iniziò una lotta senza quartiere contro i Gesuiti, che avrebbe portato, nel 1773, alla soppressione della Compagnia da parte del remissivo Clemente XIV.

Quale fu la reazione della Chiesa di fronte a tali riforme? L’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche fu piuttosto arrendevole dinanzi al potere politico. A parte gli ecclesiastici che si fecero addirittura sostenitori dei principi illuminati — basti qui menzionare il vescovo giansenista di Pistoia Scipione de’ Ricci, piú o meno contemporaneo del nostro Santo (1741-1809) — gli stessi pontefici si mostrarono piú che condiscendenti: non solo il già citato Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli, 1769-1774), ma anche il solitamente celebrato Benedetto XIV (Prospero Lambertini, 1740-1758) condusse una politica di continui cedimenti alle potenze dell’epoca (fu lui a nominare come visitatore dei Gesuiti in Portogallo il cardinale Saldanha, parente del marchese di Pombal, primo ministro massone di quel paese). Potremmo dire che, per la Chiesa, il Settecento fu tutt’altro che un “secolo dei lumi”; esso fu piuttosto un secolo buio. Grazie a Dio, quando l’oscurità è piú profonda, c’è sempre qualche luce che si accende: il Settecento, come tutte le altre epoche critiche nella storia della Chiesa, fu illuminato da non pochi santi. Basti qui fare due nomi: san Paolo della Croce (1694-1775) e sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), entrambi promotori in Italia di un’opera di rievangelizzazione attraverso le “missioni popolari”.

Quali furono i riflessi delle “riforme” sui Barnabiti? Negli anni Sessanta del Settecento nel Napoletano si stabilí, prima, che i noviziati dei religiosi potessero accogliere solo candidati originari del Regno; poi vennero addirittura banditi tutti i religiosi “stranieri”. Nel 1774, per ordine del Papa, i Barnabiti dovettero subentrare ai Gesuiti nella conduzione di alcune loro opere, come il complesso di Santa Lucia a Bologna e il Gesú a Perugia. Nel 1781 la Provincia Lombarda e quella Germanica furono separate dal resto dell’Ordine. Nel 1783 i Barnabiti furono espulsi dalla Toscana, ponendo cosí fine alla ultracentenaria storia della Provincia Etrusca. Nel 1789 le case religiose del Regno di Napoli furono separate dai superiori residenti a Roma (si tenga presente che a quell’epoca le case napoletane non costituivano ancora una provincia; la Provincia Napoletana sarebbe stata eretta solo nel 1850). Le riforme introdotte nel Napoletano, naturalmente, ebbero ripercussioni, in un modo o nell’altro, nella vita del Bianchi.

Nel 1789 ebbe inizio la Rivoluzione francese. A parte qualsiasi giudizio di valore, non si può negare che tale data segni una svolta nella storia dell’Occidente: dopo la Rivoluzione, nonostante il Congresso di Vienna e la Restaurazione, il mondo non fu piú lo stesso; l’Ancien Régime scomparve per sempre. In un primo momento poteva sembrare che si trattasse di un evento interno alla Francia; ma nel 1796, con la prima campagna d’Italia, a opera di Napoleone, ebbe inizio l’esportazione della Rivoluzione in Europa. Ufficialmente si volevano diffondere gli ideali di libertà, fraternità, uguaglianza; di fatto, fu un vero e proprio saccheggio: si trattava di risolvere la crisi economica provocata in Francia dalla rivoluzione. La spoliazione d’Italia fu attuata con metodo scientifico. I principi, illuminati o non-illuminati che fossero, vennero spodestati e si diede vita a molteplici repubbliche giacobine. Ne ricordiamo solo due: quella romana del 1798 (il papa Pio VI — Giovanni Braschi — fu deportato in Francia, dove morí l’anno successivo) e quella partenopea del 1799. Si trattò di un’esperienza brevissima (solo sei mesi, da gennaio a giugno), fallita, secondo Vincenzo Cuoco (1770-1823), per l’astrattezza delle idee dei “patrioti”, completamente distaccati dal popolo (“rivoluzione passiva”).

Se le repubbliche giacobine furono espressione di ristrette élites intellettuali, un fenomeno autenticamente popolare fu la reazione delle masse all’imposizione dell’utopia rivoluzionaria: le cosiddette “insorgenze”. Solitamente i manuali scolastici — che ignorano tale termine — ci presentano, ovviamente in una luce negativa (come espressione di ignoranza e di populismo reazionario), solo due di tali sollevazioni popolari: la prima, quella della Vandea, nel 1793, e poi quella sanfedista, capeggiata dal cardinale Fabrizio Ruffo, che pose fine all’esperienza della Repubblica partenopea (1799). Ma il fenomeno delle insorgenze è generale, in Italia e in Europa: ovunque arrivasse Napoleone a portare gli ideali giacobini, trovava contadini armati di forconi a difendere la loro fede, la loro cultura e le loro tradizioni. Ricordiamo che in Italia, fra il 1796 e il 1799, ci furono insorgenze in Piemonte e Val d’Aosta, in Liguria, in Lombardia, nella Repubblica di Venezia (“Viva San Marco”), in Tirolo (Andreas Hofer), nella Romagna (la “Vandea italiana”), in Toscana e Umbria (“Viva Maria”), nelle Marche, negli Abruzzi, a Roma e nel Lazio (Fra Diavolo), in Campania, in Puglia e Lucania, in Calabria. Ma nessuno ce ne parla. All’estero, non possiamo non menzionare la grande insorgenza spagnola (1808-1813), che segnò l’inizio del declino di Napoleone.

Il 1799 fu l’anno del colpo di Stato di Napoleone, che portò al consolato e, successivamente, nel 1804, all’impero. Nel 1806 i francesi occuparono il Regno di Napoli, ponendo sul trono Giuseppe Bonaparte (mentre Ferdinando IV si rifugiò in Sicilia); al clero fu chiesto il giuramento di fedeltà; l’Arcivescovo fu costretto a fuggire. Nel 1808 Giuseppe Bonaparte divenne re di Spagna e fu sostituito da Gioacchino Murat. Questi, nel 1809, emanò le “leggi eversive del feudalesimo”, soppresse gli ordini religiosi (fra cui anche la nostra Congregazione) ed espropriò i loro beni. Nello stesso anno lo Stato pontificio fu annesso all’impero e il papa Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaramonti) fu condotto prigioniero in Francia (stessa sorte toccò anche al padre generale, futuro cardinale, Francesco Luigi Fontana). Nel 1810 Napoleone soppresse gli ordini religiosi (il decreto imperiale faceva esplicita menzione anche dei Barnabiti); nel 1812 ci fu la campagna di Russia; dopo la sconfitta di Lipsia (1813), nel 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare e a ritirarsi all’isola d’Elba. Il 1815 è l’anno dei “cento giorni”, della definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo e del suo esilio a Sant’Elena (dove sarebbe morto nel 1821); l’anno del Congresso di Vienna e della restaurazione delle antiche dinastie (fra cui quella dei Borboni a Napoli). Ed è pure l’anno della morte del Bianchi, che aveva in vario modo previsto tali avvenimenti. Semplice coincidenza?


La via dell’umana sapienza

Francesco Saverio Maria Bianchi fu educato dai Barnabiti ad Arpino, nel Collegio dei Santi Carlo e Filippo. Successivamente, essendo nipote di un sacerdote, fu mandato a Nola, in seminario, dove studiò prima le lettere, poi la retorica e infine la filosofia, come si usava a quel tempo. Terminato questo ciclo di studi, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli; ma fu un’esperienza negativa, che lo indusse ad abbandonare, dopo appena un anno, gli studi. Già sentiva la vocazione religiosa: in un primo momento avrebbe desiderato entrare tra i Gesuiti; poi finalmente si decise per i suoi antichi maestri.

Fece il noviziato a Zagarolo (1763), poi si trasferí a Macerata (1764), per studiare la filosofia; quindi a Roma (1765-66), per attendere agli studi teologici, che proseguí poi a Napoli (1766-67). Quando aveva appena compiuto 23 anni, nel 1767, fu ordinato sacerdote. Evidentemente riusciva molto bene negli studi se, subito dopo l’ordinazione, fu mandato a insegnare retorica ad Arpino (1767-69). Fu quindi trasferito a Napoli dove iniziò ad insegnare filosofia (1769-72). Fu addirittura invitato a insegnare nell’Università di Napoli; ma, siccome le nostre Costituzioni non permettevano l’insegnamento nelle università pubbliche, fu costretto a rifiutare. Nonostante questo, però, fu nominato professore straordinario di teologia dogmatica e polemica all’Università di Napoli. Era anche socio nazionale della Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere per la classe di “istruzione della storia medievale”. Come vedete, aveva una formazione molto vasta, che spaziava in diversi campi del sapere.

A proposito di questi suoi studi il Bianchi ci ha lasciato una testimonianza assai preziosa: «Anch’io nel tempo della mia giovinezza fui molto affezionato a simili conoscenze; e pregai Dio che mi aiutasse per servire con vantaggio della mia Congregazione. Dietro a queste preghiere eccomi una volta sopraffatto di tanto lume che, quasi squarciandomisi un velo davanti alla mente, mi si manifestarono le verità delle scienze umane, di quelle ancora non mai studiate, per un’intelligenza infusa, conforme già a Salomone. Per lo spazio di circa ventiquattro ore mi assisté questo lume, infino a che, come se di nuovo il velo si calasse, tornai ignaro qual era, mentre mi sentiva in cuore una voce: Questa è l’umana sapienza; e a che giova? Studia me, studia il mio amore». Un’esperienza mistica importante (è chiamata dono della “scienza infusa”); una prima avvisaglia di ciò che sarebbe avvenuto successivamente.

Iniziò poi anche una certa carriera ecclesiastica, giacché, a seguito dell’espulsione dei religiosi stranieri dal Regno di Napoli (1769), fu nominato superiore del Collegio di Santa Maria in Cosmedin a Portanuova, rimanendo in carica per ben dodici anni (1773-1785). Nel 1779 partecipò al Capitolo generale a Milano, ricoprendovi la carica di cancelliere. Terminato il Capitolo, accompagnò il nuovo padre generale Scipione Peruzzini nella visita alle case del Piemonte e della Lombardia. Nel 1785 partecipò nuovamente al Capitolo generale, questa volta a Bologna. Pare che si tentò pure di nominarlo vescovo, ma lui sempre rifiutò.

A un certo punto, ci fu una svolta nella vita del nostro Santo, una vera e propria “conversione”. Abbandonò interamente i libri, le amicizie, gli studi ameni, gli incontri con i dotti e si raccolse nella propria cella, cominciando a vivere completamente la vita nascosta con Cristo in Dio (Col 3:3). Lasciò ciò che gli era piú caro, i suoi amati studi; ma, nonostante questo, negli ultimi anni della sua vita, quando ormai i Barnabiti erano stati soppressi, si preoccupava — pensate un po’ — di comperare i libri per la biblioteca, per quando l’Ordine sarebbe stato ristabilito (ciò che avvenne tre anni dopo la sua morte, nel 1818, a San Giuseppe a Pontecorvo e, successivamente, qui a Santa Maria di Caravaggio).


L’ascesa alla santità

Tale conversione non fu una trasformazione improvvisa, come quella di Saulo sulla via di Damasco, ma una maturazione progressiva (durò piú di dieci anni), di cui possiamo cogliere alcune tappe, databili con una certa precisione.

Nel 1787, durante il mese di maggio, si ammalò seriamente; pensò addirittura che fosse ormai vicina la fine (sebbene avesse solo 44 anni); ma un’anima pia, la terziaria francescana suor Maria Francesca delle Cinque Piaghe (Anna Maria Gallo, 1715-1791), ora anche lei canonizzata, disse al Bianchi: «Abbiate fede, che nel nome di Dio dovete star bene; vi resta di faticar molto per lui: toglietevi ogni apprensione e abbiate fede». A me questo fa pensare a un’esperienza simile, avvenuta molti secoli prima, quella del profeta Elia, il quale, dopo il sacrificio del Carmelo, nel quale aveva sconfitto i profeti di Baal, era perseguitato dalla regina Gezabele e a un certo punto, stanco di vivere, si rivolse al Signore, dicendogli: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Ma l’angelo lo scosse e gli disse: «Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino» (1 Re 19).

Il 3 giugno successivo, festa della santissima Trinità, alzandosi dal letto al mattino, il nostro Santo ricevette quello che lui chiamò un “biglietto” da parte di Gesú, un’ispirazione celeste: «Ego ero merces tua magna nimis». Si tratta di una citazione del libro della Genesi, quando Dio dice ad Abramo: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande» (15:1).

All’inizio dell’anno seguente, l’11 gennaio 1788, ricevette una visita dello Spirito Santo, ancora una ispirazione, che gli serví per penetrare un versetto dei salmi: «Ascensiones in corde tuo disposui» (83:6). Di per sé, soggetto, verbo e aggettivo possessivo nel testo della Volgata (che traduce la LXX) sono alla terza persona: «Beatus vir, cuius est auxilium abs te, ascensiones in corde suo disposuit» (tradotto dalla CEI, che segue il testo ebraico: «Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore»). Ma il Bianchi accolse queste parole come se gli fossero rivolte dal Cielo: «Io ho disposto delle ascensioni (cioè una “ascesa” spirituale) nel tuo cuore».

Nel 1789 (l’anno della Rivoluzione francese), aprendo la Bibbia a caso, come era solito fare, gli caddero gli occhi su un altro versetto dei salmi: «Ego Dominus Deus tuus, qui eduxi te de terra Ægypti. Dilata os tuum et implebo illud» (80:11: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto; apri la tua bocca, la voglio riempire»).

Il culmine di questa “ascesa” si avrà nel giorno di Pentecoste dell’anno 1800, il 1° giugno. In tale occasione Saverio si recò a pregare, come spesso faceva, in una chiesa di monache di clausura, la chiesa del Divino Amore, dove c’era l’esposizione eucaristica, e lí, durante la preghiera, vide un raggio di luce che partiva dall’ostensorio e lo raggiunse al petto, lo penetrò, gli ferí il cuore, e svenne. Si tratta di un fenomeno non molto conosciuto e neppure molto diffuso: la “trasverberazione”. Sono relativamente pochi i santi che hanno avuto questo privilegio: il caso piú celebre è quello di santa Teresa d’Avila (immortalato dal Bernini nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma); ai nostri giorni, un santo che ha avuto lo stesso dono è Padre Pio da Pietrelcina, che fu trasverberato prima ancora di ricevere le stimmate. Ebbene, anche il nostro Santo, nella Pentecoste del 1800 fu trafitto al cuore. Probabilmente si trattava della risposta del Signore a una sua preghiera. Abbiamo una esplicita testimonianza in proposito. Il Bianchi, sebbene solitamente non parlasse molto di sé, in certi momenti, colloquiando con i suoi figli spirituali, si lasciava andare a qualche confidenza e un giorno disse: «Io ho pregato sempre il Signore di imprimere nel cuor mio la sua passione, come la impresse già sul velo della Veronica; e il Signore mi ha esaudito» (Eco dei Barnabiti, n. 4/2000, pp. 27-31).

Dopo questa esperienza, Saverio fu colmato di tutta una serie di doni straordinari. Abbiamo già visto che in una circostanza, almeno per ventiquattro ore, ebbe il dono della scienza infusa; dopo la trasverberazione era molto frequente in lui il fenomeno del rimbalzo o esultazione del cuore, cioè delle palpitazioni cardiache che lo colpivano o quando era in preghiera o quando anche solo vedeva una immagine sacra o sentiva un canto sacro (incominciava immediatamente a palpitare o a sudare e i presenti che lo conoscevano dovevano prendere le necessarie misure per farlo tornare in sé). Ebbe il dono delle lacrime; il fulgore sul viso; i doni della levitazione, della bilocazione, del profumo delle piaghe. Ebbe visioni e rivelazioni; era dotato del dono della profezia, innanzitutto nella direzione spirituale (penetrava senza difficoltà l’animo dei suoi discepoli); piú volte poi preannunciò i castighi divini per gli sconvolgimenti sociali (predisse l’eruzione del Vesuvio del 1804 e il terremoto del 1805); prevedeva guarigioni e decessi; pronosticava anche il successo negli affari e nella carriera; fece non poche profezie politiche e seguí, oggi diremmo “in tempo reale”, alcuni importanti avvenimenti storici, come l’esilio di Pio VII o la campagna di Russia (vedeva ciò che stava succedendo in quel momento al papa o a Napoleone; poi lo raccontava alle persone che lo circondavano e diceva loro di annotarlo; quando poi avevano modo di controllare, scoprivano che quei fatti erano realmente accaduti). Ebbe il dono dei miracoli: fermò la lava del Vesuvio; operò diverse guarigioni; moltiplicò il denaro per aiutare chi era nel bisogno. Va inoltre ricordato il fenomeno prodigioso riportato da tutti i biografi: dal 25 marzo 1814, quando oramai era completamente immobilizzato su una poltrona, per sei mesi riuscí miracolosamente ad alzarsi per celebrare la santa Messa; terminata la quale, doveva di nuovo sedersi e rimaneva immobilizzato fino al giorno successivo. Infine ebbe quel misterioso morbo che lui chiamò “spine e fuoco”, cioè delle piaghe che lo tormentarono alle gambe per oltre dieci anni, gli ultimi della sua vita. Queste piaghe gli erano state predette da suor Maria Francesca. Un giorno questa gli toccò gli arti inferiori dicendo: «Oh, quanto avranno a soffrire queste gambe!», molti anni prima che ciò avvenisse. Un fenomeno mistico prima che fisiologico. I medici non riuscivano a dare una spiegazione né a trovare un rimedio; anzi molto spesso gli provocavano maggiori sofferenze con i loro tentativi totalmente inefficaci. Un giorno il Bianchi disse: «Vi assicuro che da queste piaghe non leverete un dito». Il medico gli chiese: «Quale dito?». E lui rispose: «Il dito di Dio». Era pienamente consapevole che si trattava di un fenomeno soprannaturale e ne diede questa interpretazione: «Il Signore si degnò di visitarmi nel dolore e con l’ardore di queste piaghe, perché cosí, con questa forza opposta, si mitigasse la fiamma del mio cuore». Una specie di bilanciamento del dono mistico che aveva ricevuto nella chiesa del Divino Amore.

Sapeva perfettamente che tale straordinaria esperienza spirituale non era la cosa piú importante nella vita: non era tanto importante il dono della contemplazione — che pure è un dono che va accolto con riconoscenza — quanto piuttosto il compimento della volontà divina: «Al Signore non piace che io cerchi questo dono della contemplazione, ma che studi di morire a me stesso e di attendere solamente alla santa sua volontà»; «Signore, fate che io sempre cerchi di fare la vostra volontà divina in tutte le cose, e non me la fate trovare mai: fate che io la faccia, e non me la fate conoscere»; «Fa’ di me quello che sai e vuoi, senza saperlo io né prima né poi».


La grazia dell’apostolato

Per indicare la conversione, che abbiamo cercato di descrivere, solitamente viene usata dai biografi l’espressione “vocazione alla vita contemplativa”; personalmente preferisco usare un’altra locuzione, che ho trovato in Madre Teresa di Calcutta, e cioè “vocazione nella vocazione”. Credo che sia un’esperienza spirituale che ciascuno di noi deve fare, perché nessuno viene chiamato una volta per tutte; all’interno della propria vocazione ciascuno di noi riceve, prima o poi, una seconda chiamata; e questo è proprio il caso del Bianchi. Prima di questa “seconda vocazione” non è che egli fosse un peccatore: era sicuramente un buon religioso; ma a un certo punto si sentí chiamato a una vocazione piú alta. Ora, l’espressione comunemente usata — “vocazione alla vita contemplativa” — non mi sembra del tutto appropriata, perché potrebbe essere fraintesa: il Bianchi non diventò un monaco; con questa vocazione egli divenne piuttosto un apostolo. Leone XIII lo proclamerà “Apostolo di Napoli”. Giustamente, a questo proposito, qualche biografo ha parlato di “vocazione apostolica” del Bianchi, perché il suo apostolato cominciò proprio dopo questa esperienza mistica. Naturalmente si tratta di un apostolato che non consiste in quella agitazione fine a sé stessa che spesso contraddistingue la nostra azione pastorale e che non produce nessun frutto; ma un apostolato vero, che agisce in profondità, che trasforma le coscienze: molti cuori induriti si convertivano, molte anime tiepide intraprendevano i sentieri della santità.

Il Bianchi usciva poco dalla sua camera; negli ultimi anni non usciva piú, perché completamente immobile; eppure esercitava una profonda influenza nell’ambiente napoletano. La sua camera divenne meta di un incessante pellegrinaggio, al punto che gli rimaneva pochissimo tempo per sé. Disse una volta: «Carità vuole che io serva nel giorno al bisogno altrui, a me penso la notte».

Nonostante il suo rigore, era estremamente umano verso i fedeli; fece questa raccomandazione ai confessori: «Badiamo noi confessori: quando Iddio batte un’anima, non abbiamo da consigliarle altre mortificazioni, che riuscirebbero importune e forse nocive. Quando poi Iddio smetterà di batterla, potremo sí consigliarle di battersi da sé stessa, ma non siamo mai due in un tempo a battere». Allo stesso tempo era però molto esigente con quanti si sottoponevano alla sua direzione. Diceva: «Anime tapine, non ne voglio vedere».

La sua parola infiammava il cuore degli ascoltatori. Qualche testimone ha lasciato detto: «Sembrava un serafino, a parlarmi». Spesso bastava la sola presenza, bastava uno sguardo, un segno di croce sulla fronte, la mano sul capo, un abbraccio al petto, per trasformare le anime. Quelli che lo avvicinavano sentivano la presenza di Dio e, una volta accostatolo, non lo lasciavano piú. La sua vicinanza riempiva di pace. Un altro testimone disse: «Io entro qua pieno di inquietudine e ne riparto interamente tranquillo».


Il dono della profezia

L’esperienza mistica e apostolica non distolse il Bianchi dalla partecipazione alla vita sociale e politica del suo tempo. Non si tratta naturalmente di un intervento diretto: non è compito del religioso o del sacerdote immergersi nelle questioni temporali; ma neppure egli può rimanere neutrale, come spesso facciamo noi. Il Bianchi esprimeva un giudizio sulle vicende politiche del suo tempo.

Quando le case napoletane dei Barnabiti furono separate da Roma, nel 1789, egli non volle contribuire all’elezione di superiori indipendenti; continuò sempre a sentirsi dipendente dai legittimi superiori della Congregazione.

Incontrò anche il duca Carlo Emanuele IV di Savoia e sua moglie Maria Clotilde, che erano stati spodestati al termine della prima campagna di Napoleone, nel 1798. Vennero a Napoli e si incontrarono col nostro Santo, il quale cercò di confortarli.

Si oppose alla Rivoluzione napoletana del 1799 e non permise ai suoi discepoli di arruolarsi nella Guardia nazionale, costituita per l’occasione. Anticipò anche le violenze che si sarebbero scatenate il 15 giugno di quell’anno, al termine dell’esperienza della Repubblica partenopea, quando l’Armata della Santa Fede entrò in Napoli. Previde pure la brevità della restaurazione borbonica (che infatti durò soltanto fino al 1806).

Rifiutò il giuramento di fedeltà, richiesto da Giuseppe Bonaparte e non lo permise ai suoi discepoli. Fece in modo che diversi suoi discepoli non facessero il servizio militare, quando fu disposta la leva militare obbligatoria: i giovani, che erano stati già arruolati, all’ultimo momento venivano inspiegabilmente rimandati a casa. Fu anche minacciato di arresto; ma, nelle condizioni in cui si trovava, fu impossibile procedere.

Alcune delle profezie politiche a cui abbiamo fatto cenno. Quando Giuseppe Bonaparte nel 1808 lasciò Napoli per andare in Spagna, sentite che cosa disse il Bianchi a un suo amico: «Hai veduto la partenza di Giuseppe Bonaparte? Egli va nella Spagna e di là comincerà la mano del Signore a umiliare i francesi ... Iddio vuol mostrare l’opera sua. Vedrai che dalla Spagna avrà principio la depressione francese; se altri potentati l’avessero fatto, si sarebbe attribuito il trionfo alla forza umana». Si sta riferendo proprio alla grande insorgenza spagnola, in un momento nel quale nessuno avrebbe potuto sospettare il tramonto dell’astro napoleonico. Disse ancora: «La rovina dei francesi comincerà dalla Spagna, mentre Dio per abbatterli si servirà degli spagnoli».

Nel 1812, durante la campagna di Russia, fu fatto cantare nel Duomo di Napoli, come in tutte le città, un Te Deum di ringraziamento, per celebrare la vittoria. Come reagí il Bianchi? Disse: «Avrebbero fatto meglio a cantare il Miserere ... San Michele con la sua spada ha già distrutto quasi tutta l’armata francese entrata in Mosca. Un’anima — ovviamente è lui l’anima — ha veduto questo nella sua orazione. Notate questo giorno; e a suo tempo saprete che cosa ha fatto la mano del Signore».

All’inizio del 1815 (il 31 gennaio di quell’anno sarebbe morto) disse: «Questo è l’anno felice, l’anno della misericordia del Signore, l’anno che, dissipato il governo francese, risalirà sul trono il re Ferdinando!». E cosí avvenne.


Conclusione: “luce e speranza in un tempo di crisi”

Vorrei terminare con qualche riflessione. Il titolo di questa conferenza era: “San Francesco Saverio Maria Bianchi, luce e speranza in un tempo di crisi”. Abbiamo detto che il “secolo dei lumi” fu un’epoca piuttosto oscura per la Chiesa: un tempo di crisi, appunto. Abbiamo anche detto che questo secolo buio fu illuminato dai santi, fra i quali il Bianchi. Il nostro confratello costituisce una “luce”: in mezzo alle tenebre, egli tenne accesa una lampada e tale lampada permise ai suoi contemporanei di vedere la strada da percorrere. Nel momento della desolazione, egli fu un segno di speranza e di consolazione.

Il nostro Santo fu “luce e speranza” specialmente per i Barnabiti di duecento anni fa. Mi sembra emblematico che egli trascorse gli ultimi sei anni della sua vita e morí fuori della Congregazione (è vero che essa era stata già ristabilita a Roma nell’agosto del 1814; ma a Napoli fu ripristinata, come abbiamo detto, solo nel 1818). Potrebbe sembrare che egli segni la conclusione di una storia gloriosa; in realtà, con la sua umile esperienza, egli pose le premesse per l’inizio di una nuova storia. Gettò un seme che sarebbe germogliato dopo la sua morte. Per questo egli può, a buon diritto, essere considerato “secondo padre e fondatore” dell’Ordine. Potremmo — perché no? — applicare a lui la categoria di “riformatore”, prevista da sant’Antonio Maria Zaccaria nelle sue Costituzioni.

Piú o meno contemporaneo del Bianchi fu il cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802): quando nacque il Bianchi, il Gerdil aveva 25 anni; quando morí il Gerdil, il Bianchi era quasi sessantenne. Anche il Gerdil è una gloria della Congregazione, di cui possiamo andar fieri: senza ombra di dubbio è il piú grande filosofo cristiano del Settecento; fra i sette cardinali barnabiti, è forse il piú illustre; se non fosse stato per il veto dell’Austria, nella storia della Chiesa avremmo avuto un papa barnabita. Eppure oggi siamo qui a commemorare san Francesco Saverio Maria Bianchi, e non il cardinale Gerdil. Perché il Bianchi, dopo aver percorso, come il suo eminentissimo confratello, le vie della scienza, a un certo punto cambiò strada e si inerpicò per gli impervi sentieri della santità. E con la sua santità contribuí al rinnovamento della Chiesa e della Congregazione.

Ma il titolo della conferenza non specifica a quale tempo di crisi ci si riferisca. Certamente era un tempo di crisi il Settecento; ma non meno critica è l’epoca in cui viviamo. Può san Francesco Saverio Maria Bianchi costituire una “luce” e una “speranza” anche per il nostro tempo? Direi proprio di sí.

Innanzi tutto, egli ci insegna che, se vogliamo riformare la Chiesa e la Congregazione, dobbiamo, come lui, farci santi. Non bastano gli studi; non basta essere dei grandi filosofi o dei grandi teologi; bisogna diventare santi. Se vogliamo rinnovare la Chiesa, non bastano le riforme strutturali e pastorali — pure necessarie — promosse dal Vaticano II. Per essere attuali e un tantino polemici: se vogliamo purificare la Chiesa dalla corruzione e dall’immoralità, non bastano i processi o le nuove guidelines della Santa Sede contro la pedofilia; ci vuole la santità.

Ma, oltre a mostrarci un cammino da seguire, valido per tutti i cristiani, e in special modo per i sacerdoti, penso che, in particolare, san Francesco Saverio Maria Bianchi indichi in questo momento un percorso alla sua famiglia religiosa. Mi sembra assai significativo che in un momento in cui tutto intorno a lui stava crollando, egli puntò sull’essenziale: lui che era un dotto barnabita, dedito agli studi e all’insegnamento, a un certo punto piantò tutto e si concentrò sull’unum necessarium: preghiera, penitenza, ministero (soprattutto confessioni e direzione spirituale), osservanza regolare (per quanto glielo permettessero le circostanze). In tal modo egli ha tracciato un cammino valido anche per noi, che stiamo vivendo un’esperienza simile alla sua: tutto ci sta crollando addosso. Che fare? Spesso non sappiamo come regolarci: quali scelte fare per fronteggiare la crisi? Spesso ci illudiamo che ci sia bisogno di elaborare dei grandi progetti; e poi rimaniamo frustrati, perché ci accorgiamo che non abbiamo le forze per realizzarli. Ecco, il Bianchi ci indica una strada molto piú semplice: non curarsi dei fronzoli, per quanto illustri e benemeriti essi possano essere, e puntare all’essenziale. L’ha percorsa lui, questa strada; perché non provare a percorrerla anche noi?